Ungheria - Brasile (27 giugno 1954)

Le cronache di Monsù
28 giugno 1954

Ungheria-Brasile, quarto di finale della Coppa Rimet disputata in Svizzera nell'estate del 1954. Si gioca al Wankdorfstadion di Berna, teatro designato della finale. Pozzo è presente, il match è durissimo, uno dei più duri e cattivi nella storia della competizione. L'Aranycsapat, priva di Puskas, ne viene a capo, e Monsù ritiene sia un segno. Le cose poi andranno diversamente. Quanto al Brasile, finiva a Berna la prima fase della sua storia, e si avviava a costruirne una assai più gloriosa.


Berna, lunedì sera.
Addio desiderio di pace ad ogni costo, addio spirito sportivo e paterna tolleranza per evitare lo scandalo. La tempesta è scoppiata con violenza, e tutta in una volta. Tempesta vera e propria, con tre giocatori espulsi, con due rigori, con caccia all'uomo sul campo, con mischia finale a base dì bottiglie sulla testa al momento dell'entrata negli spogliatoi, con fotografi a gambe all'aria, poliziotti picchiati e giocatori e dirigenti magiari sanguinanti per ferite alla testa. La battaglia è stata vinta dall'Ungheria, e se essa non ha perso questa volta vuol dire che non perderà proprio mai. Vuol dire che il campionato del mondo lo ha già praticamente riportato. 
Si pensi. Un undici ungherese che entra in campo senza il suo capitano Puskas, che dopo una mezz'ora ha la sua ala destra Toth II ridotto a far da comparsa per uno strappo muscolare, e che più tardi viene ad essere privato per espulsione del suo uomo migliore, il mediano Bozsik, e vede l'incontro trasformarsi in una rissa, in cui la sua tecnica naufraga e scompare. E pur supera le vicissitudini della burrasca con fermezza d'animo, dando prova di una calma e di una freddezza impressionante nel momento in cui maggiormente viene a trovarsi in pericolo. No, questo incontro, che è stato il peggiore che abbiamo visto disputare dall'Ungheria da anni a questa parte, è quello che maggiormente ci ha convinto della potenza e del valore della sua squadra. E' nelle avversità che si giudica di quale metallo siano forgiati gli uomini. 
Sorpresa all'annuncio della formazione delle due squadre, che presentano ambedue notevoli modificazioni all'attacco. E sorpresa maggiore ancora all'inizio della partita. L'Ungheria segna subito, e all'8' minuto di già si trova in vantaggio per 2 a 0. Al 4' minuto, con mischia sulla soglia della porta brasiliana in seguito a un calcio d'angolo, pare debba segnare Toth II, ma la palla viene respinta fortunosamente: la riprende Hidegkuti, che ha sempre gli occhi aperti sulle situazioni buone, e spedisce in rete da pochi passi. Quattro minuti più tardi avanza Bozsik sulla destra: si ferma, vede Kocsis lontano, tutto solo sulla sinistra, al di là dello sbarramento centrale lo raggiunge con un passaggio alto d'una trentina di metri e forse più. Kocsis salta e depone la palla in rete, fuori della portata del portiere. Non si sa cosa ammirare maggiormente, se la precisione di quel lungo passaggio, che ha costituito l'idea dell'azione, o la fulminea risposta di quel colpo di testa. 
Trovarsi così presto in svantaggio per due reti irrita visibilmente i brasiliani. Comincia la reazione, che è spesso una ritorsione. Falciate e colpi bassi fanno la loro apparizione. L'arbitro inglese Ellis è attento e meticoloso e ha il suo daffare. Controlla, ferma, ammonisce, ma i falli, spenti di qua, saltano fuori di là come i «fuochi folletti». Nulla di eccezionalmente grave, comunque, nel primo tempo. I magiari sono presi in velocità, ché i brasiliani corrono come dei dannati, e al 19' minuto Lorant, per non lasciarsi andar via Indio, lo sgambetta in area. Pronto rigore. Tira Dialma Santos e realizza con una gran legnata. 
