Oggi, Italia-Germania

18 dicembre 1955


Monsù introduce per i suoi lettori il match amichevole con la Germania campione del mondo, riprendendo i temi legati alla precedente, criticatissima prestazione degli azzurri a Budapest. Sa che le cose andranno diversamente, nonostante la superiorità tecnica dei tedeschi, cui i nostri potranno rispondere con improvvisazione e fantasia ...


Roma, 17 dicembre. 
Il caso, non certamente la volontà degli uomini ha voluto che la squadra nazionale italiana incontrasse, in inizio di stagione ed a breve distanza l'uno dall'altro, i due avversari suoi che vanno ufficialmente per la maggiore: intendiamo dire, quelli che l'ultimo torneo mondiale disputato sotto l'egida della Federazione Internazionale, ha classificato come primo e come secondo nella scala dei valori assoluti. In Svizzera, nel campionato a cui parteciparono le squadre rappresentative di ogni Paese del globo terracqueo, le due compagini finaliste furono quelle della Germania e dell'Ungheria: vinse la prima. Importa solo fino ad un certo punto che il vincitore non abbia giustificato poi nel modo dovuto l'onore allora conferitogli dai risultati. 

Fino alla prossima competizione, le due squadre di cui parliamo occupano nel mondo i due posti di maggior preminenza. I rappresentanti dei nostri colori ne hanno affrontata una il 27 novembre a Budapest: affrontano domani, 18 dioembre, l'altra a Roma. E' stato il caso, ripetiamo, a così volere, ma esso ha coinciso colla teoria di coloro che, per ridare consistenza morale e tecnica all'undici nostro, desideravano incontri difficili ed avversari di grande levatura. 

Il secondo di questi incontri, avvenendo in casa nostra, è dominato da quanto successo nel primo. Dominato, diciamo, non dal risultato bruto — che era previsto e che in sè ha finito per essere tutt'altro che disastroso — ma piuttosto dal comportamento tenuto dai nostri nell'occasione. Un comportamento che ha suscitato, come reazione, un putiferio in Italia e fuori. La linea di condotta alla quale gli azzurri si sono attenuti, è stata quella dell'ostruzionismo, della demolizione, della difesa ermetica, della difesa esclusiva, a totale sacrificio dell'attacco. E, come conseguenza, chi si era recato sul campo per assistere ad uno spettacolo, ha trovato una squadra che non ha voluto e l'altra che non ha potuto giuocare. 

Non tutti i giudizi che sono stati espressi sulla partita di Budapest, sono stati riportati in Italia. In Ungheria fu scritto che si trattava di un attentato alla vita del giuoco, come tecnica e come spettacolo: in Austria si disse apertamente ch'era meglio che il pubblico disertasse i campi di giuoco, piuttosto che pagare per presenziare ad uno scempio simile. Parole dure non furono risparmiate nemmeno da noi. Ma ciò che maggiore impressione ha suscitato, è stato quanto avvenuto in seguito: dichiarazioni che, ammettendo come peccaminosa la tattica adottata a Budapest, possono essere definite come difensive, anch'esse mirando allo scarico di responsabilità specifiche. Dichiarazioni, e vie di fatto, e minacce di dimissioni. 

Risonanze morali a parte, è indubitabile che gli incaricati della formazione e della guida della squadra nostra dovrebbero battere una strada nuova. In parte, nella prima fase, quella della formazione, l'hanno già battuta. Per fare fronte alla situazione sono ricorsi ad un blocco di forze già esistente: quello fornito dalla squadra migliore del momento. Sono stati mobilitati sette elementi della Fiorentina: i due terzini, i tre mediani, il centro avanti, ed in qualità di riserva — blocco morale — anche il portiere. Variazioni ha pure subito il rimanente della compagine, per cui a Roma scenderanno in campo quattro uomini — Chiappella, Rosetta, Boniperti e Frignani — che non erano a Budapest, mentre cinque saranno le modifiche nei ruoli. 

La scelta degli uomini stessi vuol dire in questo caso principalmente la tattica che essi devono adottare sul campo. Questa tattica, come detto, non può essere quella di Budapest. Sarebbe cosa madornale se lo fosse. Per mille ed una ragione. V'è da ritenere che lo schieramento preso sarà improntato ad un qualche cosa di mezzo fra il giuoco aperto e quello puramente difensivo: o a mezzo di uno sbarramento a metà campo, lontano dall'area pericolosa cioè, o per via dell'arretramento, saltuario e temporaneo di qualche elemento dell'attacco. Si tenga o non si tenga per base il classico 'WM' all'inglese, la prudenza in un modo o nell'altro non verrà dimenticata: v'è da esserne certi. Il giuoco avrà comunque tutto da guadagnarci dall'abbandono della teoria di chi entra in lotta puramente coll'intenzione di ingarbugliare le carte all'avversario. 

