Real Madrid-Juventus (28 febbraio 1962)

Le cronache di Monsù
1 marzo 1962

A freddo, Monsù commenta la sconfitta patita dalla Juventus, la sera prima a Parigi, nello spareggio dei quarti di finale contro il Real Madrid. La maggiore esperienza (e il gioco duro) dei Blancos costituiscono per Pozzo la causa principale dell'eliminazione. Ma i bianconeri si sono battuti bene, riscattando l'immagine negativa e corrente del calcio italiano. Interessanti, in queste riflessioni, l'apertura 'contro' le partite in notturna e il sempiterno tornare della memoria alle mitiche partite della nazionale italiana, nei sempre più lontani anni '30.


Parigi, 1 marzo.

Gli incontri in notturna - è un'affermazione che abbiamo già fatta e ribadita in altre occasioni - sono una calamità per certo tipo di giornalismo. L'uomo che ama riflettere, che vuole pensare a quello che scrive, che cerca, per lo meno, di dire cose sensate, non ha piacere di dovere buttare giù in fretta e furia, nello spazio di una decina di minuti, al telefono, davanti alla nevrastenia di coloro che devono ad ogni costo andare in macchina, tutta una materia che esige calma e considerazione. Le partite in notturna nel corso della settimana permettono di fare degli incassi che altrimenti andrebbero perduti. Sono i tempi che sono cambiati. Al giorno d'oggi sono i soldi che comandano. Problemi da risolvere per coloro che devono osservare e riferire.
Nella circostanza di mercoledì sera, una cosa ha fatto grande piacere a coloro che il passato non hanno dimenticato. La Juventus, col suo maschio e risoluto comportamento sul campo, ha riacquistato al calcio italiano le simpatie che esso aveva perduto, nella capitale francese, in questi ultimi tempi. Si è vista finalmente una squadra italiana lottare, combattere, attaccare e difendersi coi denti: portarsi insomma in modo degno del nostro nome.
Avrà perduto l'incontro della giornata, questa squadra. Ma ha tenuto alto l'onore della bandiera. Era cosa che da tempo non avveniva. Ed essa ha riempito di soddisfazione e di gioia le migliaia di italiani che erano accorsi al Parc des Princes. Non si tratta di nazionalismo, né di patriottismo. Si tratta puramente del piacere che si prova al vedere difendere con carattere e con orgoglio i colori che si rappresentano. Pur perdendo, ieri sera il calcio italiano ha segnato un punto a suo favore.
E' opportuno ripetere qui che, a gettare la sua spada sulla bilancia, è stato ancora una volta quel coefficiente ben prevedibile e che noi tanto conosciamo, dell'esperienza e del senso del mestiere. L'undici madrileno, soverchiato in slancio, battuto in velocità, ha avuto il grande merito di non perdere la testa nei momento in cui poteva, e forse anche doveva, crollare.
E' ricorso alla durezza del gioco, ed anche alla violenza, quando si è visto in pericolo questo undici. La cosa non deve meravigliare. Fa parte del repertorio di troppi giocatori suoi. Sanno picchiare sodo, e da furbi - da vecchie volpi - questi uomini. A noi che siamo altrettanto esperti quanto loro in materia, per averne viste più di loro di tutti i colori, non ci si possono venire a raccontare storie al proposito. Nel 1934, nel corso del primo Campionato del Mondo da noi vinto, la prima del le due partite - disputate in due giorni consecutivi - a Firenze, fu un combattimento all'ultimo sangue. Loro si lamentavano, ma uno dei nostri ragazzi, il Pizziolo della Fiorentina, andò all'ospedale con una gamba rotta, ed ogni singolo nostro uomo sanguinava letteralmente.
Allora, però, noi avevamo in squadra dei giocatori che conoscevano anche l'arte del difendersi, e che sapevano rendere pane per focaccia, tipo Allemandi, tipo Monzeglio, tipo Monti. Nella vita, la prima regola è quella di essere corretti: la seconda è quella di saper essere corsaro e mezzo verso coloro che nei nostri riguardi sogliono fare il corsaro. E' l'unico modo per ottenere rispetto nella «giungla» degli interessi e delle passioni. Nella partita di ieri sera, Charles fu colpito da un calcio ad una costola mentre era a terra. Cosa brutta e cattiva.
Non è più il Real Madrid di una volta, quello di questa Coppa dei Campioni. Il cervello è forse ancora il medesimo, le gambe non sono più quelle di un tempo. Gento, l'ala nistra, ebbe uno spunto solo di grande velocità ed intraprendenza, nel secondo tempo. Di Stefano fu semplicemente - come da tempo - il regista, non più il combattente. Ed i due mediani laterali, Felo e Pachin, passata la folata iniziale, quella della prima rete, furono presi da una specie di «timor reverenziale» e più non si permisero voli pindarici nelle linee avanzate della loro squadra. La via che percorrerà il Real Club de Madrid nell'ulteriore corso di questa Coppa dei Campioni, è da seguire col più vivo degli interessi. E' questa, una delle svolte storiche nella epopea del grande sodalizio spagnolo.
La Juventus ha chiuso la sua avventura internazionale Essa ha bene meritato della causa del calcio italiano. Merita il plauso degli sportivi nostri.

