L'ultima cronaca di Monsù


Da Bologna, meno d'un mese prima di andarsene, Vittorio Pozzo detta il suo ultimo pezzo per "La Stampa". E' andato a vedere Bologna-Milan, partita di cartello della domenica di campionato. Il resoconto di Monsù è breve ma preciso. Forse un po' stanco.

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Bologna, lunedì mattina [25 novembre 1968]

A Bologna, l'episodio più interessante dell'ottava giornata del campionato, i rossoblu emiliani sono riusciti ad infliggere la prima sconfitta del torneo al Milan capolista. Un risultato non del tutto prevedibile. E' servito al Bologna per dimenticare le amarezze della sconfitta di domenica scorsa a Bergamo e la delusione d'esser eliminati dalla Coppa delle Fiere; ed è costato caro al Milan, che ha perso il primo posto della classifica a vantaggio del Cagliari. La gara è stata molto vivace ed interessante, all'insegna di un pressoché perfetto equilibrio. Nel primo tempo, il Milan ha fatto registrare un sia pur lieve predominio, che, però, non è riuscito a tradurre in goal. Il Bologna, dal canto suo, ha retto benissimo il confronto. Sostenuta a gran voce dal pubblico, con Bulgarelli in funzione dì regista ed impegnato a disputare a Rivera il ruolo di miglior uomo in campo, la squadra di Cervellati si è sempre difesa con notevole ordine, ed è passata in vantaggio grazie a Muiesan, che, intervenendo di testa su un tiro di Turra, sorprendeva il portiere milanista Cudicìni. I rossoneri, trovatisi in svantaggio, reagivano con vigore, ripartendo all'offensiva, senza però farsi mai veramente pericolosi. L'assalto del Milan è continuato si può ben dire per l'intera ripresa. Il Bologna si arroccava, tenace e testardo, i rossoneri commettevano qualche errore, forse per eccessiva precipitazione. Di attimo in attimo, sembrava che il Milan potesse raggiungere quello che sarebbe stato meritevole pareggio, ma, quando gli attacchi degli uomini di Rocco si facevano più pressanti, ecco allora venire di scena Vavassori. Il numero uno bolognese ha compiuto una serie di eccellenti parate, il successo dei bolognesi è, in discreta parte, suo. In un clima di assoluta e confortante correttezza, sia sul terreno come sugli spalti, la sfida è andata verso la fine, sempre con il Milan disperatamente proteso verso la rete dei padroni di casa. Ma, nonostante numerose emozioni, sottolineate dal coro degli spettatori, il risultato più non doveva cambiare, i rossoblu lasciavano il campo festosi, dopo aver sostenuto, senza alcun dubbio, la loro miglior partita dell'attuale campionato. Il Milan è uscito sconfitto, però a testa alta. Ha esercitato nel primo tempo una discreta superiorità, ha dominato nella ripresa. Vanta al suo attivo parecchie azioni che avrebbero potuto portare al goal, ma la giornata non di vena eccezionale da parte dì qualche elemento della prima lìnea, insieme al momento di grazia di Vavassori, hanno significato una sconfitta che, comunque, i rossoneri hanno accolto senza imbastir dei drammi. Da parte del Milan, quasi a siglare la correttezza della gara, c'è stato anzi un simpatico riconoscimento delle qualità degli avversari. Da segnalare infine che entrambe le compagini si sono servite del tredicesimo uomo. Nel Bologna, l'esordiente Scala ha sostituito Pascutti (che rientrava dopo una lunga assenza) al 15' della ripresa, mentre, nelle file del Milan, Santin ha preso il posto di Trapattoni al 27' della ripresa.

"Stampa Sera", 25-26 novembre 1968, p. 7

Elogio dell'odiato football

Ai primi di settembre del 1992 iniziava il campionato, dopo la non felice esperienza olimpica degli azzurri guidati da Cesarone Maldini. Così ne salutava il ritorno Gianni Brera: l'ultimo che poté, solo parzialmente, seguire e commentare.

