The match of the century

25 novembre 1953. L'Empire Stadium di Wembley ospitava quello che, per i presuntuosi sudditi della regina, andava così etichettato: match of the year. In realtà, l'anno divenne presto 'secolo', prima che un altro match (Italia-Germania 4:3) meritasse uguale celebrazione. In campo a Londra, dunque, i campioni olimpici, campioni di un'Olimpiade cui non avevano partecipato nazionali 'vere' dell'occidente europeo e del continente sudamericano, contro i campioni di nulla (tutt'al più, questo sì, della British Home Championship e solo di quella) ma detentori di un primato che non cesseranno mai di rivendicare: l'invenzione del gioco. Ed eternamente imbattuti tra le mura amiche da compagini davvero 'straniere': quelle della Home Championship facevano parte della stessa grande 'famiglia' calcistica, nonché del medesimo Regno; il dominio dei Tre Leoni (seppure non incontrastato) era qui sancito dalle statistiche, ma i tabellini dicono che la Scozia aveva espugnato Wembley nella primavera del '51, bissando l'impresa del '49.
Tant'è.

Inghilterra contro Ungheria, dunque. Fu davvero una sfida memorabile, cui nessuna storia del football mancherebbe di dedicare un capitolo centrale. Un match che, col passare dei decenni, ha mantenuto intatto il suo fascino, arricchito dalla dimensione leggendaria dell'undici ungherese e dall'incessante 'outing' della critica albionica, che (a differenza dell'ultra-conservatrice Football Association) immediatamente comprese il senso e le conseguenze della cocente umiliazione inflitta dall'Aranycsapat agli uomini di Walter Winterbottom. Basterà, al riguardo, leggere le densissime pagine che al match dedica Jonathan Wilson [Inverting the pyramid, pp. 129-139 della traduzione italiana], così chiudendo il discorso:

"Certamente, quella serata di novembre, con le bandiere ammosciate nella nebbia sopra le Twin Towers, destinate queste ultime a riverberare il lavoro di Luytens a Nuova Delhi, non ci volle un grande sforzo d'immaginazione per riconoscervi la sconfitta simbolica dell'Impero".
.
..

Wednesday November 25 th 1953, 2:15 pm
 Empire Stadium, Wembley



I protagonisti
England
Gil Merrick
Alf Ramsey | Harry Johnston | Bill Eckersley
Billy Wright | Jimmy Dickinson
Ernie Taylor | Jackie Sewell
Stanley Matthews | Stan Mortensen | George Robb
-
Ferenc Puskás | Sándor Kocsis
Zoltán Czibor | Nándor Hidegkuti | László Budai
József Zakariás | József Bozsik
Mihály Lantos | Gyula Lóránt | Jenő Buzánszky
Gyula Grosics (Sándor Gellér)
Magyarország
-
Gli allenatori: Walter Winterbottom | Gusztáv Sebes
Il tabellino

I documenti
 "Il piano tattico per la partita di Londra" preparato da Gusztáv Sebes
Il filmato della partita (Full match) | Il gol di Ferenc Puskas
La gallery | I gol nei disegni di Carmelo Silva: Hidegkuti (0:1 - 1') - Puskás (1:3 - 25')


L'analisi tattica

Le cronache
25 novembre
La profezia di "Tintin"
"La Stampa" (Vittorio Pozzo)
"El Mundo Deportivo" (Carlos Pardo)

26-27 novembre
"El Mundo Deportivo": Hungria, jugando un furbal maravilloso, vencio a Inglaterra
"La Stampa" (Vittorio Pozzo)

Stampa inglese

La "rivincita"
23 maggio 1954, Népstadion, Budapest

L'Aranycsapat

Gli instant books
Brian Glanville, Soccer nemesis (1955) | Willy Meisl, Soccer revolution (1955)

Le memorie

I commenti

Brian Glanville
Jonathan Stevenson

Il 60° nei media internazionali
Gellert Tamas, England v Hungary - a football match that started a revolution (BBC, 23/XI)
Enrico Franceschini, 60 anni fa, la partita che fece crollare un impero (anzi due) ("La Repubblica", 23/XI)
Chris Bevan, Jimmy Hogan: The Englishman who inspired the Magical Magyars (BBC, 24/XI)
Jonathan Wilson, England 3-6 Hungary: 60 years on from the game that stunned a nation ("The Guardian", 25/XI)

.::.
.::.

Hanno vinto i guerrieri

Il 22 novembre 1969, nel catino ribollente del San Paolo, gli Azzurri schiantano i tedeschi dell'est e ottengono la qualificazione ai mondiali messicani. Di quella partita tutti ricordano il volo d'angelo di Gigi Riva, su cross perfetto di Domingo. Ma fu solo il sigillo del tre a zero e di una partita perfetta, turbata alla vigilia da ansie scaramantiche (Riva, in assenza di Anastasi, non voleva la maglia numero nove, quella con cui si era fratturato all'Olimpico nel marzo del 1967, in un'amichevole contro il Portogallo). Era comunque uno spareggio (un pari avrebbe portato a un ulteriore spareggio). E l'Italia lo affrontò con due esordienti (Cera e Chiarugi). Riproponiamo il commento a quella partita firmato da Giovanni Arpino.

Napoli, lunedì mattina [23 novembre]
II più grande Mazzola degli ultimi anni ha diretto, orchestrato, organizzato gli azzurri nella loro gara contro i tedeschi dell'Est. Tre gol esaltanti, di quelli che entrano nella memoria non solo dei tifosi ma dei più severi critici di calcio, una prestazione atletica notevole, una volontà agonistica che non è mai venuta meno. E, su tutti, Sandrino Mazzola: ha segnato nei primi minuti una rete straordinaria, con un «taglio» secco e imprevedibile su pallone pervenutogli da Riva gettatosi in area; ha impresso un tale ritmo alla gara da far soffrire non solo i tedeschi, ma lo stesso centrocampo azzurro, abituato a manovre più molli, a passaggi magari precisi ma parabolici, non secchi e decisi e sventagliati come quelli di «Baffo». Ha difeso la nostra area con la tenacia dì uno Schiaffino arretrato. Ha tenuto novanta minuti su novanta, mai desistendo dall'affrontare, inseguire, controllare, ribattere, impostare.

Questa nazionale non è perfetta come molti la sognano, non è ancora un meccanismo d'eccezione. Ha sfasature e ristagni, qua e là, ha alcuni uomini di difesa un po' in ombra, o per difetto di forma o per mancanza di .senso di posizione (tranne Pula e Facchetti sempre registratissimi). Però la si vede, la si capisce, la si intuisce in progresso. Negli ultimi anni abbiamo assistito a una trasformazione del complesso azzurro. Fortissimo in difesa, dove sapeva costruire quadrilateri pressoché insormontabili, era sempre stato difettoso, troppo leggero, troppo gracile e prevedibile all'attacco, con uomini che esitavano, che non sapevano reggere a un ritmo accelerato, che non sapevano buttarsi con accanimento e potenza sui palloni elaborati dal centrocampo. Oggi il discorso è diverso: abbiamo attaccanti migliori dei difensori, in grado di far pendere la bilancia a nostro favore anche dopo un inizio faticoso e sfortunato. 

Oggi c'è Riva, c'è Chiarugi. Riva è una potenza d'eccezione, lo sappiamo, che si batte con un orgoglio incredibile, tanto da non dar peso a menomazioni fisiche che fermerebbero chiunque altro, più timido e preoccupato di sé. Ha strappato a portiere e terzino avversasario il pallone del primo gol per Sandrino, ha costruito il secondo per Domenghini con una progressione da metà campo che faceva gridare alla bellezza del gesto atletico pieno, ha messo in rete il terzo con un volo planato che iniziò nel momento stesso in cui partiva il cross di Domenghini da destra. Un volo migliore di quelli di Tarzan. E c'è Chiarugi. All'esordio, dovendo duettare con Riva, si sono subito ritrovati per identica velocità, decisione, inventiva, con reciproci traversoni volanti bellissimi. 

La nazionale esiste, sta uscendo dal guscio e con fattezze ormai chiare. Basta avere il coraggio di portar avanti l'operazione, creare un gruppo di sedici, diciotto, venti giocatori che esprimano, secondo la forma e lo smalto del momento, l'«undici» migliore. Allora non solo non si sfigurerà in Messico, ma, fortuna e intelligenza assistendo, si potranno ottenere anche risultati superiori al nostro eterno scetticismo. 

E i tedeschi? Lo si era detto più volte: tra i nostri azzurri e la squadra di Seeger ci sono tre reti di differenza. Potevano essere almeno cinque, ma forse è meglio così. Il gol di Mazzola ha schiodato l'incontro subito, agli avversari non è bastato più il gioco a ragnatela di centrocampo. Hanno dovuto premere, scoprirsi, quindi essere puniti in contropiede. 

Non illudiamoci eccessivamente, però riconosciamo che il materiale azzurro a disposizione di Valcareggi e Mandelli è notevole: può solo migliorare e organizzarsi di più, se lo si elabora con fiducia e senza isterie, senza inutili timori. I guerrieri ci sono. E allora: coraggio, ammiragli e generali. Al Messico c'è un ruolo che dobbiamo saper interpretare come merita il nostro campionato, tra i più difficili e duri del mondo, e come meritano i nostri singoli giocatori, maturi per dimostrarsi all'altezza di tante eredità e di tanti serissimi collaudi. Non vendiamo la pelle dell'orso prima di avergli sparato. Però la cartuccia in canna c'è: ora aggiustiamo la mira. E per concludere: tre grandi gol azzurri, il gancio sinistro di Benvenuti, «Canzonissima », tutto in un solo giorno. Fratelli (ovvero ragazzi) d'Italia: è il caso di dire, troppa grazia Sant'Antonio?