Verso la mezz'ora l'ala destra ungherese Toth II si becca uno strappo a una coscia e si riduce a fare da comparsa per il rimanente dell'incontro. Due a uno per i magiari a metà tempo. 
Il bello, nel senso drammatico del termine, viene dopo. I brasiliani lottano come dei disperati, arrivano sempre primi sulla palla e nei corpo a corpo non fanno complimenti. Il pareggio pare debba giungere da un momento all'altro, tanto frequenti sono le ondate offensive. Ma si tratta di irruenza più che d'altro, e al 16' minuto, su un contrattacco dei magiari, l'arbitro sorprende un difensore a dare un calcio a un avversario e concede anche stavolta la punizione massima. Eseguisce [sic] e realizza il terzino sinistro Lantos. Passano cinque minuti di gioco nervoso e l'ala destra brasiliana diminuisce le distanze con un magnifico tiro tagliato che colpisce il lontano montante e fa schizzare la palla in rete. 
Bufera allora. L'arbitro sorprende il terzino Nilton Santos e Bozsik a scambiarsi colpi liberi, e li espelle entrambi. Non dimentichiamolo, Bozsik è un giocatore ma anche un deputato, è il primo membro di un Parlamento che venga espulso da un campo di gioco. 
Continua l'offensiva sudamericana e due tiri consecutivi sono respinti dai pali della porta ungherese. Violenze su violenze, scorrettezze su scorrettezze. Viene espulsa anche la mezz'ala brasiliana Humberto. I sudamericani, persa decisamente la testa, rincorrono spesso gli avversari per il campo sferrando calci. I magiari rispondono anche, ma organizzatamente [sic], inscenano le loro offensive per perder tempo. Su una di esse Kocsis sfonda sulla destra, centra a mezza altezza e Toth I riprende di testa e segna. Quattro a due ad un paio di minuti dal termine. 
Il risultato può considerarsi ormai al sicuro. Ma sono le scenate quelle che continuano. Vediamo Kocsis gareggiare di destrezza con due avversari che gli sparano calci da tutte le parti. Senza palla, il campione ungherese salta, corre, evita in modo magistrale tutte le entrate: la più utile fuga della sua carriera. 
Echeggia il fischio finale. All'entrata del passaggio per gli spogliatoi un fotografo sud-americano abbatte con un perfetto colpo di lotta libera un poliziotto svizzero. E' il segnale. Il poliziotto si rialza furioso, e la sua reazione viene bloccata dal vigoroso abbraccio del portiere Castilho, mentre il colpevole se la dà a gambe. 
Più avanti, cioè sulla porta degli spogliatoi, avviene la scena madre. Puskas, che attende in quel punto i compagni, incontra per primo un avversario, Pinheiro. I due discutono un istante, in magiaro e in brasiliano, senza capirsi naturalmente. Con le mani si comprendono meglio, e si accapigliano furiosamente. Il magiaro colpisce il brasiliano alla testa con una bottiglia. Allora "zuffa magna". Pugni, calci, morsi, sgambetti, come se si fosse ancora sul campo, fotografi e relative macchine a gambe all'aria, vetri rotti, un pestaggio formidabile. 
Quando si tirano le somme parecchie teste sanguinano, fra cui anche quella del dirigente supremo magiaro Szebes, e quelle di Czibor e di Toth. Parecchi degli agenti svizzeri che sono quelli non della città, ma della polizia militare, sono malconci anch'essi, ma cercano, secondo gli ordini ricevuti, di drammatizzare la cosa il meno possibile. I cocci sono di chi le ha prese. E gli ungheresi, appena possono, salgono in autobus e ritornano al loro quartier generale a Solothurn, senza voler parlare con nessuno.