Pallammare

L’ultimo finì in mare la mattina del 14 giugno, al largo di Cabo Branco, latitudine 4°48” sud e longitudine 28°06” est. I magazzinieri ne avevano imbarcati una sessantina, più 30 pallette di gomma leggera: basteranno, avevano pensato.
Muccinelli provò un pallonetto a Omero Tognon. «At faz ved mè, come si gioca al palòne!» diceva mentre gli palleggiava torno a torno come una pulce giocoliera. «Mona d’un puteo!» si spazientì Omero tirandogli un’epica spallata. L’Ermes finì lungo disteso, il pallone rimbalzò sul ponte, poi sulla murata, quindi sparì di sotto. Plof.
«Pallammare!» vociò Riccardo Carapellese da Cerignola: ma a nessuno venne più da ridere. Quello era l’ultimo pallone buono, rimediato insieme a pochi altri dopo lo scalo a Las Palmas. Mancavano ancora 4 giorni ad arrivare a Rio e tutti i palloni erano finiti in mare.

Dopo il primo allenamento, la mattina del 3 giugno – si era in vista delle Egadi – , ne erano già volati quattro fuori bordo: il piede-senza-complimenti di Carletto Annovazzi non aveva preso le misure del ponte. «O grullo, un si dee miha tirare ’n codesto modo! Sennò come ci s’arriva ’n Brasile? Senza palle?”. Commentò la vocetta di Veleno.
E ancor prima di arrivare a Gibilterra, di palloni ne restarono meno della metà. A qualcuno dello staff tecnico cominciò a venire il sospetto che i ragazzi lo facessero apposta.

Foto della "Sises" con autografi degli azzurri
(Centro Studi Nove Gennaio Millenovecento)

È che a stare tutto il giorno sulla nave c’era da morire di noia. Due settimane tutte così: sveglia alle 8.30, alle 9 la pesata, alle 12 il pranzo, il tè alle 17, la cena alle 19.30 e poi tutti a letto entro le 22.30.  Nel mezzo, qualche allenamento sul ponte, lezioni di tattica e poi ... poi passare il resto della giornata era un bel problema. Sì, d’accordo, c’era la piscina, c’erano le carte, si giocava a piastrelle sul ponte, si organizzavano tornei di ping-pong, la sera si andava al cinema. Fifa e arena, con Totò, aveva sciolto noia e tensione in tante risate; Narciso nero, con Deborah Kerr e Jean Simmons, aveva invece causato un certo rimescolamento ormonale e non è che ce ne fosse bisogno ...

Di andare in aereo, come avevano fatto tutte le altre squadre europee, era fuori discussione. Solo un anno era da Superga: paura, scaramanzia, rispetto per la memoria ... Si prenotò allora l’intera prima classe della motonave Sises: partenza da Napoli il 5 giugno; arrivo a Rio de Janeiro il 18; previsto uno scalo a Las Palmas de Gran Canaria l’8 giugno.