[La Stampa, 24 novembre 1969]

La prima volta degli Azzurri a Solna

A destra nella foto, Francesco Bontadini,
autore del gol decisivo nella partita rievocata.
Giocò nel Milan e nell'Inter.
Le cronache di Monsù
8 novembre 1951

L'11 novembre del 1951 gli Azzurri avrebbero affrontato la Svezia a Firenze, per un match amichevole. Vittorio Pozzo ne approfittò per rievocare la prima sfida tra le due nazionali, che andò in scena al Råsunda Idrottsplats di Solna durante i Giochi Olimpici del 1912, valevole solo per il 'Torneo di consolazione'. Un racconto di grande spessore umano, ironico e toccante.

---

La conformazione geografica dell'Europa non favorisce gli incontri fra la Svezia e l'Italia. Se proprio non ci si va a cercare, non ci si trova. Effettivamente, gli Azzurri, mentre hanno incrociato i ferri ventotto volte cògli svizzeri, e ventuno ciascuna cògli austriaci e gli ungheresi, e diciannove coi francesi, e via di questo passo, contro gli svedesi non si sono allineati che in quattro occasioni. Ed ancora due di esse, la prima e l'ultima, fu il caso, sotto la forma del sorteggio o degli accoppiamenti dei grandi tornei mondiali, non la volontà degli interessati, a determinarle. 

Il primo di questi incontri fra le Nazionali della Svezia e dell'Italia deve proprio la sua esistenza ad un cumulo di circostanze casuali e concomitanti. Di esso, il sottoscritto fu, più che testimone, parte in causa. Perché la gara coincide colla sua prima esperienza in veste di comandante della nostra Nazionale. 

Si era nel 1912, e l'Italia aveva iscritto i suoi calciatori al torneo delle Olimpiadi di Stoccolma. La Federazione Italiana Giuoco Calcio aveva sede a Torino allora. Ne era Presidente il marchese Alfonso Ferrero di Ventimiglia: chi scrive queste linee ne era il Segretario. Le crisi erano all'ordine del giorno a quell'epoca. Non le ha inventate né la Fiorentina, né la Roma. Bastava una partita perduta, una squalifica, un caso di professionismo, una tessera concessa o negata, per mandare all'aria Commissioni, Consigli e Direttori. Così, per la partita persa a Torino l'11 marzo di quell'anno, per 8 a 4, contro la Francia, cadde la Commissione della Squadra Nazionale. Se ne formò un'altra in maggio, composta da Armano, Baruffini, Faroppa, Ferraris, Goodley, Meazza e V. Pedroni. Non entrò mai in carica, diede subito le dimissioni. A giugno, scomparve anche la Presidenza Federale. Che fare? A Stoccolma si era iscritti ed il Comitato Olimpionico voleva che si andasse. Il marchese Ferrero mi pregò di rimanere in carica e di fare del mio meglio. E si andò. 

E, come organizzazione si trovò poco o niente di fatto, e la squadra dovette adattarsi a pernottare in una scuola. Ed i pasti li consumavano nell'unico ristorante italiano della città, assieme al povero Lunghi, il mezzofondista, ohe aveva delle idee un po' poco ... puritane sulla preparazione fisica degli atleti. Eravamo stati estratti a giuocare, in eliminatoria, contro la Finlandia. E giuocammo, ed a sorpresa generale perdemmo, per due a tre, per una rete dei tempi supplementari. Era arbitro Hugo Meisl. 

La nostra squadra, era quella che era. Quella che si era potuto mettere assieme nel disordine delle circostanze. Degli uomini che noi avremmo voluto, erano mancati, p. es., Ara e Rampini della Pro Vercelli, e Fossati dell'Inter e Cevenini I del Milan. Altri li avevamo scartati noi invece: p. es. Giuseppe Caimi, dell'Inter, di cui eravamo amicissimi ma che consideravamo un po' una « testa matta», Caimi che ci scrisse una lettera furibonda per la esclusione e con cui ci riconciliammo poi durante la guerra, pochi giorni prima che, tenente degli Alpini al Battaglione Val Cismon del 7°, scomparisse in un'aureola di gloria — medaglia d'oro dalla motivazione leggendaria — alla conquista del Valderoa. Ma questa è storia da raccontare a parte, se mai.
 
L'importante è che perdemmo, quel giorno, il 29 giugno. Rientrando in città, sapemmo che pure la Svezia, padrona di casa, aveva perduto, essa pure nei tempi supplementari, contro la rivale diretta, l'Olanda, mezza squadra della quale constava di coloniali — gli occhi ed il colore della moglie di Wilkes. V'era un Torneo di Consolazione, alle Olimpiadi, allora. Ed ecco che, in esso, estraggono subito la Svezia come nostra avversaria, proprio la Svezia che, furiosa, anelava di lavare l'onta subita dagli olandesi. Ci diedero tutti per spacciati. 

La nostra formazione. Se dicessimo che la squadra allineata contro la Finlandia fu tutta 'nostra', diremmo una bugia. Eravamo alle nostre primissime armi, e ci entrarono un po' tutti. Fu una squadra un po' 'democratica'. Alla seconda prova ci impuntammo, e trovammo appoggio nei vercellesi presenti, cinque. Arbitrava l'olandese Willing. E si giuocò, il 1° luglio, a Rasunda, lo stadio che era già bello allora, ed ingrandito ora ospita i grandi incontri di Stoccolma. E fu la gran sorpresa. Battuti in partenza: vincitori in arrivo. Vincitori per uno a zero. 

Ricordiamo ancora tutto di quell'incontro.  La marcatura magistrale che Milano I fece al centro avanti Erik Borjesson, il padre, combinazione, di quel Reino Borjesson che gli svedesi volevano fino all'altro giorno allineare, nella stessa posizione, domenica a Firenze. La rete di Franco Bontadini al 30° minuto del primo tempo, il buon Bontadini, alpino del Val Cismon anche lui, sciatore emerito, che doveva pochi anni fa, non più giovane, suicidarsi per amore. Ed il rabbioso disappunto del pubblico. E la formazione, naturalmente: Campelli (Inter); Valle (Vercelli), De Vecchi (Milan); Binaschi, Milano I e Leone (tutti Vercelli); Bontadini (Inter), Berardo (Vercelli), Sardi (Doria), Barbesino (Casale) e Mariani (Genova). 

E la visita del capitano Bohoyen, la sera stessa ed il giorno dopo, colla richiesta scritta di una partita di rivincita, e le sue insistenze, e la resistenza nostra, di noi che alle prime armi anche in diplomazia calcistica, eravamo in difficoltà per dirgli di no senza offenderlo. E la nostra gioia, continuata, incontenibile. Era la nostra prima vittoria all'estero. 

E la 'paga' - come un gran richiamo alla modestia - ci diede l'Austria, due altri giorni dopo, allo Stadio Olimpionico, con un cinque a uno, di cui sentimmo a lungo il ronzio nelle orecchie!

[La Stampa, 8 novembre 1951, titolo: Sorto per caso il primo confronto]



Purple rain

Football Miscellany

Non è certo ma potrebbe essere vero.
E allora, sulla banchina del porto della pittoresca Galway, spicca il monumento alla memoria. Si tratta di una pietra incisa da aulica dicitura, regalata dalla città di Genova a quella irlandese, perché con discrete credenziali storiche si ritiene che Cristoforo Colombo osservando l’orizzonte da questa baia abbia per la prima volta pensato a una terra al di là dell’Atlantico.

Piovve su Dublino. Una pioggerellina fitta con le nubi che pattinavano veloci nel cielo, regalando scorci di sole avvicendati da nuova pioggia oppure da una nebbia leggera, buona per velare i riflettori e mantenere il campo bello zuppo. Insomma il pomeriggio del 12 maggio del 1991. sul terreno del vecchio Lansdowne Road, risultava piuttosto complicato infiocchettare giocate degne di questo nome.

Tommy Keane decise in una frazione di secondo. Il piccolo, funambolico, povero Tommy Keane. Decise di avvalersi della testa per controllare meglio la sfera. Di quel campo proprio non si fidava e aveva ragione. Accarezzò il pallone con la fronte correndo sulla fascia, vanamente rincorso dal confuso terzino dei Rovers, e se lo sistemò giusto-giusto sul collo del piede destro, affinché il cross fosse ancora più teso, più potente, caparbio come la corrente del Corrib che nel quartiere di Claddagh sbocca nella Galway Bay.

Con la coda dell’occhio aveva scorto Johnny.

Il capitano Johnny Glynn. Anzi dovremmo dire il capo clan Johnny Glynn, perché quelli del Galway United sono da sempre i Tribesman, in virtù del fatto che in epoca medievale il borgo era amministrato in maniera elitaria da 13 famiglie, conosciute come Tribes of Galway, e da qui il particolare soprannome della squadra di calcio fondata nel 1937.

Glynn, centravanti monolitico nativo di Cork, si fece trovare pronto all'appuntamento con il destino anticipando tutti e insaccando bruscamente la palla in rete. Poi saltò i cartelloni pubblicitari che invitavano a comprarsi una Opel e a farsi una pinta di Harp, involandosi esultante verso la stand scoperta dove erano raccolti i suoi tifosi diventata nel frattempo uno spicchio di Eden.