Azzurri kaputt


L'esperienza vissuta in prima persona del mondiale tedesco ispirerà a Giovanni Arpino pagine straordinarie e cupe (Azzurro tenebra). Feroce il suo commento (apparso in prima pagina su "Stampa Sera" del 24 giugno 1974) all'inattesa eliminazione dell'Italia, sancita dalla sconfitta di Stoccarda contro la Polonia (già qualificata), in una sfida che era sufficiente pareggiare.


Stoccarda, 23 giugno.
Azzurri kaputt. Il 2-1 di Stoccarda ad opera dei polacchi li estromette dal Campionato mondiale. Il Club Italia può solo rimproverare se stesso per gli errori di una conduzione sbagliata, arcaica, carica di illusioni, ma senza veri convincimenti critici. 
Dobbiamo salutare i giocatori italiani che nel Neckarstadion hanno almeno combattuto fino al limite delle forze e del mestiere. Se il nostro gioco è mediocre, spezzettato, talora scadente per l'insufficienza di alcuni elementi, la squadra ha fatto il possibile per reagire di fronte ai tremendi polacchi. 
Ma non si poteva in questa partita (e lo si è visto sul campo) risolvere gli errori precedenti, cioè il pareggio con l'Argentina maturato attraverso l'opaca prova con Haiti, che illuse certi responsabili sulle condizioni dei giocatori, ma non certo i critici più attenti. Si doveva cambiare, si è cambiato, ma senza tener conto dei singoli in miglior salute: da Re Cecconi allo stesso Juliano. 
Solo la paura ha costretto lo «staff» a rivoluzionare la squadra, e questa ha spremuto da se stessa le poche gocce di liquore che teneva in corpo: non sono bastate contro il battaglione polacco, d'una possanza atletica spaventosa, che si è candidato senz'altro come uno dei maggiori pretendenti per questo decimo mondiale. 
Scriviamo sotto una tempesta di insulti scaraventatici addosso dagli spettatori italiani delusi, inferociti, anche se consci che gli azzurri hanno dato tutto, dalla rabbia agonistica d'un Mazzola (mai visto osare tanto) alla dedizione di un Facchetti, di un Anastasi. 
La «débàcle» è grandissima, ma non ci coglie di sorpresa, purtroppo. Avevamo scritto e riscritto che, prima con la resistenza passiva e tetragona dei vecchi nomi, poi con il coraggio del terrore, non si sarebbe andati avanti. Abbiamo sprecato un «mondiale» che non ha ancora trovato il suo dominatore, e dove anche noi avremmo potuto giocare le nostre carte. 
Da stasera è «bagarre», dolore, rabbia, nel clan azzurro. Da stasera iniziano i conti per il futuro. Si deve ricominciare, ma è indispensabile una notevole «purga», un solenne repulisti. 
La spedizione è fallita su tutti i piani: partita con la maestosità organizzativa di una flotta che non teme alcuna corazzata nemica, la tribù azzurra s'è sgretolata per strada come una montagna di ricotta. Proprio contro i polacchi, magnifici, nuovi maestri del «collettivo», vecchi e giovani azzurri hanno fatto il possibile. 
Avrebbero potuto persino ottenere di più, con una partenza veemente (che ha visto l'arbitro tedesco Weyland sbagliare valutazioni colossali), con un palo colpito da Anastasi e con un «serrate» finale da sangue agli occhi. Il pareggio ci stava, in qualche modo, ma solo perché Zoff aveva in precedenza parato tre palloni-gol, solo perché, sul risultato «all'inglese», i polacchi, paghi, avevano limitato i loro sforzi a una poderosa accademia in centro campo con rare puntate in area. 
Ma il passaggio al secondo turno avrebbe premiato troppo una Nazionale nata tra i vizi, le crisi di rigetto, le polemiche, i dissidi interni ed esterni. La punizione che ora fa piangere i tifosi, perché si ripercuote su di loro, deve invece essere assunta dai responsabili veri, i reggitori d'un football labirintico ed in agonia, che vive di cifre assurde, parole al vento, promesse da marinaio, e dell'eterna «schedina» domenicale. 
E' una autentica «Caporetto pallonara», se vogliamo scomodare un sostantivo grave. Per un attimo ci siamo persi nell'illusione di poterci amministrare meglio, malgrado la zavorra tecnica, tattica, politica che trascina e appesantisce il clan azzurro. Abbiamo sbagliato per un doveroso ottimismo e perché credevamo che, alla lunga, certi elementari interessi collettivi venissero tenuti da conto. 
Ma i «federali» vivono fuori della realtà, e si nutrono di sogni. Da oggi questi sogni diventano incubi: uscire dai «mondiali» per un solo gol di scarto rispetto all'Argentina è una lezione brutale, che mette in evidenza davanti allo specchio le magagne del nostro mondo calcistico e la fatuità di troppi atteggiamenti critici. 
Il declino era da prevedere e controllare. I «vecchi» messicani, pur battendosi, non potevano ritrovare i muscoli di tanti anni fa. Cosa si è fatto per sostituirli, per rendere amalgamata una «diversa» Nazionale? Sapevamo tutti che questa Coppa del mondo avrebbe preteso velocità, concentrazione agonistica, quadratura di squadra, freschezza di doti atletiche. Vi abbiamo portato gli «omini» più consunti o della gente che non aveva mai disputato una partita insieme agli altri. Abbiamo lasciato a casa giovani quali Graziani (tanto per fare un nome), che sarebbe giocatore da Polonia, se è lecito. Siamo in tocchi, ed è perfettamente inutile, oggi, che ci si venga a dire: «Abbiamo perso la partita, non la guerra». 
Quando vincevano, proprio i vecchi zii e padrini della Nazionale ci sogguardavano dall'alto in basso come tanti Napoleoni. E' veramente ora che si levino di torno, ed in perfetto silenzio. Per perdere così, non c'è bisogno che volino milioni, ci basta partecipare ad un mondiale con una squadretta di bar. Stoccarda è l'ultimo dei traguardi bui inseguiti con una cecità unica. Domani sia un altro giorno.