L'argomento della tattica italiana è strettamente collegato a quello delle capacità e della mentalità dei loro avversari della giornata. Le capacità dei germanici sono più tecniche che tattiche, già lo si è detto recentemente parlando della loro formazione. Individualmente sono tutti di una classe che può essere definita come ottima. Posseggono tutti, quello che, sotto molti aspetti, manca a noi: il senso dell'ordine, della precisione, della disciplina. Ma di questo senso hanno anche il lato negativo: quello che i francesi chiamano, con frase tipica, "les défauts des bonnes qualités ". Sanno a memoria la lezione che devono recitare: ma, di lezioni, non ne conoscono che una. Portati fuori dalla strada che hanno studiata e ristudiata, non sono più i medesimi, perdono linea collettivamente e individualmente, non trovano modo nè mezzi per adattarsi alla nuova situazione. Non amano l'imprevisto, nè vi ricorrono. E non saranno mai essi che, nel vivo del combattimento, salteranno fuori a fare quello che non t'aspetti. Il loro dogma è quello del 'sistema' classico, e metodicamente, radicalmente, al medesimo essi si attengono. 

Per queste caratteristiche speciali degli ospiti — nonché per la migliorata formazione nostra —, noi crediamo più, nel caso specifico, ad un successo degli italiani che ad una vittoria dei tedeschi. Noi saremo in crisi, non avremo linea, saremo difettosi sotto questo o quell'altro aspetto del giuoco, ma geniali, spericolati, improvvisatori, sbarazzini, se ci lasciano fare, lo siamo sempre. Contro un avversario tutto ligio agli ordini, tutto impostazione ed esecuzione severa, il nostro disordine stesso può diventare, se non un'arma vera e propria, un espediente favorevole, un modo di creare situazioni che possono condurre al risultato voluto 

Non andiamo più in là di quanto sia il caso di fare, visto il garbuglio delle condizioni in cui versiamo, ma un successo degli azzurri farebbe un gran bene allo sport nostro. Non per l'euforia di aver battuto i campioni del mondo, che diversi altri prima di noi hanno già battuto. Semplicemente perchè ci darebbe animo e ci invoglierebbe a lavorar sul serio. Riteniamo che questo successo stia nei limiti delle possibilità nostre, e, circostanze aiutando, possa venire raggiunto. 

Immagini della partita a partire dalla Cineteca

L'ultimo pezzo del Gioânn

A commento della dodicesima di andata del campionato di Serie A (stagione 1992-93; qui il riassunto della giornata), Gianni Brera dettò quello che rimase il suo ultimo articolo. Uscì su "La Repubblica" l'8 dicembre 1992