Il Galway United allenato dall'allegro Joey Malone, cantante mancato per un soffio, aveva vinto la Coppa d’Irlanda battendo lo Shamrock Rovers già tenutario di 25 successi nella manifestazione. E fu anche la prima, e unica volta, che il trofeo passeggiò davanti alla lunga striscia di case pitturate di colori caldi dove di giorno le loro tinte si riflettono dissolvendosi nelle acque dell’insenatura e alla sera, se si tende bene l’orecchio, alle finestre o accanto ai piccoli portoni, potreste udire ancora qualcuno parlare in gaelico.

Pioverà su Galway quella notte, ma finalmente le gocce si coloreranno di porpora.

Simone Galeotti


Confine basco

Football Miscellany

Qui ogni bambino vuole diventare un giocatore dell’Athletic (Jose Angel Iribar)



Non compro mai quotidiani sportivi in estate per evitare il lupanare, ululante e sudaticcio, del solito calciomercato globale da ombrellone. Meglio, molto meglio la filiera corta, la spesa a chilometro zero, la valorizzazione del proprio prodotto (alla stregua di ciò che dicevano i nonni di una volta al ritmo del sereno e consueto: “almeno si sa, quello che si mangia”). Insomma, meglio la filosofia dell'Athletic Bilbao. 

Il coraggio dell’Athletic Bilbao. In fondo il culto di questo club si basa sull’iconografia del suo santo di riferimento: Mamete da Cesarea, il fanciullo circondato dai leoni. Le sue fiere erano mansuete, fedeli. Ma ci sono anche belve non devote al martire, la maggioranza, e provano a mordere da ogni lato i lembi della ritrovata Ikurriña. Provateci voi ad allestire una squadra competitiva nella Liga e in Europa avendo a disposizione uno scarno pezzetto di terra affacciato a mezzaluna sul Golfo di Biscaglia. Eppure l’Athletic è sempre lì, lo è sempre stato, nonostante turbolenze antiche e crisi moderne, saldo, sempre in mezzo ai grandi di Spagna seppure di spagnolo abbia solo la costrizione politica. 

L’Athletic di Bilbao è un club tortuoso come le stradine ripide del Casco Viejo, piene di taverne e piccoli musei; angusto come Calle Licenciado Poza, la via che conduce allo stadio dove si sorseggia spumante aspro e si mangiano Pintxos deliziosi; fiero come la consonante h che ne sottolinea l'origine britannica; rosso come i capelli di Javier Clemente, “el rubio de Barkalado”, l’allenatore capace di vestire a festa per due anni consecutivi gli argini ansiosi del Nervion; bianco come le rose deposte dai novizi della cattedrale sotto il busto di Rafael Moreno Aranzadi detto Pichichi, il centravanti dei centravanti; democratico nella miglior formulazione di Thomas Hobbes, “privo di grandi elettori”, con i suoi 30.000 soci rappresentanti delle più svariate classi sociali. 

E alla fine dell’alchimia, l’Athletic è soprattutto orgoglio, non potrebbe essere altrimenti dato l’assunto. L’orgoglio del vivaio sprigionato dai giovani usciti dal centro tecnico di Lezama, autentico cuore pulsante del club, spesso gettati in prima squadra a denti stretti, anima e caviglie, dediti alla causa, talvolta ancora grezzi, imperfetti, sul genere delle sculture di Eduardo Chillida, l’artista basco che lascia al vento e alla pioggia di Euskadi la libertà di modellare definitivamente la sue opere secondo dettami di stile non scritti. 

L’Athletic è aria pura, l’Athletic è briglia in un mondo senza più freni, l’Athletic è un confine che non significa muro ma senso del limite.

Simone Galeotti

Santi Giorni

Football Miscellany

Ne sta arrivando un'altra. Più dolce. L’ennesima onda che bacia di mistero la riva. Ti viene voglia di bagnarti i piedi, di toglierti le scarpe, di farti accarezzare da quell’acqua gelida. Ti viene voglia di chiudere gli occhi, di non sentire più i rumori del porto, le urla dei gabbiani, il mormorio sommesso di gente che passa distratta intorno a te. Percezione di fantasmi. Quelli partiti e non più tornati. Quelli non più trovati. Quelli che a bordo di un enorme transatlantico nero partito da qui, dovevano arrivare a New York e invece il 14 aprile 1912, a 400 miglia a sudest della costa canadese, persero la vita nello scontro contro un enorme iceberg.

La vedetta Frederick Fleet lo vide solo quando era ormai a 500 metri di distanza...
“Iceberg di prua, signore!”
Il primo ufficiale William Murdoch ordinò:
“Tutto a dritta. Indietro a tutta forza..”
La repentina virata a sinistra si rivelò inutile. Trentasette secondi dopo l’avvistamento avvenne l’urto a prua, sulla fiancata destra della nave, sei dei sedici compartimenti stagni rimarranno danneggiati, l’acqua incominciò a filtrare nella nave. Le vittime furono 1517.

Un dramma, ma cosa puoi fare contro il destino? Casomai resta da decidere di cosa abbiamo bisogno. Di sogni o di certezze? Forse di entrambe le cose. Forse è vero che serve un briciolo di sana follia per creare qualcosa che valga la pena essere ricordata. Southampton ci ammaliava con qualcosa di particolare, di vagamente incomprensibile, se si ritiene le geometria applicata all’architettura un qualcosa di simmetrico e socialista.
Il Dell era tutto e di più. Era barocco.
Il Dell era quello che volevi per affermare l’unicità di un luogo e di un culto.
ll Dell era lo stadio dei santi, quelli che ora giocano sulle rive dell’Itchen, cercando la spiritualità delle origini ma che ormai di santità ne hanno sempre meno, come tutti.
Il Dell è stato il primo stadio ad avere installato un impianto d’illuminazione permanente, ed è stato la casa del Southampton FC per 103 anni.



Freddo. Usciamo da quest’acqua che nemmeno lei è più la stessa.

Il Dell con la sua tribuna obliqua. Uno degli ultimi satrapi a cui le concubine del calcio inglese si sono concesse. Investito, abbattuto da un complesso residenziale dove, in un coraggioso gesto di memoria, gli inquilini hanno fatto incidere accanto alle loro porte d’appartamento nomi che si perdono nel vento ma che il vento nel suo ciclo di eterno ritorno fa annusare ancora. C’è anche un Dio. In ginocchio, miscredenti.

Mattew Le Tissier da Guernsey. Troppo francese quel nome. Troppo vicine quelle coste. E lui risente tutti i difetti secolari di Versailles. Aristocratico, elegante, indolente. Eppure un genio, anzi un talento perché il genio fa quello che può mentre il talento fa quello che vuole. Il primo centrocampista a segnare 100 gol in Premier League. Non è l’unico nome. Provate a suonare i campanelli a Bobby Stokes, Ted Bates, Danny Wallace o a Mick Channon. Non vi apriranno loro, tuttavia qualcuno disposto a raccontarvi della sua fede nei “Saints” lo troverete di sicuro.

Vi diranno di un curato che fondò il St. Mary Church young men's (abbreviato in "YMA St Mary") che poi divenne semplicemente S. FC of Mary nel 1887-1888, prima di adottare il nome di Southampton St. Mary finché, nel 1897, fu ribattezzato semplicemente Southampton FC. Ma sì, come no. Vi diranno anche che quel giorno faceva un gran caldo. Un’ondata di caldo anomalo che nel 1976 aveva colpito l’Inghilterra. Inconsueto come quel vinile di Jasper Carrott chiamato “Carrott in Notts” che accompagnò il Southampton a Wembley per la finale di FA Cup. Era il primo di maggio e la città era vuota. Letteralmente. Tutti a Londra. O tutti davanti alla TV. A colori o in bianco e nero. Anzi in bianco e rosso. La squadra allenata da Lawrie McMenemy la stava per combinare grossa. McMenemy era uno del nord, di Gateshead, specchio fedele della Newcastle che si affaccia sul Tyne. Aveva il naso grosso e un sorriso accennato. Veniva dal Grimsby Town dove si era aggiudicato un campionato. Al vecchio Dell troverà un club di seconda Divisione formato da un gruppo non giovanissimo. Eppure il destino aveva in serbo un regalo: quella coppa d’argento, posata sul palco reale davanti alla Regina Elisabetta. Lucente, come le maglie gialle indossate quel giorno dai Santi.

Il Manchester United aveva il dente avvelenato. L’infausta retrocessione patita due anni prima, e per ironia della sorte dettata dall’ex Dennis Law davanti ai muri piangenti del tempio di Old Trafford andava vendicata con una grande vittoria. Tommy Docherty, manager scozzese dei Red Devils, lo sapeva, e non doveva sbagliare.

Centomila. Ian Turner portiere del Southampton, lì vede. Non è un miraggio. E allora si esalta. Quando l’orologio nei primi venti minuti decide di non scorrere il santo è solo lui. Para tutto, gioca la partita della sua vita e infonde fiducia alla squadra. Qualcuno alla BBC disse che il risultato non poteva essere che in doppia cifra a favore di quelli di Manchester.

Oracoli cattivi e falsi.

Quando il bus del Southampton era penetrato a fatica fra due ali di tifosi entusiasti nel cuore di Wembley, il mezzo aveva involontariamente colpito uno spettatore e tutti i giocatori si erano molto preoccupati quando entrarono negli spogliatoi. Peter Rodrigues, il capitano, non era affatto tranquillo. Tornò in strada. Chiese informazioni. Lo rassicurarono, tutto a posto, il ragazzo stava bene. Solo allora indossò la maglia, la fascia di capitano ed entrò nella luce abbagliante del campo. E come tutti i capitani ha qualche ferita. Nel fisico e nel cuore. Si riconosceva subito. Inconfondibile quel gallese. Il capello brizzolato, un leggero riporto e gli occhi azzurri sopra baffi da ufficiale di frontiera.