La partita

Sacchi e i fantasmi della panchina

di Gianni Mura


Alla vigilia del Mondiale americano del 1994, Gianni Mura inquadra non senza scetticismo l'imminente esperienza del nuovo CT, Arrigo Sacchi, innovatore santone del calcio italiano, comparandola con quella dei suoi immediati predecessori, Enzo Bearzot e Azelio Vicini, fedeli e federali fautori della scuola italianista

Rombo di Tuono, il Vécio e Azeglio
Enzo, Azeglio, Arrigo: tre nomi da romanzo dell’Ottocento, da calcio di fine Novecento. Tre facce diverse: lunga e ossuta il primo, e raramente aperta nel sorriso; paciosa e rassicurante il secondo, sotto i capelli grigio-rossicci; da manager il terzo, mai senza occhiali (anche da sole, anche di notte), gli occhi vivacissimi che in panchina tendono ad assumere un’espressione fissa, quasi da trance agonistica. Enzo, Azeglio, Arrigo, direttori dei piedi della patria. Non si sentono perennemente in trincea come il loro predecessore Vittorio Pozzo, che trattava i calciatori da soldati. Altri tempi, al Piave si è sostituito il test di Cooper, alla totale ignoranza degli schemi avversari una maniacale collezione di videocassette. I tre sono molto diversi tra di loro. Le prime differenze nel modo di approdare alla panchina della nazionale. Bearzot e Vicini, dopo una lunga e dignitosa carriera da calciatori, per promozioni interne, da dipendenti della Federcalcio. Sacchi, un brocco come calciatore, ci è arrivato sulla spinta di risultati (col Milan di Berlusconi) ai quattro angoli del mondo. Anche per questo il suo stipendio è almeno tre volte superiore a quello degli altri due.

Situazione di partenza. Bearzot predica una squadra eclettica, restando fedele all’italianismo. Marcature strettissime in difesa e, se occorre, in mezzo al campo, dove però apre cautamente alla zona mista. Può disporre di due blocchi forti, quello della Juve e quello del Toro, la squadra del cuore. Molte polemiche coi giornalisti, in Argentina e più ancora in Spagna. Prima gli rimproverano di non aver convocato Carrera, Novellino, Pasinato, poi di aver lasciato a casa Beccalossi e Turone. Arriva quarto giocando molto bene, vince i mondiali giocando un po' meno bene (all’inizio specialmente). Nell’82 è frattura netta fra il blocco-squadra e la stampa italiana. Jolly del mondiale vinto: Cabrini e Paolo Rossi, i ragazzi dell’ultima ora. Padre nobile: Bruno Conti (non so se con Sacchi sarebbe tra i convocati). Vicini deve ripartire quasi da zero, dopo la scialba esibizione a Mexico ‘86, dove Bearzot si era ritrovato con gli anziani troppo anziani e i giovani troppo giovani.

Vicini si affida alla sua Under, dal gioco estroso e la trasporta in nazionale facendo convivere talenti individuali e caratterini non da ridere: Zenga, Vialli, Mancini, Carnevale, Giannini, Matteoli. E' per la scuola italianista, con zona mista a centrocampo, mentre crescono le quotazioni della zona integrale di Sacchi. Al mondiale italiano al posto dell’atteso Vialli sboccia Totò Schillaci, assistito dal genio di Roberto Baggio. Le notti magiche diventano buie a Napoli, Maradona mal marcato, colpo di testa di Caniggia, vince l’Argentina ai rigori e l’Italia finirà terza. Solo terza, per i molti che la vedevano prima. E Vicini, più paternalista di Bearzot, più morbido di Sacchi nell’impatto coi media, pagherà questo terzo posto.

Matarrese apre a Sacchi, il nuovo che avanza. Violini e passatoia rossa. Sacchi al Milan, tra sorrisi e smentite, ha fatto il suo tempo. O io o Van Basten, è una frase che non piace a Berlusconi, che già aveva dovuto ingoiare la pillola-Rijkaard quando s’era innamorato di Borghi, giocoliere argentino di cui si son perse le tracce. Da signor Nessuno a nuovo profeta del calcio, questo era Sacchi. Ovviamente, la zona non l’aveva inventata lui, ma i suoi concetti di base (la famosa intensità, l’umiltà, il valore del lavoro, l’aggressività sul campo) avevano fatto del primo Milan un modello da seguire e da imitare. Romagnolo come Vicini, ma in alcuni spigoli del carattere più vicino al friulano Bearzot, autodefinitosi "uomo di frontiera e per necessità diffidente" anche Sacchi ha ricevuto le sue brave critiche. Certo, ha vinto tanto, ma con quei giocatori chi non avrebbe vinto tanto? Ha vinto tanto, sicuro, ma il vero vincente è Berlusconi, visto cosa è successo con Capello? Invertendo i fattori, cioè i tecnici, il prodotto non cambia. Meno spettacolo, forse meno intensità, ma più vittorie.