Alla IV edizione dei Mondiali di calcio, l’Italia si presentava da campione del Mondo in carica, avendo vinto nel 1938 l’ultima edizione disputata prima della lunga interruzione causata dalla Seconda guerra mondiale. Dei ventidue convocati solo Amadei e Campatelli già giocavano, giovanissimi, in serie A, quando Peppin Meazza e compagnia conquistavano a Parigi il secondo titolo mondiale. Poi venne la bufera. La faticosa ripresa e i brevi anni della leggenda del Grande Torino, interrotta in un pomeriggio di maggio del ’49, sulla collina di Superga

Mettete ventidue giovanotti in ritiro pre-mondiale, e imbarcateli per due settimane di un’estate incipiente su una motonave che attraversa l’Oceano Atlantico. Sarebbe potuto sembrare quasi una vacanza: la benedizione da papa Pacelli, gli auguri del sottosegretario Giulio Andreotti, la folla festante al molo Beverello. Molti di loro era la prima volta che salivano su una nave. Allenamenti blandi, poca palla, tanta ginnastica, ma senza mai esagerare. Rade notizie giungevano dall’Italia via cablogramma. Gli auguri delle autorità. Gli aggiornamenti sul Giro d’Italia: Coppi che cade alle Scale di Primolano e si frattura il bacino; il vecchio Bartali che non può nulla contro lo svizzero Hugo Koblet, primo straniero a vincere il Giro.
Si sprecano le foto di rito: gomito appoggiato alla murata, sorriso sotto gli occhiali da sole, mare all’orizzonte, qualcuno che indica lontano un punto, un’isola, forse un delfino.   

Anche l’inviato della Gazzetta dopo qualche giorno non sa più come tirare il pezzo: non succede niente, comincia a fare un soffoco appiccicoso da sgonfiare anche il più tonico degli atleti, di notte dentro le cabine non si riesce a dormire. Per non parlare poi di quando l’Oceano si risveglia incazzato che non si più distinguere l’acqua del mare da quella del cielo: reggersi in piedi fino alla porta dei gabinetti è già un bel risultato. Ma il tono del reporter è, per contratto e amor di patria, entusiasta: «Tutto va ben, madama la marchesa!». Alacre partecipazione agli allenamenti, attenzione al mantenimento del peso, graduale smaltimento degli acciacchi di fine campionato, umore ottimo della compagnia ...
Neppure un dubbio sulla composizione della commissione tecnica: gli allenatori sono due, Sperone e Ferrero, e addirittura tre i commissari tecnici: insieme ad Aldo Bardelli e Roberto Copernico, guida il “triumvirato” Ferruccio Novo, vicepresidente federale e “padre” del Grande Torino. Novo però, causa un’indisposizione un po’ sospetta, decide di rinviare il viaggio e di raggiungere la squadra in Brasile in aereo. Non si capisce chi deve comandare e nell'incertezza nessuno decide. 
Ad esempio, a chi sarebbe toccato giocare in porta? A Sentimenti IV, a Moro o a Casari?
Lucidio Sentimenti, detto Cochi, da Bomporto, Modena, era il quarto fratello della famiglia che ha dato più figli al calcio italiano. Giocava nella Juventus ed era uno dei pochi che era riuscito, qualche anno prima, a “macchiare il monocolore” granata in nazionale: l’11 maggio del 1947 fu l’unico azzurro non del Toro a scendere in campo contro l’Ungheria. Presa, colpo d’occhio, uscite spericolate sui piedi dell’attaccante, Cochi batteva anche i rigori: quando ancora giocava nel Modena, nel 1942, ne segnò uno al fratello più grande, Arnaldo, portiere del Napoli. Pativa però l’emozione: a Vienna, nel 1947, ne beccò cinque e Carosio iniziò a dire in giro che Cochi non ci vedeva ...
Bepi Moro, trevigiano di Carbonera, aveva due gambe lunghe e una testa matta: parate impossibili e papere colossali. Alla sua seconda partita in nazionale, a Londra, White Hart Lane, contro l’Inghilterra, parò tutto per 75’, che gli inglesi se lo ricordano ancora adesso: a chiederglielo, neanche lui sapeva come riuscì a prendere un tiro di Mortensen da due passi. Poi, improvvisamente, il buio e in 4 minuti furono due le palle da raccogliere nel sacco. Anche per lui i rigori erano una specialità: però nel pararli. Si piazzava tutto da una parte, l’attaccante andava in confusione e lui la prendeva più spesso di chiunque altro: in carriera ne parò 16 su 44, uno su tre.
Il terzo portiere era Beppe Casari, l’unico che all’udienza papale il giorno prima della partenza, invece di baciare l’anello pontificale, strinse la mano a papa Pacelli e con roboante accento bergamasco disse «Piacere Casari!».

