'54 e dintorni


Football Miscellany

Parole a galleggiare nell'aria, a riempire lo spazio stretto racchiuso tra le quattro mura dello spogliatoio. Berna 1954, Wankdorfstadion. Ferenc sente di non dover dare altre spiegazioni, ha appena finito di bere il suo the, ha gettato la maglia rosso cremisi nella cesta di vimini sul tavolo e si è alzato in piedi accendendosi una sigaretta e infilandosi la giacca.
“Vado.”
Il tempo della verità era già finito?
Gustav vorrebbe fermarlo, ribattere che non può andarsene così, ma lui risponderebbe che è venuto al mondiale non per lui, ma solo perché quello è il suo lavoro. Gustav vorrebbe chiedergli qualcosa ma il tempo della verità era davvero finito e Gustav guardò Ferenc scomparire dietro la porta, poi si voltò, appoggiò la testa al vetro dell’unica finestra e ascoltò il rumore della pancia dello stadio spegnersi poco alla volta, restando immobile, con quelle orecchie troppo grandi e la fronte calva, provando a rimettere in ordine i pensieri.

A Budapest, quartiere Lipótváros, c’è una piazza piena di gente. C’è la musica di una fisarmonica all’angolo e quella più netta di un pianoforte che entra e esce dalla porta di un caffè. Le note inconfondibili del “sogno d’amore” di Franz Lizst, mentre il sole scompare lentamente dietro l’orizzonte sagomato dai palazzi sul Danubio. È aprile. Gustav se ne sta nel suo vestito di buona sartoria, nell’andatura goffa, dondolante, eppure tiene lo sguardo dritto davanti a sé, gli occhi a catturare quel pezzo di mondo che gli sta di fronte, a cercare qualcosa che inizia e finisce dentro un nome: “Arancycsapat”.
I ragazzini lo riconoscono, è quello del calcio. Se ne stanno in disparte, ai lati della scalinata di un alto edificio in laterizio. Le risate cedono alla bolla del grande maestro, solo la musica del pianoforte arriva, a sprazzi, a rompere il silenzio dell’ammirazione.
Alfréd, occhi azzurri e profondi come un lago d’estate, vorrebbe parlargli ma ha il timore che quell’uomo non risponda lasciandolo deluso su quei gradini di cemento. Per questo aspetta, sperando che sia lui, se vuole, ad avvicinarsi al gruppo. Gustav Sebes, l’allenatore dell’Ungheria ha capito, soppesa la frase, pescando nel suo credo, rincorrendo il futuro, finché la visione non diventa quella giusta, stemperata dalla luce giallastra dei lampioni in ghisa che se ne stanno, simmetrici, ai margini della piazza. Il giallo oro che assomiglia tanto a quello della coppa Rimet.


Gustav Sebes, uomo di impeccabili credenziali politiche, formatosi come agitatore sindacale negli stabilimenti Renault in Francia, riteneva che lo scontro fra capitalismo e socialismo si combattesse anche sui campi di calcio e il suo contributo alla causa fu l’applicazione di una concezione di gioco in cui ai giocatori veniva chiesto di operare in tutti i ruoli per il bene dell’intera squadra.“Bisogna giocare per il piacere di farlo, per buttare la palla in rete, sempre e comunque, cercando il risultato con naturalezza, impegnandosi e correndo fino all’ultimo respiro senza pensarci più di tanto ma tutti insieme, collettivamente, in concerto".
Bernát, l’unico ragazzino in piedi, pantalone corto e capello mosso da una leggera brezza chiese:
“Vincerete la Coppa?”.



Mesi dopo. Le nuvole sul cielo di Berna.
Puskas è ancora claudicante alla vigilia della finale, Sebes gli chiede chi avrebbe preferito vedere schierato al suo posto. Puskas fa ricorso a uno di quei monosillabi perentori che aveva appreso nella sua brevissima carriera militare e rispose aspramente: “Io! Signor Sebes, per battere i tedeschi mi basta una gamba sola, io la gamba posso appoggiarla, quindi il problema non si pone”.
Veniva dalla Puszta, Puskas, dalla pianura magiara, l’uomo che segnò più di tutti in nazionale, Ferenc Puskas da Kispest, imbronciato, tracagnotto, indolente, le mani assiduamente in tasca, l’unguento nei capelli separati dal pettine, cresciuto sulla strada, come i ragazzi della via Pal, come i ragazzi intorno a Sebes quel giorno di primavera. Puskas aveva 17 anni nel 1945 quando i tedeschi si arroccarono nella cittadella di Buda. Pochi mesi dopo, a guerra conclusa, esordì in nazionale contro l’Austria finendo subito nel tabellino dei marcatori.

“Potevo sentire la palla come un violinista sente il suo strumento, giocavo con la leggerezza di un uccello in volo”, scrisse Puskas nella sua autobiografia a proposito dello stato di grazia che lo visitava.

Sei anni più tardi si sposa con Ersebeth, giocatrice di pallamano e vicina di casa. Grosics in porta poi Puskas, Hidegkuti, Czibor, Kocsis, Bozsik … Campioni Olimpici, poi il 25 novembre 1953 a Wembley umiliano gli inglesi con un sensazionale 6-3.

Il mondiale svizzero per il cinquantenario della FIFA per l’Ungheria è una sinfonia con una nota distorta che comprometterà la composizione. Il tecnico tedesco Sepp Herberger capisce l’antifona e schiera le riserve nella partita del girone. Si, le riserve e un killer: Werner Liebrich. I magiari vincono 8-3, Puskas viene randellato a dovere e deve star fuori contro il Brasile e contro l’Uruguay. Partite tirate, sofferte, gli ungheresi arrivano all’atto conclusivo malconci, stremati; Puskas vuole ad ogni costo giocare la finale dove l’Ungheria ritrova la Germania, la Germania quella vera, e chissà perché così fresca, in forma. L’Ungheria cede 3-2 dopo essere stata in vantaggio 2-0 dopo appena otto minuti, dopo che sembrava fatta, dopo che sembrava fosse un Gulasch perfetto, di quelli cucinati su un fuoco di legna all’aperto. Invece no. Al ventesimo i tedeschi hanno già pareggiato e verso lo scadere Helmut Rahn chiude la faccenda. A Puskas fu annullata una rete in dubbio fuorigioco. Per la squadra d’oro si trattava della prima sconfitta in sei anni. La più cocente.

Gustav Sebes osservò l’orologio dello stadio, in alto sulla tribuna, capì che il tempo era scaduto, che qualcuno aveva commesso un errore di valutazione o di presunzione, sperò che i dubbi e i sospetti venissero chiariti e non depurati. Ci pensò, poi abbassò la testa e pianse per i ragazzi di Buda. Avrebbe potuto riprovarci ma l’arrivo dei cingolati sovietici spezzò in due il novecento e l’Ungheria.

Simone Galeotti