E' l’uomo giusto al posto sbagliato, disse Omar Sivori quando Sacchi passò alla Nazionale. Lo pensavano anche altri: Sacchi ha bisogno del martellamento quotidiano per portare in alto la truppa e insegnare l’esperanto della zona. La caratteristica del suo Milan e, prima ancora, del suo Parma, era la sicurezza, quasi la spavalderia del gioco, mentre la sua Italia lascia perplessi per come appare incerta, frenata, assurdamente tesa. E, paradosso massimo, più efficace nel contropiede (antico retaggio italianista) che nella manovra aggirante e schiacciante, a ritmi elevati. Accetto il risultato solo attraverso il bel gioco, dice spesso Sacchi. Fin qui, il bel gioco si è visto poco, anche col vantaggio di poter sfruttare l’affiatamento del blocco Milan rinforzato dal più puntuale dei goleador (Signori), dal più geniale dei fantasisti (Baggio) e da un ottimo portiere (Pagliuca). E solo questo si può aggiungere: che nei campionati italiani Bearzot e Vicini erano passati senza quasi lasciare traccia, ma in azzurro qualcosa o molto, moltissimo hanno dimostrato. Per Sacchi è l’esatto contrario, e sabato comincia la scommessa più difficile. Lo sapeva quando ha firmato il contratto, ma che fosse così difficile forse non lo immaginava nemmeno lui.

"La Repubblica", 16 giugno 1994

Uruguay olimpico

Le cronache di Monsù
9 giugno 1924

Il gran mondo del football ha la sua prima vera grande fiera internazionale ai giochi olimpici parigini del 1924. Mancano però (con la sola eccezione dell'Irlanda) tutte le rappresentative britanniche. L'Italia c'è, ma viene eliminata nei quarti dalla Svizzera. A Colombes, l'epifania del calcio sudamericano produce esaltazione, meraviglia, stupore. Sentimenti da cui non è immune Vittorio Pozzo, che considera i giocatori della Celeste sostanzialmente 'italiani'. Riproduciamo il suo resoconto della finale, disputata tra Uruguay e Svizzera, preceduta da polemiche di sapore 'moderno' sulla designazione arbitrale ...


Parigi, 9, notte.
Il torneo olimpionico di Parigi, la più grandiosa manifestazione calcistica che sia mai stata organizzata, ha avuto oggi termine con una gara che è un'apoteosi del foot-ball. 

Il significato di un torneo 

Il torneo aveva avuto, con i suoi numerosi scontri, il merito di richiamare a Parigi migliaia e migliaia di entusiasti di ogni parte del mondo, di richiamare sul giuoco nelle sue differenti fasi l'attenzione ed il conseguente inevitabile entusiasmo di migliaia diseguaci di altri sports. Aveva costituito un mezzo di propaganda efficacissima per gli esercizi fisici e la finale fu un trionfo del pallone rotondo. Basti dire che giornalisti austeri ed anche anti-sportivi si degnarono di riconoscerne l'importanza ed il significato morale; che più di 40.000 persone si trovavano ammassate a Columbes che, fra parentesi, si trova ad una ventina di chilometri dal centro di Parigi; che mezz'ora prima dell'inizio della gara le porte dovettero essere chiuse con il «tutto esaurito» ; e che l'incasso superò di gran lunga il mezzo milione di franchi. 
Avevo visto le finali di altre tre Olimpiadi, ma nessuna avvicinò in importanza e in interesse quella di Parigi. Tutto quanto l'Europa conta di competenza e di autorevole in fatto di foot-ball era ivi radunato. Giocatori di squadre eliminate, membri della Federazione internazionale, giornalisti di tutti i paesi, entusiasti di tutte le tendenze, footballers di trenta nazioni, in una parola il più imponente ed il più bello dei convegni calcistici del mondo intero. 
L'organizzazione funzionò a meraviglia. Il resto delle Olimpiadi può prestarsi a critiche, ma dentro lo stadio di Colombes bisogna mettersi sull'attenti. Il massimo stadio parigino, collaudato nella sua piena capacità, funzionò a meraviglia. Lo spettacolo presentato dal pubblico, la organizzazione delle vie di accesso e l'eccellente disposizione per lo sfollamento, fanno di questa finale una piccola gloria dell'organizzazione francese. 

Torna in scena Mutters ... 