Mike Channon gli si avvicinò durante la rituale presentazione alle autorità. Channon era un capelluto centrocampista appassionato di cavalli ... Gli disse che non avrebbe scommesso un penny sulla vittoria, ma chi lo farà in fondo avrà fatto bene. Si trattava del classico ossimoro da ippodromo, da chi non dice di aver giocato un brocco 20 contro 1 finché non vince e dimostra a tutti la sua competenza.

In quella squadra c’era anche “Ossie”, Peter Osgood, lo stravagante ex Chelsea approdato a Southampton due stagioni prima. C’era soprattutto l’autore della rete decisiva. Un diagonale bello e preciso, tagliente come una lama nel burro: Bobby Stokes.


Quando ormai la partita si stava incanalando verso un pareggio, il versatile Jimmy McCalliog servì Stokes sulla linea di confine e la palla finì dietro Alex Stepney nell'angolo più lontano, dove le vecchie reti di Wembley si facevano ancora più capienti.

A Southampton si festeggiava. Lì, dove tutto si unisce. Fiumi, mari e oceani.

Simone Galeotti

Illusioni e realtà (la Scozia ai mondiali del 1978)

Football Miscellany

Mister Ally MacLeod
La signora MacLeod avrebbe dovuto apparire in primo piano, sorridente e vestita con semplicità. Avrebbe dovuto dire che era la moglie di Ally, l'allenatore di quella invincibile armata del calcio e a quel punto tutte le casalinghe di Scozia, secondo i piani, si sarebbero precipitate a fare acquisti al supermercato. Non si conosce con esattezza la cifra spesa per l’iniziativa pubblicitaria, si sa solamente che quel contratto, dopo il crollo della nazionale ai campionati del Mondo, fu invalidato e la catena di grandi magazzini in questione si rivolse immediatamente ad altri mezzi di seduzione del consumatore.

Nel giorno della partita contro l'Olanda valida per i mondiali del 1978 (ossia la resa dei conti del girone), i parsimoniosi scozzesi oltre ai calcoli sulla qualificazione si misero a fare anche un altro tipo di conti, quantificando quello che sarebbe costato l'eventuale mesto ritorno a casa della loro squadra. Secondo un computo che teneva presente diversi aspetti, il mancato passaggio del turno avrebbe comportato una perdita economica di oltre un milione di sterline.

Dentro la bolla speculativa c’erano gli accordi con la casa automobilistica Chrysler (300 mila sterline per pubblicizzare un nuovo modello attraverso i 22 nazionali), con l'industria discografica capeggiata da Rod Stewart e Andy Cameron (lancio di dischi commemorativi inneggianti al successo nella Coppa del Mondo), e con il settore tessile per via di magliette, camicie e bandiere incensate di vittoria. Qualcuno, probabilmente in malafede, dirà che la privazione finanziaria superò perfino la delusione dei tifosi. Insomma parve che la sconfitta sul campo dovesse passare in secondo piano davanti alla quantità enorme di soldi che velocemente scivolarono via come un ruscello nelle Highlands.

E molti scozzesi, disposti a perdonare le disavventura sportiva, non dimenticarono l'affronto subito dai loro portafogli.

Questo perché quella di Ally MacLeod era stata davvero una spedizione iniziata alla grande fra suoni di cornamuse e canti di trionfo. Il giorno della partenza da Glasgow la squadra al completo sfilò davanti alle tribune stipate ed impazzite di Hampden e i giocatori avevano alzato le braccia, avevano salutato tutti, promettendo di tornare cinti d’alloro.

Il segretario della Federazione, Ernie Walker, aveva portato gli auguri della regina (non a tutti ovviamente graditi), e il presidente Willie Harkness lesse commosso il telegramma del primo ministro Jim Callaghan mentre i giocatori, già sulla scaletta dell'aereo, mostravano le loro facce belle determinate sotto un cielo di piombo. Ally MacLeod, tipo spaccone e fin troppo sanguigno nato ad Ayr, aveva guardato fisso il barbuto capitano Danny McGrain del Celtic, e senza incertezze gli disse: “Danny, sarai il primo a bere nella coppa”.

Ora si capisce benissimo che evidentemente Ally non aveva presente la nuova coppa FIFA presentata quattro anni prima ai mondiali tedeschi, altrimenti si sarebbe reso conto che non si trattava di un modello da poter riempire con dello champagne. Ma al di là di questo banale dettaglio, evidentemente il manager riteneva più o meno sprovvedutamente che gli avversari fossero totalmente alla loro portata.

L'arrivo in Argentina era stato trionfale. Ally MacLeod volle subito ripetere il suo mantra carico di certezze davanti ai giornalisti argentini presenti, stupiti da tanta sicurezza, che subito si precipitarono nelle redazioni a scrivere sui loro giornali cose magnifiche sulla Scozia, inserendola di diritto fra le favorite d’obbligo. D’altra parte, le testate locali promossero una tacita simpatia nei confronti dei blu dovuta in parte al carattere estroverso degli scozzesi, in parte alla volontà polemica di accentuare l’astio e la presa in giro verso l’Inghilterra, colpevole di non essere riuscita a qualificarsi per la fase finale. La giunta militare di Videla, insomma, dimostrando amicizia e comprensione verso gli scozzesi, pensò di ribadire, senza dirlo, la sua avversione al governo di Londra, un insofferenza che poi sfocerà a suo tempo con la guerra per il possesso degli scogli delle isole Falkland o Malvinas.

Turbolenti, insofferenti delle norme, istintivi, poco disposti al sacrificio del silenzio, in breve i ragazzi di MacLeod trasformarono il ritiro in una specie di perenne festa a base di risate e birra. Già alla cerimonia di accreditamento divertirono i presenti per la loro "indomita" resistenza all'alcol; ma fu il campo, nei giorni seguenti, a distruggere ogni chimera di grandezza. Teofilo Cubillas e il suo Perù li presero letteralmente a pallonate demolendone il castello di carte. E’ vero, qualche giustificazione ci sarebbe: la Scozia dovette rinunciare a buona parte della difesa titolare, ai due terzini Willie Donachie e Danny McGrain, e al centrale Gordon McQueen.

La scelte di MacLeod caddero su Stuart Kennedy, Martin Buchan e Kenny Burns. Il talento Graeme Souness restò in panchina per far posto allo stagionato Don Masson (certo, eroe di Liverpool nella partita decisiva per la qualificazione contro il Galles, ma in quel momento obiettivamente fuori forma), escludendo anche il bomber dei Rangers Derek Johnstone che aveva appena chiuso la stagione siglando 41 reti e al quale venne preferito Joe Jordan. Una mossa, quest’ultima, che lasciò molto perplessi, nonostante inizialmente abbia dato buoni frutti visto che al minuto quattordici “lo Squalo” raccolse un passaggio di Bruce Rioch facendo esultare la Tartan Army.
Ma il Perù non era una banda di sprovveduti suonatori di flauto; Cubillas, uno dei reduci di México '70, iniziò a dettare legge mentre sulle fasce Kennedy e Buchan arrancavano maledettamente dietro la frenesia e gli scatti velenosi delle ali Oblitas e Muñante.
Prima dell’intervallo Cueto aveva pareggiato la rete di Jordan e l’incapacità scozzese di prendere le misure ai peruviani apparve preoccupante. Una matassa che MacLeod non seppe sbrogliare. L’inerzia della partita infatti non si modificò, nemmeno la dea bendata si mosse per la Scozia: il colpo di testa di Jordan finì sul palo e il rigore di Masson fu respinto dal “Loco Quiroga”.
A quel punto iniziò lo show di Cubillas e fu notte fonda; doppietta del mago peruviano e 3-1 al fischio finale gli Scozzesi uscirono con il morale sotto i tacchetti e il ricordo dei festeggiamenti dell’Hampden Park evaporò come se fosse lontano intere decadi piuttosto che poche settimane.

In ogni caso qualche simpatia da parte del pubblico MacLeod e compagnia ce l'avevano ancora; vuoi perché l’uomo in kilt è un po' alla stregua di certi personaggi dell’opera che - felicissimo o tristissimo, baciato dalla buona sorte o trafitto dalle avversità -, invece di ridere o piangere, invece di esaltarsi o accasciarsi, canta. “Oh, accidenti come canta bene il tifoso scozzese”: e pure canzoni belle, romantiche con un ideale sottofondo di prati, boschi e di valli risalite da nebbie perenni.

Ma bastò una comunicazione ufficiale della FIFA al medico della squadra, John Fitzsimons, per cancellare la Scozia dal cuore degli argentini. La comunicazione parlava di doping, di sostanze “stimolanti” ingerite da Willie Johnston, ala sinistra del West Bromwich, prima della partita col Perù. Furono ore di tensione, di voci contrastanti, poi il giocatore ammise il suo peccato venendo immediatamente punito dalla federazione che lo bandiva per sempre dalla nazionale.

La tensione si alzò esponenzialmente dopo il magro pareggio con la cenerentola Iran. Alla conferenza stampa l'atmosfera era plumbea, MacLeod tentò di rasserenarla avvicinandosi a un cane e cominciando ad accarezzarlo: "Almeno è rimasto questo cane a volermi bene". La bestia si girò di scatto e lo morse. In patria i sociologi lanciarono grida di allarme parlando di lacerazioni, di immagini da ricostruire, mentre intanto a Mendoza, davanti all'Olanda, la Scozia si preparava a giocare una partita impossibile che a posteriori risultò inutile, perfino triste, una partita che valse soltanto titoli sottotono.