Mi accingo a salutare il ritorno del campionato, e subito echeggiano in me i versi folli di Lautréamont dedicati all'antico Oceano. Non così arcana è l'arte di Eupalla, nostra musa. E' un estro umano a rivalutare le mani posteriori, diventate nei millenni umili piedi. L'armonia dei mondi si riassume nel prillare di palle sempre meno astruse, non più di cuoio greve, non gonfie di bitorzoli, di stringature coriacee, abradenti. La fantasia dell'uomo si scatena in gesti fra la danza, la lotta, l'acrobazia, il furto con destrezza: la sola coordinazione a esprimere fa eleganza: ed è la sezione muscolare a esprimere potenza: parti ignote del piede trovano impatto con la palla e il terreno: e dico ignote per pietà dell'uomo, che si trova talvolta a posare la parte superiore della punta, misteriosamente impiegata a reggerlo, mentre l'altro piede si lancia a intercettare interdire anticipare interrompere la trama che l'avversario intesse, obbedendo a geometrie o nuove o risapute, secondo capacità di ritmo e di inventiva. Cito un gesto impensato nel quale io stesso incappavo quando le difficoltà agonistiche m'impegnavano oltre la norma. E il bello è che forse non cadevo. Dalla parte superiore della punta ricevevo la spinta necessaria a recuperare equilibrio, coordinazione, ritmo! E poi solitamente ridevo quando ginnasiarchi d'accatto pretendevano di riassumere in esercizi cervellotici i gesti propri del calciatore, magari attribuendo indebita ipertrofia a muscoli non necessari nel pedatare. Quali muscoli impieghi, comparuzzo? L'istinto ti induce a calciare. Tendi il braccio e la gamba cercando coordinazione. Il piede si adegua all'impatto, così le articolazioni. Giusto perciò che s'incominci a pedatare giovanissimi. Le gambe sono elastiche, ricche di osseina. La sensibilità sulla palla si acquisisce. Poi si studia la tattica. S'impara la geometria, si supera il solipsismo del bullo che è in tutti noi. 
Il calcio è gioco collettivo. Niente entusiasma come il successo comune. Ho avuto come fratelli ineffabili dispari del sottobosco sociale. Giocavamo insieme a calcio. Il nostro allenatore era Luserta (Lucertola), detto Weiss. Aveva questo nome l'ungherese che allenava l'Inter e avrebbe allenato il Bologna (chiedetene a Giorgio Faccioli, centromediano di alta statura). Ben cinque di noi venimmo scelti per la rappresentativa di Milano, e tre di quei cinque giocarono gli incontri annuali con il Torino. Il napoletano Formicola, scartato a 13 anni dall'Inter, batteva i corner di collo esterno sinistro emulando il divino Orsi e il più pragmatico Kossovel del Milan. Lui ed io restammo con la voglia di crescere e i femori corti dei popoli più antichi. Crebbero Campatelli e Montipò, longilinei di squisita eleganza. Campatelli inventò la teoria del riposo, della quale si scandalizzò il giovane cronista che era (fu giovane, sì) mio fratello. 
Per il calcio si può delirare. Ho delirato, delirerò ("quante evve!", mi deplorerebbe Mario Soldati, che scrive in filigrana d'argento, come un bigatto che secerne seta). G.P.O., che è pure invecchiato, avendo incominciato giovane assai, non però pedatando, ha l'aria di snobbare dall'alto il fenomeno calcio. Sbaglia a non confinare nel loro vieto limbo i ragazzetti esaltati dal modulo maldiniano. Li fa insultare dagli schermitori (bon, quei!); giudica atletica il basket e il volley ball: il calcio, invece una gnagnera viziosa e viziata. In occasione dell'Olimpiade sbagliamo a favorire i ragazzetti già miracolati in Europa. Come fatalmente deludono, ce la prendiamo, da isterici, con loro. In realtà hanno fatto più di quanto non si dovesse attendere uno che capisse il calcio (veh quanti congiuntivi). Favoriti dallo jus loci gli spagnoli; sospettabili di vittoria i poderosi polacchi non ancora contaminati dal dio uno e quattrino. Gli