Circa l'arbitro, una diatriba singolare è scoppiata nel Comitato olimpionico, nella Federazione internazionale e nelle rappresentanze calcistiche delle diverse nazioni, circa l'arbitro che dovrebbe dirigere l'incontro. Il fatto è di notevole interesse anche per gli italiani, perché illumina di una luce particolare i sistemi e la scelta degli arbitri, grazie a cui l'Italia fu eliminata dal Torneo. I.a Commissione per la designazione degli arbitri è composta di cinque persone; tre di esse sono francesi, il rimanente del mondo calcistico è rappresentato da Gassmann, segretario della Federazione svizzera, e da un olandese. Questo olandese era stato in un primo tempo scelto nella persona dell'arbitro Mutters, e sostituito poi con un suo collega. Dopo il bell'exploit dell'arbitraggio contro l'Italia, Mutters aveva taciuto. Improvvisamente egli tornò ieri alla ribalta con la proposta olandese, sostenuta e caldeggiata dalla Svizzera (?), di affidargli la direzione della finalissima. Le circostanze in cui la proposta e la designazione vennero fatte suscitarono il più vivo malcontento e le più vive rimostranze in tutti gli ambienti calcistici. Personalità come Ugo Meisl, dell'Austria, Johansson della Svezia, ed altri, si esprimevano ieri indignati al riguardo. 
I giornali francesi tornarono sul match italo-svizzero e significarono la loro viva meraviglia per il fatto che un uomo resosi responsabile di uno scandalo come quello del secondo goal svizzero, accordato contro ogni regola elementare, venisse anche soltanto proposto per la finale. Risultato della faccenda fu che Mutter ricevette telegrafica revoca della sua designazione, anche perché l'Uruguay rifiutava energicamente di scendere in campo con simile arbitro, e che Slawick parve il solo uomo che potesse assumere la direzione dell'incentro. La Svizzera, fatto sintomatico, insisteva su Mutters. Il retroscena dell'arbitraggio di questo Torneo rappresenta una pagina tragicomica delle Olimpiadi di Parigi. 
Superata con lunghe discussioni durante la notte la questione dell'arbitro, la direzione della partita era stata definitivamente affidata al francese Slawick. Ai suoi ordini si presentarono con una buona mezz'ora di ritardo sull'orario previsto i seguenti undici ... 

Il primo successo uruguayano 

Gli americani vinsero l'estrazione del campo. I primi cinque minuti videro un predominio abbastanza netto della Svizzera. Gli uruguayani non dovevano però tardare a mettersi in moto e dopo appena sette minuti circa il primo successo arrideva loro in modo piuttosto inaspettato. Partita dalla sinistra una offensiva americana, si videro uomini americani e due svizzeri lanciati in corsa verso il goal della Svizzera. Pareva uno sprint di cinquanta metri, tanto i quattro uomini procedevano a tutta velocità sulla stessa linea senza che uno potesse superare l'altro. Giunti a dieci metri, Petrone sparava una puntata bassa nell'angolo sinistro. Pulver non ebbe altro movimento da fare che quello di piegare la schiena per raccogliere la palla nella rete. Come una macchina cui il successo ha dato la giusta carburazione e permesso di ben lanciarsi, la compagine americana cominciò da questo momento a lavorare in modo cosi convincente che l'esito della partita non ebbe per i competenti più alcun dubbio. 
Gli americani davano prova di grande precisione sul pallone, di stile nella corsa, di intesa collettiva e di doti singolari eccezionali. Di fronte ad essi tutti i difetti degli svizzeri, difetti che i successi precedenti avevano servito a coprire, venivano a galla e si mettevano in evidenza in modo straordinario: l'irruenza del terzino Ramseyer gli faceva mancare uomo e pallone, la poca sicurezza di Pulver ai palloni bassi ispirava inquietudini ad ogni istante, e la poca conoscenza di un attacco, imperniato quasi esclusivamente su Abegglen e Dietrich, impedivano all'avanguardia di imporsi. 

La porta svizzera assediata 

Gli svizzeri arrivavano, a folate individuali, di tanto in tanto, a riprendersi, ma non riuscivano a togliere al gioco la sua caratteristica netta e chiara: quella di un assedio alla porla di Pulver. Di fronte ai numerosi tiri di Scarone, Petrone e Romano, che mancarono il goal di pochissimo, gli elvetici non dovevano registrare che una cannonata molto poco precisa di Pache e un pericoloso tentativo individuale di Abegglen. La ripresa doveva rappresentare lo stesso aspetto : alcune incursioni di Ehrenbolger, ala destra svizzera, e un lungo predominio uruguayano. II lavoro degli americani davanti al goal era però poco preciso: tiri numerosi e forti, ma alti, o a lato. Al 21° minuto Scarone giungeva con una azione individuale fino all'area della porta svizzera; Pulver liberava col piede; la palla gli ritornava nelle gambe e veniva risospinta da Cea nella rete, alla distanza di un paio o poco più di metri. 
Gli svizzeri lavorarono, più nell'energia di cui aveva già dato tante prove, che non nelle doti tecniche, i mezzi di reazione e un tiro di Dietrich, forte e preciso, avrebbe forse meritato migliore compenso in questo periodo. Ma al 37° minuto su un calcio d'angolo a favore degli uruguayani Romano segnava di testa il terzo goal per gli americani. La Svizzera non lottò più. Anche Abegglen, che era stato fino a quel momento il moto perpetuo e la molla di ogni azione offensiva elvetica, calò, come colpito da una doccia fredda. Era finita! La classe tecnica di quello storico incontro, la classe di una squadra fino a ieri sconosciuta in Europa, la classe di undici nomini di cui sette sono italiani di nome, di lingua e di razza, aveva vinto! 