La Scozia aveva bisogno non solo di vincere ma anche di farlo con tre reti di scarto, per accedere alla fase successiva. Un'impresa che apparve disperata contro i fortissimi orange pur privi del faro Cruijff. L’11 di giugno. inaspettatamente, ad un tratto le cose parvero prendere una piega interessante: sul 2-1 per le maglie con il leone rampante rosso, Archie Gemmill si costruì un fantastico goal accendendo candele nelle case scozzesi come nella notte di Natale. Ma ogni speranza sarà immediatamente strozzata dalla bordata di Johnny Rep che non lasciò scampo a Alan Rough. Il compito non riuscì, il capolavoro di Gemmill venne immortalato da una ballata scritta dal poeta Alastair Mackie, dal titolo The Nutmeg Suite, ma servì solo a scaldare un po’ i cuori.

Archibald Gemmill

Forse, paradossalmente, l'unico a trarre guadagno da questa avventura ingloriosa sarà proprio il sottile Ally MacLeod. Un quotidiano, lo Scottish Daily Express, gli chiederà di scrivere di suo pugno, ora per ora, il diario dell'umiliazione. Settemila sterline il prezzo pattuito e sembra che un barlume di sorriso gli apparve sotto gli occhi vacui.

Simone Galeotti

La nuova Corea della nazionale

A metà del girone che qualifica per l'europeo di Svezia, l'Italia è virtualmente eliminata. La sconfitta in Norvegia - le trasferte nordiche sono sempre insidiosissime per i nostri a fine campionato: peraltro, il rovescio degli azzurri coincise con un clamoroso zero a sei degli azzurrini contro i baby norvegesi - avvicina all'epilogo l'era di Azeglio Vicini. Gianni Brera assimilò questa disfatta a quella - che fu sempre termine di paragone di ogni nostra brutta figura - contro i nord-coreani del 1966.


Il campionato che si pretende sia il più bello ed è invece il più costoso e dissennato del mondo ha trovato il modo di farsi rappresentare in Norvegia da un piccolo branco di cadaveri neppur tanto eccellenti. Carichi di un carisma già compromesso da loro fino alla vergogna, gli azzurri sono riusciti a mettere subito in evidenza una squadra composta da gente se non altro sana e animata da ammirabile senso agonistico. Norvegia-Italia non ha avuto storia se non per le brutture che sono aggallate verso la fine: 2-1 per loro, l'Italia esce così dagli Europei: è una piccola Corea. I norvegesi si sono subito avventati, sballando le nostre fragili difese come se fossero di carta e soprattutto come se sapessero che erano di carta. Dopo soli 4', il famosissimo Zenga era battuto senza mercè!
L'attesa controffensiva degli azzurri non ha prodotto che disordine e affanno. Un centrocampo fondato sui soli muscoli bruti, per giunta oberati di ruggini vistosamente grevi, non è mai riuscito a fornire un'idea che fosse una, né in attacco né in difesa. Le punte della Sampdoria hanno cercato disperatamente nelle esili riserve a loro disposizione la forza di esprimere quanto purtroppo avevano speso per vincere il campionato: si sono molto agitate a volte commuovendo per l'impotenza che le frenava. I norvegesi crescevano di statura ad ogni azione. Si vedeva che erano freschi e pieni di entusiasmo. Ogni loro schema prendeva avvio in un subisso di applausi festosi. Il viatico della partita era stata purtroppo l'incredibile goleada inferta ai giovani azzurri sull'infausto campo di Tavanger. I tifosi norvegesi erano così arroganti sugli spalti da sfiorare l'insulto. Altro che compostezza nordica, fratelli! In certi momenti si aveva l'impressione di vivere nella più scalcinata e smodata provincia d'Europa. 
I famosi e più pagati pedatori del mondo si mortificavano in entrate e rincorse da mettere vergogna. Il secondo gol norvegese veniva segnato in assolo (al 25') da un'aletta di tutta grinta. A questo punto non si era più vista partita. Il cronista che qui s'ingegna di contenere il proprio dispetto si abbandonava a invettive che rasentavano il dileggio. Parlare adesso di tournée in Scandinavia è abbastanza pretenzioso, per non dire addirittura ridicolo. Da possibili campioni del mondo, siamo stati mediocri e già fortunati terzi nel Novanta; adesso, ci siamo preclusi la partecipazione all'europeo che qualche mattocchio straparlava di disputare da doverosi protagonisti (!!). La grande scivolata ha avuto inizio con la mancata vittoria a Budapest; poi, con il pareggio imposto dai sovietici a Roma. Qui, la caduta è stata verticale, clamorosa molto più che non dica l'esiguo risultato numerico. 
Nel secondo tempo i norvegesi hanno giocato una partita esclusivamente tattica: si sono ritratti di proposito invitandoci a concedere loro spazio e noi puntualmente abbiamo abboccato illudendoci di attaccare. Zenga è stato graziato più volte. E' entrato Schillaci al posto di De Napoli, non molto più disastroso di altri, e Lombardo gli ha offerto una difficile palla-gol in cross dalla destra: il piccolo siciliano ha compiuto una vera prodezza incornandola in rete. Era il 34'. L'arbitro olandese, furiosamente beccato all'avvio per i troppi interventi favorevoli agli azzurri, alla lunga si era insospettito che non lo facessero fesso e aveva persino negato un rigore per fallo evidente di Thorstvet su Maldini (13'): ma dopo quell'episodio i norvegesi avevano sciupato gol fatti in contropiede. L'ultima occasione davvero clamorosa l'ha sventata d'un soffio Ferri azzoppandosi malamente. Baresi ha ribattuto palla lontano e Vialli ha porto a Schillaci la palla del possible 2-2: il magnifico goleador dei Mondiali, oggi finito chissà dove, ha sparato con troppa superficialità il sinistro e la palla, ancorché facile, è volata al cielo! 
Infine, si è chiuso con l'ignobile apparizione di Bergomi scaldato a freddo dalla panchina: entrato a sostituire Ferri, dopo soli venti secondi si faceva espellere. Era la farsa che mancava per riportare il nostro amaro dramma al clima di tragicommedia cui sembra ci condanni un destino ahimé inqualificabile. Certo, è colpa nostra. E chi ha colpa è giusto che paghi.

Gianni Brera, La Repubblica, 6 giugno 1991

Con tanta nostalgia di uno sport nobile

di Gianni Brera

Povero calcio, di noi povera gente: sport per eccellenza plebeo, proibito per secoli in quanto a praticarlo erano gli umili, troppo spesso confusi con i villani! Le plebi hanno preso quota nell'ordine politico-sociale delle nazioni e anche i loro gusti hanno finito per imporsi. Giocò a calcio in Italia anche un principe del sangue: e i suoi compagni erano quasi tutti nobili o grandi borghesi. Poi si accorsero che pedatare squalificava, nel Paese-guida dello sport moderno e passarono al golf, al tennis, rimanendo pur sempre alla scherma e all'equitazione. I pedatori furono allora di schiatta piccolo-borghese, e belli come poteva essere chi da qualche generazione pappava bistecca. Infine raggiunsero il plus-calore anche i poveri del quarto e quinto stato: e decadde la qualità ma crebbe il numero. 

Noi italiani siamo a questo punto. Gli inglesi, loro hanno incominciato a cedere un tantino nei confronti della pedata volgare. Decaduta la boria imperiale, bisognava consolarsi dov'era possibile. Il calcio ha preso quota allora anche presso i non indigenti (come da poco in Svezia e Danimarca), ma il relativo benessere del singolo cittadino ha consentito a troppi di spostarsi nelle vesti di pseudo-turisti. Erano spesso i fanatici a imbrancarsi: e tanto più feroci quanto peggiori erano le condizioni economiche del loro quartiere o della loro città. 

Ora la più decaduta tra le città inglesi è proprio Liverpool. E le sue due squadre eccellono come per una rivalsa che in altri campi non è possibile. I belgi hanno conosciuto l'Everton l'anno scorso e pareva non avessero altro da apprendere sui seguaci del Liverpool. Purtroppo hanno fatto penosissima cista. Il loro Heysel, un tempo onorevolissimo, è ormai insopportabilmente obsoleto. Ha le due curve in terra battuta con gradini sorretti da pietre malferme: in queste curve gli spettatori sono costretti a stare in piedi. Ammassare oggi folte moltitudini sugli spalti di curve senza posti a sedere significa esporsi a rischiose calamità pubbliche. Per loro disgrazia, i belgi hanno ottenuto dalla Uefa l'incarico di organizzare la Coppa Campioni. Sapevano di aver a che fare con orde di inglesi avvinazzati e feroci. Non hanno riflettuto però che gli spiantati liverpooliani non potevano competere con i ricchi juventini di tutta Italia, e che metà della curva destinata agli ospiti albionici sarebbe stata accaparrata - magari a borsa nera - dagli italiani. Così non hanno ritenuto i belgi di dividere più efficacemente i rappresentanti di due popoli l'uno all'altro inviso per troppo differenti destini passati e presenti. 

Alla tradizionale spocchia degli inglesi, il visibile benessere degli italiani doveva suonare come un'offesa patente, uno sberleffo tragico della sorte: dunque, ai più scalmanati non è parso vero di farla subito fuori. I pochi sparuti poliziotti belgi sono stati travolti. Gli italiani, prima sorpresi, poi atterriti, si sono ristretti fino a soffocarsi. 