italianuzzi, quelli sono i resti negletti d'un mercatone che li ha esclusi da tempo. Ripetiamo le penose manfrine del guardone medioevale, il mento sulle transenne della lizza: entro la lizza in fervida giostra, i grandi campioni stranieri. Il solo italiano di sangue blu che affronti volentieri quel rischio è un Cecco Gonzaga tutto fiorito di sifilomi. Quando gli daranno il comando dell'esercito (?) italiano, il Taro in piena gli smonterà le piazzole dei cannoni, e fesso lui che ha scelto quella precaria golena per metterli in batteria. Torniamo ai nostri scartini. Sono sempre disposti a rischio in riva ad un torrente che può dilatarsi a scomposta fiumara. Li abbiamo esaltati prima e poi, delusi, li abbiamo mortificati come si meritavano (perfino gli schermitori, buoni quelli!). Maldini ha raccolto gli stracci e rifatto le valigie. Verrà dannato per colpe tutte italiane, anzi italianiste. 
Ora la lizza è pronta a ospitare le giostre più cattivanti. Siamo tutti col mento sulle transenne. Aspettiamo gli eroi presi in affitto. Sono venuti con la comprensione dei loro connazionali, tutti capaci di valutare il costo del denaro. La lira vibra come quella - ahi, metaforica - dei poeti, ma non v'è limite alla nostra malizia di guardoni. I campioni presi in affitto sapranno risparmiarsi quando la Patria (loro) li chiamerà al cimento. Allora noi toglieremo gli scarti dalle nostre depauperate barriques e li affideremo a un dio pelato ma rigeneratore: il modernissimo Arrigo: non quello atteso da Dante, ma il Sacchi originario di Mandello. E fia il combatter corto, ché l'italo valor non è ancor morto. Non dimenticare, Giovanni, che l'attacco di questa canzone era "Italia mia, benché 'l parlar sia indarno". Anche a me si svuotano le mani, cercando di afferrare questa sabbia. Le dita si fanno labile clessidra. 
Com'è facile sparlare di te, Musa Eupalla! Eppure ti abbiamo venerato, ti veneriamo. Il fenomeno calcio ha sveltito un intero popolo. Quando era questione di plus-calore, a pedatare andavano i principi del sangue. Poi i ricchi si sono accorti che la pedata non qualificava socialmente e sono tornati ai loro ludi tradizionali. A giocare hanno preso i piccoli borghesi, quelli che avrebbero vinto la guerra, portando fuori dalla trincea gente sulla quale era puntata la vigile mitragliatrice dei carabinieri. Oh yes. I piccolo borghesi hanno costituito il nerbo della pedata nazionale. Pensate ai piemontesoni delle incrollabili difese azzurre: chi non era ragioniere era geometra. E da queste parti il piccolo borghese, aspirante, vendeva frutta e verdura a Porta Vittoria. In Emilia si era mobili, come il lecchese Schiavio Stoppani, ingegneri, laureati; così in Toscana e nel Lazio: Bernardini; il conte Bompiani, poi diventato editore, e quale! Il calcio italiano ha incominciato a consistere, ad avere coscienza di sé quando sono maturati al mestiere di tecnico i giocatori che avevano studiato negli anni trenta: i Bernardini, i Foni, i Frossi, i Rava, i Rosetta, i Rocco, i Lerici, gli Scopigno, e prima di questi il mancato ragionier Gipo Viani, che la madre trevigiana aveva aiutato a scappar di casa negli ultimi anni venti (prima all'Us Milanese e poi all'Inter, giusto con Weiss). 
Adesso siamo una potenza mondiale che ha il torto di farsi bella con penne non tutte sue. Spendiamo troppi quattrini, tanti - ahimè - che qualcuno pensa agli ultimi dannati giorni di Pompei. Molti che giudicano le nostre armate hanno dimenticato che dagli anni 50 abbiamo esportato il modulo via via adottato in tutto il mondo. E costì i nesci irridono alla sola gloria di cui ci possiamo vantare. E' l'ignoranza a causare l'equivoco. Ignosce illis, Eupalla: essi non sanno e vanno perdonati. Anzi, che si godano il campionato aspettandosi ogni volta il meglio. Fino a primavera, buona domenica a tutti.