Visto Milan che ti confondi?
di Gianni Brera

Da ricordarsi come scandalosa la XII di campionato. Il Milan perde un altro punto in casa (il terzo consecutivo) con una provinciale che mai ne aveva colto uno fuori dal Friuli; lungi dall'approfittarne, le inseguitrici di Sua Prepotenza perdono tutte: l'Inter ad Ancona, la Juventus a Firenze - per il terz'anno consecutivo -, la Sampdoria addirittura a Marassi. Fra le inseguitrici (ma è un'espressione di comodo, impropria assai), la sola a non perdere è il Torino, che pure lascia un punto al Foggia, suo ospite passivo. 
La situazione in classifica sfiora il grottesco. Il Milan vanta il 46° risultato positivo di fila e 19 punti, nonostante debba recuperare il prossimo 23 dicembre la partita di Marassi con la Sampdoria. Al 2° posto, con 15 punti, viene l'ineffabile Inter, la cui brutta figura, ad Ancona, è stata sesquipedale. Il terreno del nuovo stadio al Conero era letteralmente allagato ma di fondo compatto. Il flebile centrocampo dell'Inter vi ha fatto lamentevole naufragio. Il solo capace di conquistarvi una misera palla in anticipo o in tackle, l'esile Bianchi, è dovuto uscire per lasciar posto ad Abate, mandato in campo a sostituire l'espulso Zenga. L'Ancona ha imperversato agli ordini di un sensazionale Lajos Détari, autore dei primi due gol e pratico inventore del terzo. Bagnoli mortificato al punto da sentir necessario un intervento dialettico per difendere i suoi, eccessivamente maltrattati dal punteggio. Davvero patetico Bagnoli, ma l'Inter è stata a dir poco penosa. Per gusto del paradosso, direi che i suoi benamanti debbano farsi coraggio: è tanto a terra che non può non migliorare. 
L'alma Juventus divide il terzo posto con Fiorentina, Torino e Cagliari. E' scesa a Firenze priva di ben 5 titolari, 2 dei quali autentici fuori classe. Riferiscono le cronache sia stata sconfitta due volte: in campo e sugli spalti, dove i suoi irriconoscibili tifosi hanno trasmodato in nefandezze imperdonabili. Sul campo l'è andata subito male per una prodigiosa smorzata di Effenberg che ha trovato libero Laudrup in area: il danesino ha sferrato il sinistro e Peruzzi ha colpevolmente mancato la deviazione possibile (dal momento che era arrivato col palmo sulla palla). Poi l'arbitro ha espulso Kohler per doppia ammonizione (la seconda del tutto cervellotica). Ridotta a 10, la diva Juve è apparsa squadra di quasi tutti gregari poveri di classe. La splendida e furente Fiorentina avrebbe potuto segnare il doppio. Invece ha segnato il 2° gol per un altro errore della difesa (questa volta del diciottenne esordiente Sartor). Esaurendo il suo sforzo nel solo attacco, la Fiorentina ha potuto brillare in grazia d'una schiacciante superiorità a centrocampo. La Juve ha effettuato due conclusioni scipite, esaurendo Vialli in recuperi disperati, unicamente fatti per rimanere in pace con la coscienza. In centrocampo è apparso grandioso il tedesco Effenberg, capace di conquistare palla, impostare e concludere. La Fiorentina ha il merito di aver secondato con i fatti l'acre inimistà del suo pubblico per la Juve (atteggiamento un tantino eccessivo e presuntuoso). Giustamente soddisfatto l'olimpico Cecchi Gori del fatto che i peggio educati sugli spalti non siano stati i suoi fiorentini. 
Induco da certe critiche che Mondonico del Torino abbia espresso il proprio disagio dirigendo a capocchia una squadra già di per sé mal composta. Moggi ha avuto parole amare sui tifosi, inguaribilmente avversi al presidente Borsano. Così il Foggia ha conquistato il suo primo punto esterno inducendo qualche critico a proclamare la propria ammirazione per Zeman, taumaturgo della zona e del podismo. 
Grato stupore desta il terzo posto del Cagliari, fortunato eversore d'un Napoli pieno di rogne sinistre. Mazzone ha incantato per l'autoironia con cui ha dato conto della propria incredulità felice. Ferlaino ha ordinato ai suoi di non parlare ed ha fatto bene. Qualche tifoso napoletano ha già dato prova di insofferenza: dopo Cagliari potrebbe chieder ragione delle subite espulsioni a Fonseca e Careca: non per colpa d'altri - e tanto meno di Bianchi - ha avuto via libera la squadra di Mazzone. 
Noi stiamo a parlare di tecnica, di tattica, di moduli, ma sentiamo fondate anche le parole di un dirigente sensato come Arrigo Gattai. E' da temere, onestamente, che non tutte le vicende di questo campionato miliardario (?) si possano raccontare ai candidi nipotini. Rispettoso dei suoi impegni, nazionali e no, il Gran Bisiaco Fabio Capello pratica frequenti "turn over" nella squadra considerata (per ora) battibile soltanto da se medesima. Mi è testimone il soave Fidel Confalonieri che lo vado affermando dall'avvio: anche la panchina troppo lunga presenta i suoi bravi inconvenienti: la gente si spreme quando non dovrebbe: e perviene esausta alla conquista del posto. Non basta: giocando sempre con compagni nuovi, non è che uno si trovi sempre al meglio. Così può deludere a dispetto della classe, oppure aspettarsi che siano gli altri a correre anche per lui. L'Udinese ha fatto a S. Siro come Torino e Inter: non si è illusa di giocare alla pari e si è salvata. E' da temere che altri la imiteranno: e le fatiche si assommeranno nei garretti dei campioni. In bocca al lupo. 
Sulla magnifica ultima Samp avevo fatto una riserva: l'eccessivo costo del modulo fondato su una sola punta e sul continuo correre avanti-indrée dei centrocampisti. I ripetuti erroracci di Lombardo sottomisura mi hanno dato plausibile conferma che i miei timori erano fondati. Alle difficoltà del modulo fin troppo dispendioso si è aggiunta la bravura di Ganz nel goleare e di Perrone nell'inventare gioco: per questo è gloriosamente passata l' Atalanta a Marassi. 
Non mi resta spazio per osannare degnamente alle romane, entrambe vincenti, e al Genoa reinventato da Eulenspiegel Maifredi. Visto Gaza concludere in gol uno slalom maradoniano che ritenevo possibile solo contro squadre britanniche; sentito Nevio Scala dirsi correttamente colpevole d'una conduzione che doveva portare il Parma alla sconfitta (dopo tre pali tre della Roma). 
Zenga ha riconosciuto che la sua espulsione era giusta perché effettivamente era giunto in ritardo sulla palla; non so se Zinetti abbia riconosciuto, masochistico fino all'idiozia, il suo comportamento con l'arbitro che l'ha espulso. Ha avuto mille ragioni Boskov di denunciarne apertamente la mancanza di buon senso. 