I vecchi spalti interrati dello Heysel sono divenuti orrendo cimitero. Mortificati e stravolti, i belgi hanno taciuto lì per lì la tragedia, hanno chiamato allo Heysel tutta la polizia a disposizione nel regno: non è bastato. La partita, che pareva giocata per tacitare i manigoldi, si è risolta a favore della Juventus, il cui tripudio ha un po' stupìto dopo tanti decessi. Gli inglesi di Liverpool sono tornati alle loro tane, alla loro quotidiana mortificazione di paria. Gli italiani, fino a ieri sottovalutati e derisi, hanno meritato la sincera comprensione di tutti. Giorno verrà - non è affatto lontano - che il calcio perderà i suoi satanici sapori di transfert dalla degradazione e dalla miseria. Allora tornerà ad essere per molti quello che è sempre stato: il gioco forse più bello di tutti. Parola di un povero fra i tantissimi poveri di questo mondo.

La Repubblica, 31 maggio 1985

L'isola che non Guernsey

Football Miscellany

Il fatto che il capitano di marina William Colbin si districasse così egregiamente in quel perfido e brumoso corridoio di mare, faceva una certa impressione all’uomo seduto a bordo del battello a vapore, appartenente alla compagnia "Durande", partito da Saint-Malo alle sette in punto di quella mattina sotto un cielo nascosto dalla foschia. Dissolto l’ultimo velo di nebbia e superata l’ultima cresta d’onda, le scogliere dell’isola, a cui l’unico passeggero era destinato, incominciarono a mostrarsi insieme al minuscolo porto di Saint Peter con le sue casette di legno colorato, addossate, in un appiglio quasi morboso, alla vecchia torre normanna che fungeva da faro, dove illuminata dalla luce giallastra, intermittente e gassosa della lanterna, garriva lacerata dai venti una bandiera britannica.

Saint Peter

In breve l’imbarcazione attraccò al molo brulicante di pescatori intenti a rigettare in traballanti barchette le loro reti appena svuotate. Solo un signore, alto e ben vestito, sembrava attendere nervosamente l’arrivo del traghetto. Il 31 ottobre del 1855 un uomo dall'aria modesta e un po' trascurata con un faccione bonario ornato da una folta barba brizzolata sbarcava sull'isola di Guernsey per sfuggire alle patrie galere a causa della sua ferma e dura presa di posizione nei confronti della repressione voluta da Napoleone III. Incominciava l’esilio di Victor Hugo a Guernsey, un esilio lunghissimo, durato ben quindici anni.

Guernsey è un’isola strana: gli abitanti sono inglesi senza volerlo e francesi senza saperlo. E tuttavia, se casomai qualcuno di loro lo intuisse ci terrebbe a dimenticarlo in fretta. Politicamente il territorio è un protettorato della Corona inglese, seppure si trovi molto più vicino alla costa francese. Insieme alle consorelle del comprensorio gode di un ampia autonomia giudiziaria e amministrativa. Ha perfino un parlamento, un bilinguismo storicamente accettato e un proprio conio che imprime sulla moneta il profilo austero di Elisabetta ma vi scrive accanto: State of Guernsey. Gli isolani inoltre, da antico decreto legislativo, non possono essere chiamati a prestare sevizio militare a meno che la suddetta Regina in persona non venga catturata oppure l’Inghilterra invasa. Che dire? Al di là di qualcuno che possa progettare il sequestro di Sua Maestà, dopo la sfuriata vincente di Guglielmo, gli altri tentativi più o meno accertati da parte di Bonaparte e Hitler sono naufragati e allora, adesso, diciamo che sull'isola dormono sonni abbastanza tranquilli. Insomma luogo bizzarro questo, che si dibatte da secoli fra "Yes" e "Oui" mentre i suoi scogli si allargano e si restringono ogni sei ore per l’influsso delle alte e basse maree.

Guernsey è un pezzettino di Francia perduto in mezzo alla Manica raccolto dall’Inghilterra attraverso trattati e donazioni. Un pezzettino di terra dal clima talmente infausto che ogni tanto sul campo da calcio di Footes Lane volteggia un elicottero per agevolare l'asciugatura del terreno ridotto ad acquitrino dalle piogge. Successe per esempio il 23 marzo del 2013 quando il Guernsey Football Club ospitò, nella gara d'andata della semifinale del "Vase", lo Spennymoor Town, sceso dalla lontana contea del Durham. Non andò particolarmente bene, i "moors" si imposero per 3-1 e solo ad onor di bandiera contò la rete del provvisorio pareggio siglata da Dominic Heaume che aveva fatto esultare i 4290 accorsi intorno al rettangolo del Lane nella speranza di un memorabile viaggio a Wembley. A nulla valsero sogni e utopie rivolte alla partita di ritorno lassù a 500 miglia da casa, dove arrivò un'altra sconfitta, seppure di misura, per il Guernsey capitanato da Sam Cochrane.

Footes Lane in un gradevole e limpido pomeriggio

Il Guernsey Football Club è società di recentissima fondazione, nonostante si abbiano notizie ufficiali di un pallone che rotola sull’isola già dal 1893. Nel 2010 la conquista della UEFA Regions Cup da parte della rappresentativa locale stimolò la creazione di una squadra che partecipasse ai campionati inglesi e un anno più tardi, grazie alla collaborazione dei fratelli Matthew e Mark Le Tissier (l’ex idolo del “Dell” di Southampton è nato sull’isola nell’ottobre del 1968), ecco i "Green Lions":  nel giro di qualche stagione scalano un paio di gradini e oggi sotto la guida tecnica di Tony Vance giocano nella Isthmian League Division One South. Matthew Le Tissier è stato presidente fino al 2014, poi ha passato il testimone a Mark.

Quest’anno la squadra si è salvata con qualche patema d’animo di troppo, in ogni caso il prossimo 27 maggio in occasione della finale di FA Cup un dirigente del Guernsey è stato invitato a sfilare nel pre-partita perché per la prima volta nell'ultracentenaria storia della competizione una delle partite si è svolta su un’isola (certo pure il Regno Unito è a sua volta un’isola tuttavia non formalizziamoci troppo, ci siamo capiti...) anziché sulla terraferma.

E’ successo lo scorso agosto in occasione di uno dei tanti match preliminari di questo torneo, quando i verdi hanno giocato contro il Thamesmead Town. A rappresentare il Guernsey ci sarà proprio Sam Cochrane che è stato non solo, come detto, il capitano dell’avventura nel Vase di quattro anni fa ma anche colui che ha posto la sua firma sul primo contratto stampato dal club.

Simone Galeotti

Sam Cochrane

Il Milan come Dorando Petri (20 maggio 1973)

Sembrava si stesse riaprendo un ciclo, dopo cinque anni. La vittoria della Coppa Italia, e la stagione successiva scudetto e Coppa delle coppe. Poi, chissà. Ma la sequenza si interrompe bruscamente a Verona, il 20 maggio 1973. Niente scudetto per il Milan, e niente stella. Una delle più infauste domeniche della storia rossonera: raccontata da Gianni de Felice, prima firma sportiva al Corriere della Sera.


Verona, 20 maggio
Senza discussione, senza attenuanti. Il Milan ha regalato in una penosa, drammatica, umiliante partita un campionato che lo aveva visto quasi ininterrottamente nelle prime posizioni della classifica, e uno scudetto che per due volte, lungo l'arco di questa tormentata ma affascinante stagione, era parso ben saldo nelle sue mani. Nel volgere di pochi minuti, un Milan vuoto, molle, sbandato, annichilito dalla sua stessa pochezza ha incredibilmente bruciato mesi di ammirevoli prestazioni, valanghe di gol e di applausi, vittorie entusiasmanti; e ha reso irrimediabilmente vana la rabbiosa reazione con cui aveva risposto alla sfortunata trasferta romana con la Lazio. Nel volgere di pochi minuti si sono dissolte nell'illanguidente tepore di questo pomeriggio veronese le speranze, se non addirittura le certezze, dei rossoneri e dei loro tifosi; si sono dissolte, ormai inutili, le belle partite che avevano condotto il Milan al comando della classifica e le generose battaglie che ce lo avevano in questi ultimi tempi mantenuto.
Lo sport è fatto di gioie indicibili, di trionfi esaltanti, ma anche di amarezze tristissime come questa. Al fondista o al ciclista che ha tirato sempre in testa una lunga e massacrante corsa, può accadere di crollare sfinito e inebetito dallo sforzo un metro prima dello striscione di arrivo. Ed esattamente questo è accaduto al Milan oggi. Il suo doloroso destino ricorda la lontana e patetica vicenda del maratoneta Dorando Petri, ormai entrata nell'antologia, nella leggenda, diciamo pure nella retorica dello sport. E ricorda anche tante volate drammaticamente perse sul filo di lana, tante medaglie olimpiche mancate per un'unghia. Ma le leggi dell'agonismo, per quanto spesso beffarde e talvolta addirittura crudeli, vanno lealmente accettate. Questo asperrimo campionato, chiacchieratissimo e invelenito da mille polemiche, ha in fondo avuto una conclusione "sportiva". Una conclusione che resterà nella storia del calcio: così come rimase quella del 1967, quando, alla stessa maniera del Milan, fu l'Inter a perdere lo scudetto e, alla stessa maniera di adesso, fu la Juventus a vincerlo.
Forse queste sono le meste riflessioni dei venticinquemila tifosi milanisti che sin dalle prime ore del mattino avevano invaso Verona e che avevano gremito i due anelli dello stadio scaligero, trasformandolo in due brulicanti corone di vessilli rossoneri. Corone traboccanti di gente e di entusiasmo, che dovevano cingere idealmente la testa del Milan campione, che dovevano celebrare la festa dello scudetto più ambito: il decimo della storia milanista, quello della stella. E invece, ora che Monti ha fischiato la fine dopo il gol di Bigon, il terzo ed ultimo messo inutilmente a segno dal Milan, lo stadio è muto. Col passare dei minuti, con il lento ed inesorabile consumarsi di questo dramma sportivo, lo sgomento ha rubato sempre più spazio al tracotante entusiasmo dell'inizio nel cuore dei tifosi milanisti. In una curva sventola un grappolo di bandiere giallo-blu, i colori veronesi. Altrove, è soltanto silenzio. E l'unica corona, ormai serto di alloro rinsecchito, è quella che tutt'intorno al bordo del fossato fanno le bandiere milaniste lanciate dal pubblico con amaro e deluso dispetto.
Migliaia di vessilli rossoneri con la stella giacciono come stracci ai bordi delle gradinate. Mentre i giocatori escono dal campo stravolti. Mentre i dirigenti abbandonano avviliti la tribuna d'onore. Mentre Rocco, seduto alle nostre spalle, impietrito e con gli occhi persi nel vuoto, passa e ripassa una lingua che sa di fiele sulle labbra inaridite dalla tensione e dal dolore. Da due minuti è giunta la notizia del gol vincente di Cuccureddu. E' la fine.