La Repubblica, 5 settembre 1992

La prima vittoria del Napoli a Torino

Un'istantanea dell'XI partenopeo nella stagione 1930-31
Le cronache di Monsù Poss
24 novembre 1930


Nel campionato 1930-31 la Juventus azzeccò un filotto di otto vittorie, dalla prima all'ottava giornata del girone di andata. Il 23 novembre ospitava tuttavia, al "Campo Juventus di Corso Marsiglia", il Napoli. Fu la prima sconfitta dei bianconeri in quel torneo, e - in assoluto - la prima vittoria dei partenopei in casa della Juve. Vittorio Pozzo così descriveva (senza alcuna particolare retorica) l'impresa.



Prima sconfitta della Juventus in Campionato. Sconfitta che desterà scalpore, per il modo, e le circostanze in cui fu subita. I bianco-neri si trovarono in svantaggio di un punto fin dai primi minuti dell'incontro. Cinque minuti di giuoco infatti non erano ancora passati, che già Ruscaglia aveva mandato la palla a finire nella rete. E non s'era giunti ancora alla mezz'ora che gli ospiti avevano segnato una seconda volta a mezzo dell'ex juventino Vojack I. Se il primo punto era stato segnato con la complicità del vento che aveva impedito a Combi di acciuffare la palla nel tuffo in cui s'era gettato, il secondo era stato frutta di una azione magistrale e di un tiro imparabile. Scombussolata e nervosa, la Juventus, pur reagendo con forza, non riusciva a diminuir nulla dello svantaggio prima che l'arbitro mandasse lo squadre negli spogliatoi per il riposo di metà lempo. 

La strenua difesa napoletana 

Alla ripresa le ostilità prendevano una fisionomia ben netta, e delineata. Era la vera fase conclusiva dell'incontro. La Juventus si lanciava all'attacco con tutte le forze di cui poteva disporre, col peso dell'intera squadra cioè. Attacchi su attacchi, avanzate su avanzate, offensive su offensive. La pressione era così costante e vigorosa che ad un certo punto anzi più non era il caso di parlare di attacchi: il giuoco aveva preso fissa dimora nella metà campo degli ospiti, con una certa tendenza anzi a soffermarsi nell'area di rigore. Chiusi nella propria metà campo, schierati davanti alla propria porta, i napoletani si difendevano a denti stretti. Tattica loro unica, la difesa; scopo loro esclusivo: giungere al termine dell'incontro senza che il punteggio o per lo meno il risultato subisse variazioni. 
E si assisteva allora ad una lotta disperata, che non aveva gran che di tecnico nel senso proprio della parola, ma che aveva una bellezza ed un interesse affatto particolari. 
Gli ospiti, abbandonato come abbiamo visto ogni proposito d'attacco, avevano richiamato in aiuto agli uomini di difesa il maggior numero di giuocatori possibile. Giuocavano con tre terzini e cinque mediani. L'area di rigore ne risultava piena, zeppa. Sul muro difensivo cosi costituito, i bianconeri sferravano e vedevano irremissibilmente infrangersi le loro avanzate. Non si passava. Di mano in mano che il tempo avanzava, attaccanti e mediani juventini diventavano più nervosi. Gli attaccanti cadevano tutti nel tranello del giuoco alto. Quando la palla giungeva nell'area di rigore, vi giungeva dall'aria: e si trovava naturalmente tutto un fascio di uomini pronti ad intercettarla od a rinviarla. Certo, come spesso avviene in simili circostanze, il caso e la fortuna contribuivano alla buona riuscita della tattica dell'unità che si difendeva. La rocca dei napoletani fu infatti quattro o cinque volte ad un nonnulla dal capitolare. Nella confusione parve anzi una volta che il pallone venisse da un difensore bellamente deviato con una mano. Ma il passare attraverso a quella barriera umana era in realtà un'impresa ben difficile. A passare riuscì ciò non di meno la Juventus, ma una volta sola, non quanto bastava per portare il risultato alla pari, nè tanto meno quanto occorreva per vincere. 