Il gioco dei vincitori 

Il foot-ball uruguayano è quanto di più fresco, di più genuino, di più tecnico si possa al giorno d'oggi desiderare. Alla difesa spiccò il capitano Nasazzi, un terzino che colpisce la palla a mezzo volo come i migliori difensori professionisti inglesi. Emerge in seconda linea un negro, Andrade, che pare una boite a surprise di trucchi e di risorse. Rifulgono all'attacco le doti tecniche, il palleggio, la velocità di tutti e cinque gli uomini, 'l'utti hanno comune la capacità di illudere l'avversario, dando a vedere una intenzione e facendo poi l'opposto di quanto hanno lasciato credere; tutti battono gli oppositori con deviazioni del pallone effettuate quando l'avversario è già compromesso dal suo slancio e dalla sua corsa; tutti cercano di provocare situazioni favorevoli con passaggi dietro ai terzini, non dove il compagno sta, ma dove il compagno può giungere. 
Vi furono dei lunghi momenti della gara di oggi in cui il giuoco svolto da questi americani, che sono quasi tutti italiani, rappresentava un godimento anche per il più difficile e il più esigente dei competenti. Quello era foot-ball, quello era giuoco bello come condotta, efficace come scopo, convincente come sistema, entusiasmante come varietà.

Trionfo latino 

L'Uruguay, squadra latina per eccellenza, ha vinto il torneo calcistico di Parigi. Esso aveva presentato senza dubbio alcuno la squadra migliore di tutte le 23 nazioni iscritte. Se anche un colpo di sfortuna li avesse eliminati, poi sarebbero rimasti nella mente e nella convinzione dei critici spassionati e degli spettatori equanimi, presenti a Parigi, come l'immagine dell'unità più tecnica e più meritevole. E l'ovazione formidabile e frenetica con cui 70 mila persone di tutte le nazionalità salutarono il giro di onore, in verità un po' teatrale, e l'inchino, in realtà commovente, dei vincitori alla bandiera che saliva al pennone dello stadio, rappresentano il premio della giustizia al concorrente più meritevole. Le quattro nazioni semi-finaliste - di cui, sia detto a solo titolo di curiosità, nessuna fece la guerra - restano dunque cosi classificate: L'Uuruguay, Svizzera, Svezia e Olanda. Seguono l'Italia e la Francia eliminate dalle due finaliste.


"La Stampa", 10 giugno 1924
Vedi anche in Cineteca e nel Calndario

Vedrete, spezzeremo le reni alla Corea ...

Impattato un po' malamente l'esordio con i bulgari, gli azzurri scesero (di duecento metri, da 2.400 a 2.200 slm) a Puebla per giocare con l'Argentina la seconda partita del mondiale messicano del 1986, il 5 di giugno. La squadra era ormai una pallida parente di quella che aveva inopinatamente vinto il Mundial quattro anni prima, avviando la propria cavalcata proprio contro l'Albiceleste. Ma allora a guidare gli argentini c'era un vanesio come César Luis Menotti. Adesso sostituito dal pragmaticissimo Carlos Bilardo.

In gran forma, Gianni Brera dettava un mesto ma esilarante 'pezzo' a "La Repubblica", che riproponiamo


Spillo dal dischetto
Puebla - Ci telefonano da Roma: l'intera nazione è stata scossa dalla mediocrità dei suoi paladini in azzurro; giova tranquillarla, con argomenti adeguati, oppure dichiararle, fuori dai denti, che di più non si puole sperar. Il primo impulso è di tornare a letto, poi di salvarsi nell'ironia, anzi nel sarcasmo. Deh, come è vero che non vi è nulla di più inedito della carta stampata! O non si capiva che le nostre cronache erano rattenute dal pudore, che le nostre speranze erano - come dire? - un tantino coatte? Il cuore voleva, la ragione protervamente escludeva! Che vi aspettavate, di grazia? Il bravissimo Bearzot ha compicciato una zattera non malvagia, però del tutto priva di punti forti. Questa zattera è stata mollata in acque non proprio chiare e tranquille. Ha dato subito prova di essere compatta la sua parte. Fuor di metafora, ha segnato un bel gol sbagliandone altri sei: e nel finale si è lasciata infilare dalla proterva cornata di un bulgaro. 