* * *

Come è potuto accadere? In che modo il Milan ha letteralmente buttato un campionato che da tempo era virtualmente 'suo'? Come si può spiegare questa catastrofica sconfitta? Il compito del cronista è tristemente facile.
Primo: Schnellinger non ha potuto giocare, essendo stato negativo il provino sostenuto mezz'ora prima dell'incontro, e il suo posto lo ha preso Turone che ha confermato in pieno la mediocrità tecnica già denunciata mercoledì a Salonicco; Turone ha rappresentato la più grossa falla di una difesa male organizzata, dando un'ulteriore dimostrazione del peso che l'esperienza di Schnellinger ha sempre avuto in questo reparto del Milan. Secondo: la squadra ha evidentemente accusato la fatica e i postumi della durissima battaglia con il Leeds, rivelandosi quasi completamente priva di forza e di nerbo: neanche dopo essersi trovato in svantaggio il Milan ha reagito con il vigore che, in una circostanza come questa, era lecito aspettarsi; il caldo ha, da parte sua, aggravato questa lacuna e il verona, fresco, agile, volitivo, ne ha crudelmente ma molto onestamente profittato, facendo fino in fondo il suo dovere. terzo: a risentire maggiormente del generale calo di tono fisico sono stati i milanisti meno atleticamente dotati, come Rivera e Chiarugi, cioè il regista e il più efficace risolutore della squadra; ad essi bisogna aggiungere Bigon, che da alcune settimane soffre di bronchite. Quarto; le fatali disattenzioni di Benetti e di Sogliano nel marcare Bergamaschi e Sirena hanno avuto conseguenze determinanti: è tuttavia necessario sottolineare anche la inutilità della posizione di Rosato e Zignoli, rimasti a fare i mediani a centrocampo senza che però si prendessero minimamente cura degli interni veronesi Mascetti e Mazzanti.
A questo punto è doverosa una spiegazione. Benetti e Rosato sono stati fra i milanisti quelli che più hanno corso e sgobbato per tenere in piedi una squadra, visibilmente spaccata in due dalle velleità offensive degli attaccanti e dalla necessità di proteggere in qualche modo una difesa sgangherata, costantemente in affanno contro Bergamaschi, Luppi e Zigoni. Ma nonostante la loro buona volontà, né Benetti né Rosato hanno mai validamente arginato nella loro zona le puntigliose offensive veronesi. Il Milan è partito con Sabadini stopper su Luppi (una sciocchezza: perché rinunciare ad un risolutore come lui?) e Anquilletti su Zigoni. Rosato e Zignoli stavano in linea come mediani, senza marcare nessuno: perciò, il Verona poteva tranquillamente superarli in velocità. Ci sono voluti tre gol perché i collegamenti tra Rocco in tribuna e Trapattoni in panchina funzionassero e perché il Milan correggesse il suo assetto, mandando Sabadini a fare l'ala destra, arretrando Sogliano a metà campo e incaricando Zignoli di prendersi ruvidamente cura di Luppi.
Ma al di là di tutte queste osservazioni tecniche e tattiche, una piccola sfumatura psicologica ha avuto, a nostro parere, un'importanza straordinaria. Questa: il Milan è sceso in campo sicuro della vittoria, convinto di poter ripetere l'impresa di Salonicco facendo valere la sua superiorità tecnica. Difatti, ha cominciato l'incontro al piccolo trotto, come se si trattasse di una innocua amichevole. E non si è disperato neppure molto quando, dopo nove minuti, Rivera ha frettolosamente sprecato un lancio di Benetti, tirando da pochi passi un parabilissimo rasoterra centrale.

* * *

Questo è l'avvio del Milan. Si continua così, allo stesso fiacco ritmo fino al 18°. Chiarugi è fischiato per un lancio vistosamente fuori misura. Turone si esibisce in inutili incursioni. Una di queste procura una punizione, che la barriera respinge. L'azione di rilancio veronese si dipana sulla destra. Zigoni avanza; dribbla Anquilletti, poi schiva il goffo intervento di Turone: il suo cross sorvola Vecchi, raggiunge Sirena che, liberissimo, lo devia di testa nella porta vuota. Sorpreso da tanto ardire del Verona, il Milan si smarrisce. La difesa ne combina di tutti i colori. Rivera viene fischiato per un grosso errore di lancio. La speranza del pareggio è viva, ma dura poco. Al 26° Bergamaschi lancia a Busatta, che supera Sabadini e tira di sinistro su Turone, scivolato a terra: la palla viene respinta verso Luppi, il quale dal limite chiude gli occhi e spara: Sabadini devia appena di destro e manda il pallone sotto la traversa. Due a zero. Non passano tre minuti e il Verona segna ancora. Tunnel di Bergamaschi (dove sei Benetti?) a Turone, quindi breve cross da sinistra per Luppi che in corsa batte imparabilmente Vecchi.
Il Milan è finito. La sua resa è evidente. Rosato al 34° insacca a parabola, raccogliendo una respinta di Mascalaito. Il gol riaccende un barlume di speranza. Monti risparmia ai rossoneri un rigore per sgambetto di Zignoli a Luppi. All'inizio della ripresa l'annuncio che la Juve perde e che la Lazio pareggia dà ancora una scossa alla partita.
Ma il Milan non è in grado di sfruttarla, il Milan non c'è. Chiarugi manca una palla-gol al 17°. poi sono soltanto cannonate di Benetti quasi tutte fuori. E' invece il Verona ad insistere, con incredibile autorevolezza. Luppi dribbla Zignoli davanti alla porta al 25°, lo aggira sulla destra e da pochi passi in diagonale batte il povero Vecchi. Siamo a quattro. Il conto salirà a cinque tre minuti dopo: un lungo tiro di Busatta è deviato da una gamba di Turone. Vecchi, schiacciato, incassa, portandosi con disperazione le mani al volto. Si ha notizia del pareggio della Juve. Ora le tre squadre in lotta epr lo scudetto sono a pari punti. Il Milan può ancora sperare negli spareggi. Sabadini segna di testa al 37°. Poi arriva la notizia del gol di Cuccureddu. Nessuno applaude la rete du Bigon, che chiude al 91° lo sfortunato campionato del Milan. Ora è davvero finita.

[Gianni De Felice, Corriere della Sera, 21 maggio 1973, p. 11]

Il servizio della Domenica Sportiva
Tutto il calcio minuto per minuto

Una vigilia agitata

A poche settimane da una famosa tornata di elezioni politiche, finalmente il 17 maggio 1953 a Roma si inaugurava il nuovo, grande stadio. Lo 'Stadio dei Centomila', ma già 'Olimpico' in vista della possibile assegnazione dei Giochi del 1960 (che arriverà il 15 giugno 1955). La sua storia inizia con una partita di calcio: Italia-Ungheria. Sì, gli azzurri opposti al peggiore avversario che si potesse immaginare in quel momento. Fu una vigilia agitata. Da cosa? Dalla caccia al biglietto. Svoltasi in una confusione tipicamente 'romana', secondo la stampa del Nord. E il racconto (spassoso: perciò merita di essere riproposto) di quella vigilia si prese addirittura la prima pagina de 'La Stampa', il 17 maggio. 