Il goal di Cesarini

Ad un quarto d'ora circa dalla fine dell'incontro, Orsi, stretto fra i due o tre avversari che gli facevano vigile e costante guardia, centrava alto proprio davanti alla porta. Due juventini e tre o quattro napoletani saltavano assieme. Cesarini toccava di testa la palla. Marietti, ingannato dal vento e disorientato dal groviglio che gli si era formato davanti, sbagliava il tempo nel suo salto. Mentre egli scendeva dal salto stesso, la palla gli andava a finire nella rete, dietro la schiena. Con un solo punto di svantaggio, la Juventus prese a dominare più energicamente di prima. Ad un dato punto i terzini bianco-neri stessi si portavano nella metà campo degli ospiti: Combi medesimo abbandonò la sua porta ed avanzò rinviando col piede i palloni che gli pervenivano. Nessun scopo pratico venne raggiunto. Palloni alti, passaggi a traiettoria, centri spioventi, tutto veniva intercettato. E d'altra parte, nessun allettamento riusciva ad allontanare gli ospiti dalla loro tattica puramente ed esclusivamente difensiva. Sallustro solo tentò di far qualche cosa da solo in linea di controffensiva, giungendo anche una volta a chiamare al lavoro Combi per una parata ben difficile. Il resto della squadra napoletana, con rinvii lunghi a destra ed a sinistra, portò l'incontro al suo termine, senza che la Juventus avesse potuto raggiungere il pareggio. 
Il primo punto a favore del Napoli, giungendo a pochi minuti dall'inizio ebbe una influenza diretta e preponderante sull'andamento dell'incontro. La Juventus sentì subito che la vittoria le sfuggiva, e fu fin dalle prime battute costretta a lottare per risalire uno svantaggio. Lottò con ogni buona volontà ed energia, bisogna riconoscerlo. Nella scorsa stagione i bianco-neri perdettero più di un incontro per quella specie di apatia di cui parevano cader vittima gli uomini suoi al momento in cui si trovarono di fronte a situazioni imbarazzanti. Ieri no. La squadra non fece economia di forze né di volontà. Più il suo comportamento tattico — assieme, beninteso, alla difesa chiusa e salda degli ospiti — che non permise questa volta ai suoi avanti di raccogliere il successo. Al momento in cui i napoletani si rannicchiarono nella propria area di rigore a tutto pensando fuorché ad attaccare ancora, l'intera squadra juventina si lasciò come assorbire dal vuoto che le si parava davanti. Quelle che dovevano essere raffiche partenti da lontano e rapide ed improvvise per poter aver ragione della difesa napoletana, divennero una .pressione costante e priva di forza di propulsione. Ogni possibilità di penetrazione venne per questo solo fatto compromessa. Il giuoco alto fece il rimanente. L'attacco fece una partita ben sconclusionata, con Ferrari nettamente fuori forma. Meglio per la Juventus che questa sconfitta sia giunta mentre la squadra ha tempo, senza esser pressata dagli eventi, di pensare ai casi suoi, e di porre rimedio agli inconvenienti oggi palesati. 
Ben difficile torna il giudicare il Napoli sulla prova di ieri. Ché la squadra dopo un vantaggio fulmineamente conquistato, rinunciò apertamente ad ogni giuoco costruttivo ad un certo punto. E' brutto per coloro che osservano senza interessi, né passioni e non é rallegrante per coloro che dal giuoco voglion trarre deduzioni tecniche; ma il campionato, con le sue ferree necessità, genera un tipo di egoismo che è comprensibile ed in certo qual modo anche giustificabile. Il Napoli vide ad un certo punto la possibilità di vincere vivendo sul vantaggio acquisito: e non fece complimenti, mandò a farsi benedire le esigenze di tecnica e di bellezza del giuoco, o converti l'intera squadra sua in un reparto difensivo. E riuscì nell'intento. 

Il giuoco del Napoli 

In questo giuoco, che fu un sacrificio dell'attacco, emerse il lavoro tutta energia e sicurezza di Marietti, Vincenzo e Castello. La seconda linea è composta di lavoratori duri, resistenti e coscienziosi. Nessuno degli uomini dell'attacco, a giudicare da quella parte del primo tempo in cui il giuoco fu aperto, ha raggiunto ancora il grado di forma della prima metà della stagione scorsa, per quanto Sallustro paia migliorato in combattività e Mihalic, l'uomo migliore della linea, in fatto di tecnica dia segni di avviarsi nuovamente verso la buona via. L'attacco, nella prima mezz'ora di giuoco,  portò una mezza dozzina di attacchi in stile eccellente. Il primo punto degli ospiti venne segnato da Buscaglia su centro di Sailustro che si era portato verso l'ala destra. Il vento impedì a Combi. gettatosi in avanti, di toccare la palla, e l'ala sinistra napoletana poté sospingere la palla nella rete da pochi passi senza difficoltà, Il secondo punto venne originato da un passaggio trasversale di Mihalic che tagliò fuori metà della difesa juventina. Sallustro, con abile finta, lasciò in possesso Vojack che con un violento tiro di sinistro mandò la palla a finire alta nella rete, Nel primo tempo, la Juventus mancò parecchie occasioni facili da segnare. Cesarini, fra altro, si lasciò sfuggire un pallone di grande facilità a pochi passi dalla porta.