Nessuno decideva e i palloni intanto continuavano a finire in mare.

Finalmente l’8 giugno scalo alle Canarie per una sgambata contro una squadra locale. Si vinse facile, e si giocò alla grande: i cronisti esaltarono Gino Cappello, genio e sregolatezza per definizione. Padovano, Cappello era un campione senza volerlo: proprio perché non voleva esserlo. Alto, dinoccolato, aveva i numeri del fuoriclasse: dribbling, potenza, precisione. Peccato però: per lui le partite erano dei lunghi intervalli di pigrizia tra una giocata e l’altra.
Il 9 giugno la Sises riprese il suo viaggio: l’attendeva una lunga e ininterrotta traversata di dieci giorni. Per far passare il tempo i ragazzi se le inventarono tutte. Gli scherzi in piscina di Lorenzi e Muccinelli. La visita alla sala macchine: il buio, il rumore, il fumo e la puzza, e molti se ne tornarono di corsa in coperta. Una tristissima festa in maschera per il passaggio all’Equatore. Qualcuno intanto cominciava a metter su chili: non bastava certo quel quarto d’ora di salto con la corda ... Dieta. C’è chi proponeva di regalare tutti i giorni il dolce del menù ai bambini della terza classe. C’erano infatti famiglie che sulla Sises viaggiavano per raggiungere i mariti e i padri emigranti in Brasile: i bambini stavano con gli occhi incollati davanti ai calciatori che si allenavano (si fa per dire…).

A complicare le cose ci pensarono i medici: basta piscina, fa troppo caldo, si rischiano le scottature. Meglio stare riparati al pomeriggio. Aldo Campatelli faceva i giochi di prestigio con le carte, ma il divertimento durava poche ore. Casari e Sentimenti correvano in bagno non appena la nave si metteva a ballare. Amadei, Tognon e Caprile leggevano, o provavano a farlo, mentre Lorenzi e Muccinelli non la smettevano mai di parlare e di scherzare. Carapellese smoccolava in cerignolese, Boniperti li guardava con aria da contabile e disapprovando. Veleno lo chiamava “Marisa”: ma senza farsi sentire, se no erano guai.

A Ivano Blason arrivò la notizia che la Triestina lo aveva ceduto all’Inter: pensieroso, si chiedeva come avrebbe fatto a Milano a coltivare i meli che aveva piantato a S. Lorenzo di Mossa, sui colli goriziani. Osvaldo Fattori, quando non parlava in dialetto col compagno di squadra e compaesano Giovannini – sono tutti e due veronesi di S. Michele Extra – pensava che solo due anni prima l’Inter era lì lì per scambiarlo con Valentino Mazzola. Poi non se ne fece nulla e andò come andò a finire.
Anche Cochi Sentimenti ogni tanto guardava il mare e pensava a quello che aveva trovato nel portafoglio di Bacigalupo, dopo la sciagura di Superga: una sua foto, proprio una sua foto, chissà perché ...
Anche se da un anno giocava nell’Inter, Amedeo Amadei, l’“Ottavo Re de Roma”, nel portafoglio ci teneva invece la foto della sua Roma campione d’Italia nel 1942: non erano tempi per festeggiare e l’unica nota di allegria erano i cappelli da berzajere che s’erano messi in testa i giocatori.
Scuro come un saracino Riccardo Carapellese, sul lettino dei massaggi, si incantava a pensare a un anno prima quando da capitano guidò per la prima volta la nazionale dopo Superga: a Firenze, allo stadio c’erano 85.000 spettatori e tutti piansero ancora una volta quando lo videro entrare tenendo per mano i figli piccoli di Valentino Mazzola.
Il pesarese Zeffiro Furiassi, Rino per gli amici e per nascondere un nome che avrebbe svelato la passione rossiniana del padre, sognava a occhi aperti il giorno dell’esordio in nazionale.
Quando non faceva la spalla comica a Veleno, Ermes Muccinelli passava il tempo a smoccolare perché sulla nave non si trovava neanche una bella signora da invitare a ballare: a Torino, lui, conosceva tutti i night dove al momento di pagare diceva sempre di segnare sul conto dell’Avvocato.