Poi si è fatta avanti l' Argentina, zeppa di oriundi incarogniti dal sangue misto. Avevo personalmente una paura folle. Per me è andata benissimo, per la nazione civile (sic) mi dicono malissimo. Quel gioco esitante, quella cronica mancanza di idee, quei timidi passaggi a lato o addirittura indietro. Che figura era quella, per dei campioni mondiali? Molto bene espresso lo sdegno, ancor meglio la delusione. Ma che lingua si è parlata finora? Che prodezze si aspettava la popolazione civile da grilli vivaci e salterini quali Galderisi, De Napoli, Di Gennaro? Finora ha fatto faville il lungo e quasi dinoccolato Altobelli, argutamente chiamato Spillo, che non ha mai saputo con precisione dove i suoi piedi lunghi e distanti mettessero palla. Se lui è il migliore, degli altri che sarà mai? Conti suona l' arpa, strumento assai difficile, e se le sue mani sono un po' intorpidite, le corde si confondono al multiplo tatto: pensa la perifrasi, per dire con qualche eufemismo che non è in forma, il nostro prodigioso omino! Di Gennaro si comporta da mite impiegato di concetto dove occorrerebbero genio e potenza. De Napoli è la felice invenzione di un giorno (sento che farà faville con i ranocchi coreani). Il grande portiere non è ancor nato, o se è nato siede in disparte. Scirea incanta per la misura, che nei vecchini vuol dire anche impotenza. Cabrini non osa un tackle e neppure un'affondata. Bagni è genio e sregolatezza. Bergomi ligneo e gnocco, nei suoi furori agonistici. Vierchowod, il bergorusso, muove pietre granitiche in forma di piede: bello e possente quando salta, recupera, anticipa, però granitico di piede, e sordo. 
Ora, da questa amata accozzaglia di semplici, pretendeva la popolazione civile che uscissero meraviglie di gioco? Quale ingenua fedeltà alla storia passata (è il nostro vero guaio): quella recente è misera e quasi infelice: perdiamo in casa con sopravvivenze vichinghe intronate di grasso e di presunzione, buschiamo dagli orgogliosi polacchi, dai superbi tedeschi e seguitiamo imperterriti a considerarci campioni del mondo? Vale un tantino del ducione, che vedeva quadrate legioni nei disoccupati con la berretta nera e il fiocco spenzolante. Dice adirato: e tu, perchè non lo scrivi?
Ricordo il messaggero che recava la notizia della caduta di Damasco: il gran sultano lanciò un grido deluso e sguainò la draghinassa: il messaggero giacque sbudellato. Si dà anche questo fenomeno da noi: che se tu pretendi di riferire il vero in materia di misteri agonistici, subito sollevi lo sdegno dei benpensanti e beneamanti. Così tenete, o genti: questo vi prodigo. Io non ci credo e lo dico, ma costringo l'adusato cerebro a credere obbedire e combattere. 
Con l'Argentina abbiamo preso un mucchio di calci, peraltro restituiti male. L'arbitro ci ha subito concesso un rigore (visto dagli altri in tivù) ma gli argentini non ci hanno concesso altro. La disposizione della squadra era visibilmente sbagliata. Il solo centrocampista di classe è stato sottratto ai suoi compiti per vigilare su un amico-nemico: sono gli inconvenienti della pedata multinazionale. Bagni non ha picchiato né tenuto Maradona. Gli altri due cirenei, Di Gennaro e De Napoli, sono morti tra tre avversari, a volte quattro, tutti più bravi di loro. Era libero Giusti, che Cabrini non marcava, stando in zona. Doveva aggredire Maradona un difensore di istinto e di carriera (Bergomi, Vierchowod), doveva giocare Collovati al posto di Cabrini che non poteva marcare Valdano nè altri ... 
Vedete ora come è facile dirlo, stando seduti e tranquilli. Ma ponetevi nei panni del ct Bearzot. Cabrini è uno dei pilastri, diciamo dei tronchi che danno peso e vigore alla zattera. Così rimane, guai a chi lo tocca: una squadra non è fatta di sole pedate, bensì di sentimenti, di affetto, di stima, di rispetto. Dunque gioca Cabrini e tutta l'impostazione difensiva salta: il centrocampo è sballato, Di Gennaro e De Napoli fanno brutta figura, Conti coglie un palo a porta spalancata e poi si arrabbia se lo sostituisce Vialli; Bergomi si fa ammonire e quindi squalificare; Galli non esce in tempo sul pallonetto con il quale Valdano ha scatenato a rete la furia demoniaca di Maradona. 
Con tutto questo, cara popolazione civile, sperare aiuta e conviene. Bearzot confermerà la squadra con Collovati al posto di Bergomi e con Serena, altissimo, se la partita andrà per versi non propri giusti. Insomma, questo mi sento di garantire con qualche intimo orgoglio: spezzeremo le reni alla Corea del Sud! Poi, veh, andremo dove potremo. Bearzot ha confidato al vostro umile servitore di sperare in un quarto posto quest'anno e in un primo posto nel '90: sempre se in quell'anno si faranno i campionati mondiali: perché il nostro non è il paese delle fate e questi anni sembrano pochi per rifarne e completarne le attrezzature sportive. Eppure, madame la marquise, tout va très bien.

"La Repubblica", 7 giugno 1986