Roma, 16 maggio
La frenesia sembra essersi impossessata di Roma in questa che i giornali della sera definiscono 'agitata vigilia sportiva'. L'imminenza del 'match' fra i calciatori azzurri e gli ungheresi, l'inaugurazione del nuovo grande stadio, le carovane di 'tifosi' che giungono da Nord e da Sud assalendo gli alberghi, le voci sul bagarinaggio dei biglietti (30 mila lire per un posto di tribuna), le discussioni dei tecnici improvvisati agli angoli delle vie: tutto ciò finisce con l'inserirsi come un vasto impensato elemento corale nella atmosfera già cosi tesa della battaglia politica e dei comizi: il clamore si aggiunge al clamore, "Fratellanza tra i popoli", grida dai muri un manifesto comunista che raffigura l'abbraccio fra un atleta magiaro e uno italiano. 
I romani rimasti senza biglietto per la partita non hanno saputo (o potuto) raccogliere l'invito della fratellanza neanche sul piano più modesto della concordia municipale. Quello che è accaduto stasera agli sportelli del vecchio Stadio Torino, dove in extremis la Federazione Gioco Calcio ha posto in vendita alcune migliaia di posti di curva, è tipico di un entusiasmo sportivo che non si arrende al civismo, o di una mentalità burocratica digiuna di psicologia: i romani non sopportano le file, i biglietti sono stati gettati in pasto alla loro fame senza nessuna preoccupazione d'ordine: le resse dinanzi agli sportelli sono cresciute, degenerando in tumulti; una folla impazzita (c'erano forse ventimila 'aficionados') ha schiamazzato a lungo sul piazzale tentando di prendere d'assalto le guardiole dei cassieri: la polizia a cavallo ha caricato i riottosi con slancio. Si sono avute le più memorabili, urlanti scene di panico di questi ultimi anni, ben più paurose di quelle che movimentarono Piazza Colonna per le manifestazioni contro il Patto Atlantico: la folla non aveva scampo, i cavalli si impennavano sui fuggenti. Ci sono stati due feriti e una trentina di contusi, alcuni dei quali in modo piuttosto duro; la vendita dei biglietti è stata interrotta. 
Con pompa serena invece le autorità religiose e laiche hanno proceduto ad una 'prima inaugurazione' dello Stadio Olimpico. Stamattina Pio XII aveva benedetto la bandiera del CONI e la medaglia commemorativa dell'avvenimento, rivolgendo un discorso ai veterani dello sport (85 campioni olimpionici e 31 campioni dcl mondo), fra cui il quasi novantenne maestro di scherma Agesilao Greco e il vecchio, cieco lottatore Raicevich. "Desideriamo anzitutto congratularci — egli ha detto — con quanti, superando non lievi difficoltà e dopo lunghe vicende, hanno condotto a termine un'opera ben degna di inserirsi per le sue dimensioni nella tradizione del grandioso e del bello proprie della Roma di ogni tempo e che risponde — come ci è stato riferito — alle esigenze più moderne di simili costruzioni".
"Mentre pertanto bene auspichiamo all'opera vostra e ci apprestiamo a benedire la bandiera del Comitato Olimpico Nazionale Italiano, leviamo la nostra preghiera all'Altissimo affinché il nuovo stadio serva efficacemente al miglioramento fisico e morale del popolo e particolarmente della diletta gioventù romana; che ogni qualvolta le moltitudini traboccanti dal suo ampio abbraccio lo trasformeranno in un'aiuola fremente di vita contribuisca a rinsaldare il senso della concordia di cui è espressione: e finalmente soprattutto che in ogni circostanza lo stadio olimpico non cessi di cantare con le voci della presente e delle future generazioni la gloria di Dio". 
Terminato il discorso, il Pontefice ha appuntato sulla nuova bandiera olimpica la medaglia d'oro con la sua immagine. 
Nel pomeriggio, presente il sottosegretario Andreotti, il cardinale Micara, vicario di Roma, ha benedetto lo stadio nuovo. "Consacrarlo domani con l'acqua santa dinanzi agli atleti di un Paese ufficialmente marxista avrebbe avuto l'aria di un esorcismo contro i nostri avversari", è stato argutamente detto. Quanto a costoro, che poi non sono che ragazzi mal vestiti, dall'aspetto ingenuo, sebbene l'arcigna Costituzione magiara li classifichi quali 'difensori di Stato', hanno preso parte stasera ad un ricevimento nella sede de L'Unità, intrattenuti e festeggiati dalle alte cariche comuniste. I giovani ungheresi apparivano stupiti e perfino depressi per lo scalpore che vanno suscitando: "Quella dì domani, in fondo, non è che una partita di calcio — commentava uno degli atleti, non senza saggezza — fra due giorni nessuno ne parlerà più".

[La Stampa, 17 maggio 1953, articolo firmato da C. L.]

Vedi anche Costruzione e inaugurazione dello Stadio Olimpico (Eupallog Santuari) e la documentazione sulla partita (Eupallog Cineteca)

Da Superga fino al trionfo


16 maggio 1976. "Ultima di campionato, non tutto è deciso. Il Toro ha una sola lunghezza di vantaggio e una partita apparentemente facile, in casa; la Juve una partita apparentemente facile, fuori casa. Cesena e Perugia possono già programmare le vacanze, non hanno più traguardi da conquistare. Ma si battono onestamente. Primi tempi in bianco. Secondo tempo. Renato Curi (già) infila Zoff; passano pochi minuti e Puliciclone schioda la sua partita. Mozzini (autorete) rimette tutto in discussione. Se la Juve rimonta e vince, è spareggio. Rimane il se. Lo scudetto va a quelli che l'hanno meritato. Per un solo giorno, il rumore dello schianto di Superga è coperto da frastuoni festosi e la città torna ad avere anche altri colori" (Michele Ansani, Lenta può essere l'orbita della sfera, p. 130).
A bene illustrare il significato del titolo granata, per i lettori di 'La Stampa', ci pensò il solito, magistrale Giovanni Arpino


Cosa significa questo nuovo, trionfale scudetto torinese? Cosa vogliono dire tanti stendardi, trentamila garofani all'occhiello, gli infiniti fiocchi granata che adornano fin da sabato notte la città, dalle nobili ombre dei portici al balconi della periferia? E cosa ci vogliono far capire i balli, gli abbracci, le estemporanee invenzioni, sia in piazza San Carlo sia nelle province piemontesi, con corse di tori, sbandieramene e brindisi? 
Pare un paradossale «compromesso storico» dedicato al pallone. La sede del club di Orfeo Pianelli è piantonata giorno e notte dai fedeli come se si trattasse di un tempio dedicato a Minerva. E gli echi, le ripercussioni di questo stato d'animo dureranno a lungo. Ma cosa ci trasmettono, e perché? 

Non basta rifarsi alla tragedia di ventisette anni fa, al rogo di Superga, alla lunga attesa delle tribù granatiere. Questo scudetto tinto di vermiglio, i fiori all'occhiello di tante persone costituiscono - seppur in modo inconscio - una rivincita prettamente torinese, piemontarda in ogni millimetro di osso e di midollo, in ogni goccia di sangue per ogni vena.
Perché la Juventus è universale, il Torino è un dialetto. La Madama è un «esperanto» anche calcistico, il Toro è gergo. E qui il peso del campanile trova finalmente sfogo, piedestallo, unicità espressiva, anche se l'immagine della squadra granata è amata per quanto seminarono, tanto tempo fa e in ogni luogo d'Italia, i gol e i lutti dei Valentino Mazzola e dei Maroso.
Oggi, Torino granatiera gode. Clamorosamente. Ma si chiude anche a versare una lacrima di commozione, nel groppo di tanta gioia, nel rilassarsi di tante tensioni. E si parla di calcio, di Pulici o Castellini o Claudio «poeta pelotero» solo per dar realtà a un sogno troppo vasto, quasi inabbracciablle. 
Uno può davvero ancorarsi a due poli nella vita: il giorno segnato 4 maggio '49, quando arrivò il fulmine mortifero di Superga e precipitò in lutto il Paese, e questa domenica, sofferta e goduta. Un ciclo si è chiuso per cominciare a crescere in ultra forma. 
Nessuno dubita sui meriti del Torello di Radix, generale gelido. Più del mito che anni fa crebbe ma anche dilaniò la squadra di Giagnoni, ha potuto il realismo del nuovo staff. Partito per trovare una propria dimensione definitiva, per autopianificarsi in vista dell'immediato futuro, il Toro di Gigi Radice è cresciuto da se stesso, così come il suo presidente Orfeo Pianelli, uomo «venuto dal presente», desiderava da tanto. Fino a scrivere nel gran libro del campionato, a caratteri rapidissimi, le tappe del derby, del riaggancio, del sorpasso: capitoli che passano con furia dalla storia recente alla leggenda tifosa, commossa e trepida e vera.  
Alla magna Juventus, che giocava il suo calcio generoso ma anche barocco, con punte di dispendio che vorremmo definire «liberty», il Torino dei «gemelli» , di Claudio, dell'ironico Pecci «Piedone» ha risposto con geometrie violentissime e probanti (tanto da spingermi a usare la definizione «Sturm und Drang» perché quel romantico assalto da  «tempesta e passione» sull'erba di un prato traduceva le attese degli appassionati in mosse giocoliere così rare in Italia). Qui sta la differenza tecnica, se vogliamo, e qui i diversi meriti di una annata di calcio italiana che ha visto tutti gli altri far da pallide comparse.

L'urto che la vittoria granatiera porta al mondo della nostra pelota è altamente positivo, propizio e da imitare. Una strada «globale» ma casalinga, senza inutili millanterie olandesi o teutoniche. Ed è una vittoria che farà del bene ulteriormente alle due società, ai loro diversi popoli sostenitori: perché cancella di colpo quei residui di vittimismo e di doloroso rimando che travagliavano l'animo granata; perché consente al club cugino e avversario di iniziare qualche mossa di rinnovamento; perché questo stesso club bianconero, perdendo seppur da «secondo» l'ennesimo titolo, scavalca di un balzo tutte le menzognere campagne contestatone che lo hanno assillato per almeno due anni; e perché, infine, un Torino di questo stampo, in una prossima Coppa Campioni, sarà squadra da vedere, con curiosità e responsabilità di giudizio. 
La festa grande non abbisogna di spiegazioni ulteriori: è un risultato, un traguardo di per sé. I vari mediconi della critica sportiva ora si chineranno a scrutare e diagnosticare tanti «perché». Lasciamoli fare: tanto non parlano il nostro dialetto. Limitiamoci a constatare questa legge: che almeno nello sport talvolta vince il migliore. La gioia popolare parte anche da qui.

Giovanni Arpino
[La Stampa, 17 maggio 1976, p. 3]