Sulla Sises il diktat della commissione tecnica era niente alcol e niente fumo: a seguire però la nuvoletta che sbuffava da dietro una scialuppa non si sbagliava mai. Ci avreste trovato Carletto Parola: per lui, unico italiano a far parte di una selezione del Resto del Mondo che aveva sfidato a Wembley nel 1948 i maestri inglesi, si poteva chiudere un occhio. Certo che sul ponte di una nave sarebbe stato difficile ripetere la leggendaria rovesciata inventata pochi mesi prima. Flash-back.

15 gennaio 1950, Fiorentina-Juventus. La partita sta per finire e anche i fotografi a bordo campo stanno riponendo le macchine nelle loro custodie. Soltanto uno, Corrado Magli, sta ancora appostato con la sua Leika dietro la porta della curva Fiesole. A Corrado scappa, non ce la fa a resistere fino ai bagni; allora scende nella buca del salto in lungo, svuotata di sabbia. Lì non lo vede nessuno, o quasi. “Ah, che sollievo”, pensa, ma improvvisamente il rumoreggiare del pubblico lo richiama a guardare quello che succede in campo. Un ultimo assalto viola: Magli lancia lungo Pandolfini. Tra lui e la porta di Sentimenti c’è solo Carletto Parola che pare in ritardo sulla corsa e sta per essere scavalcato dal pallone. Non resta che una cosa da fare: tentare un rinvio al volo. Destro d’appoggio, sinistro di slancio e richiamo col destro a sforbiciare: pallone colpito di collo pieno e rinviato. Lo stadio in piedi. Mai vista una cosa del genere. Corrado, anche nel momento del “bisogno”, non ha mai mollato la sua Leika: è pronto a scattare, propriò lì, dal fondo della buca. E da quell’angolatura, dal basso in alto, Carletto e la sua rovesciata vengono fissati per sempre, come sospesi nel vuoto.
 A questo forse pensava Carletto “Gauloise” quando anche l’ultimo pallone rimbalzò fuori bordo. “Pallammare!” gorgheggiò Carapellese, che pareva una romanza di Mascagni, di Cerignola come lui.

Fu così che tutti i palloni finirono in mare.

Fu così che i 22 azzurri stravaccarono al porto di Rio il 18 giugno, bolsi e decotti per l’interminabile traversata, quasi infastiditi dalle decine di migliaia di emigranti tifosi in festa, che pareva di essere tornati a Napoli, invece di essere in Brasile. Che i due allenatori e i due CT continuarono a non decidere chi dovesse giocare. E che il 25 giugno, all’Estadio Municipal de Pacaembu, la Svezia di Hasse Jeppson e Nacka Skolglund con un 3 a 2 timbrò agli azzurri il biglietto di ritorno. Questa volta in aereo.


Gino Cervi

da Em Bycicleta, Ogni quattro anni. Racconti mondiali
Albalibri, Rosignano Marittimo, 2006


Italia-Ungheria (finale della Coppa del mondo 1938): la vigilia

Le cronache di Monsù
18 giugno 1938

Immaginare il Brasile, il suo calcio, la sua Seleçao come qualcosa di poco conosciuto (e perciò temibile) in Europa sembra oggi ovviamente impossibile. Eppure, ai mondiali del '38, era così; del resto, nel vecchio continente o Brasil aveva fatto capolino per l'ultima volta nel '34, e senza impressionare - anzi. Anche Pozzo - esperto come pochi di calcio internazionale - metteva spesso l'accento sulle qualità imperscrutabili dei sudamericani. I quali certo non nascondevano, come si sa, la propria presunzione. A Marsiglia furono dominati da un XI maturo, abituato a giocare match di quel tipo, e soprattutto ormai abituato a vincerli. Ora mancava solo l'ultimo tocco, a perfezionare un ciclo e il capolavoro del suo artefice. La finale, contro l'Ungheria. Monsù presenta il match ai  lettori, sopraffatto - come si vedrà - dall'emozione. Ma non senza grande fiducia nei suoi uomini.


Saint Germain, 18 giugno.

Ultima giornata del torneo. Ultima fatica degli azzurri. In gara più non sono che l'Italia e l'Ungheria.
La strada percorsa dalle due squadre finaliste per giungere fin dove esse sono giunte è nota nelle sue diverse tappe. E' meno conosciuta nella natura delle fatiche sostenute. Natura che è stata ben differente nell'un caso dall'altro. Tutte le difficoltà sono state riservate dalla sorte e dagli eventi all'Italia. Nulla di facile vi è stato per essa. La tappa che pareva e doveva essere la più facile ha finito per essere la più ardua, si parla della prima, quella della Norvegia. Superata, grazie all'eccellente condizione fisica dei nostri uomini, questa tappa, ecco spuntare la Francia sotto forma di una grossa, di un'immane questione psicologica, di un problema dalle proporzioni morali enormi, schiaccianti per ragioni che collo sport del calcio poco avevano a vedere o che allo sport del calcio soltanto incidentalmente si collegavano. Superata anche questa, ecco farsi avanti il Brasile, proprio lo spauracchio del torneo, l'avversario più sconosciuto, proprio il contendente tecnicamente più temuto. Mano a mano la squadra italiana come uno strumento sensibile, come un motore che risponde alle sollecitazioni delicate o vigorose che gli si rivolgono, si eleva all'altezza delle situazioni che le si presentano. E gioca una volta meglio dell'altra: a Parigi meglio che a Marsiglia - e ci voleva poco -, a Marsiglia ancora meglio che a Parigi. E può far di più ancora. Alla finale gli azzurri giungono stanchi, doloranti per ferite, nervosi ma in condizioni di dire la loro parola. 
Nulla di tutto ciò per l'Ungheria. Primo avversario, le Indie olandesi. Passeggiata degli asiatici in Europa. Passeggiata degli ungheresi contro di essi. Secondo avversario, la Svizzera, incompleta e affranta da 210 minuti di gioco contro la Germania: facile vittoria. Terzo avversario: la Svezia. Avversario inesistente. I magiari fanno assolutamente quello che vogliono. Risultato, essi giungono alla finale come una delle poche squadre che non hanno dovuto giocare tempi supplementari. Non ha sudato l'Ungheria per giungere fin dove è arrivata. 
Ecco i due finalisti. Si conoscono. Si guatano. Sanno cosa pensare l'uno dell'altro. Si sono incontrati tante di quelle volte in Italia e in Ungheria, su terreno neutro mai, che non hanno incognite l'uno per l'altro. L'incognita, l'incertezza, è data dalla specialità dell'occasione, dall'importanza della posta. 
Ultima giornata del torneo. Ultima fatica. Gli azzurri l'attendono quest'ultima fatica con cuore fermo. Il torneo ha provato loro che la squadra è all'altezza di tutte le situazioni che si possono nell'interno della competizione verificare. Lasciata a sè, allontanati cioè coloro che con tutto l'amore e la passione non facevano che fare un gran male, essa ha superato tutte le crisi, ricostituito tutte le energie, ripreso il possesso di tutte le facoltà. E gioca come nei suoi momenti migliori. 
L'errore che si può commettere d'altra parte nell'attuale situazione è quello di giudicare l'Ungheria sul valore delle prove fornite finora nella competizione. Lo stesso errore che hanno commesso gli altri nel valutare noi sulla prova fatta contro la Norvegia a Marsiglia. L'Ungheria sa giocare molto meglio di quanto non abbia mostrato fino ad oggi. Gl'italiani lo sanno. 
Ultima giornata di un torneo che ha rappresentato uno sforzo dei più duri. Ultima di una serie di fatiche materiali e morali che resteranno impresse nel ricordo di coloro che le hanno sostenute. Gli azzurri non parlano di timore, non ostentano sicurezza. Tengono il contegno che hanno sempre tenuto prima dei momenti decisivi. Stanno zitti. Lasciano che la volontà scavi il suo solco profondo e produttivo nella mente e nel cuore. Sanno cosa ci si attende da essi, a casa. Ancora una volta faranno il loro dovere.