Avrei molto altro da dire su questo campionato di folli. Meglio chiudere e ingraziarsi Eupalla con sacrifici degni della sua natura divina. A terra siamo noi con le nostre vergogne.

Fonte

Le risate di sant'Ambrogio

Probabilmente il suo ardore polemico troverebbe oggi nel football motivo di accendersi. Il culto più 'pagano' della modernità è infatti connotato anche da corruzione e violenza; gli stessi temi che convinsero Aurelius Ambrosius a premere sull'imperatore Teodosio per ottenere la sospensione sine die dei Giochi Olimpici e la fine di una millenaria tradizione.

Arcivescovo di Milano per quasi vent'anni, Ambrogio non amava lo sport. Essendo tudesc, è possibile non avesse particolare simpatia per i club della metropoli di cui fu pastore. E' pur vero tuttavia che, quando all'Inter fu dato il suo nome (accadde come si sa nel 1928, e questa parentesi si protrasse fino al 1945), i baùscia conquistarono significativi trofei, vantando peraltro tra le proprie fila il più grande giocatore mai nato a Milano, e uno dei più grandi e in assoluto di sempre. In quegli anni i nerazzurri vinsero due scudetti e sfiorarono un paio di volte la conquista della Coppa dell'Europa Centrale; il Milan, invece, vivacchiava mediocremente, decaduta compagine ormai di seconda fila.

Ma com'è andata al Milan, e come all'Inter, quando il 7 dicembre - data in cui si ricorda e onora l'ordinazione episcopale di Ambrogio - è caduto di domenica o in una giornata consacrata anche al football? Non bene. Non meglio all'una che all'altra. 

Fu chiaro sin dalla prima volta. E cioè il 7 dicembre 1913. Era in programma l'ottava giornata del girone lombardo del campionato di prima categoria; l'Inter ospitava il Novara sul campo di Ripa Ticinese, e il Milan era impegnato in un 'derby' con l'Unione Sportiva Milanese (la società che, qualche anno più tardi, verrà annessa all'Inter nell'atto di fondazione dell'Ambrosiana). I nerazzurri furono duramente sconfitti (tre a uno), i rossoneri strapparono un pareggio solo a dieci minuti dalla fine, grazie alla stoccata di Pietro Lana, il "Fantaccino".

Si tornò a giocare in campionato il giorno del santo nel 1919: l'affollata sezione lombarda destinò le squadre a due giorni diversi, e il calendario favorì l'unica, storica vittoria simultanea dei due club a sant'Ambrogio. L'Inter vinse a Cremona, e il Milan ebbe facilmente ragione del Pavia sul campo di via Ravizza. Partite davvero facili.

La stagione 1924-25 fu assai modesta per baùscia e casciavit, inseriti in due gironi diversi della Lega Nord - il campionato era detto di 'prima divisione' -; il 7 dicembre vide i rossoneri onorevolmente sconfitti a Vercelli (tre a due), mentre l'Inter ospitò e inflisse la prima sconfitta del torneo al fortissimo Modena, sfruttando una giornata di grande vena di Cevenini III.

E si arriva poi e finalmente ai tempi del 'girone unico'. Stagione 1930-31. La città è calcisticamente depressa, Milan e Ambrosiana navigano nei bassifondi della classifica. I nerazzurri - campioni d'Italia in carica - ospitano il Napoli e omaggiano come merita il divo Sallustro. Apre il Peppino, ma i partenopei pareggiano subito; zuffe e botte nel secondo tempo, espulsioni, poi l'Ambrosiana trova lo spunto decisivo. Dal canto suo, il Milan gioca bene sul campo del Genova 1893 (il Genoa, va da sé) ma soccombe per la sterilità dei suoi attaccanti e per l'atteggiamento in generale difensivo, dovuto alla paura che incuteva la presenza tra le fila avversarie del Filtrador, Guillermo Stabile.

Il paese è in guerra, ma il 7 dicembre 1941 si gioca ugualmente a pallone. Le milanesi sono impegnate in una doppia sfida con le squadre toscane: l'Ambrosiana è fermata all'Arena dal Livorno; il Milano (il Milan, va da sé) cede a Firenze in zona Cesarini, per via di un gol (il gol del quattro a tre ...) messo a segno da Ferruccio Valcareggi ...

Sfida con le torinesi, invece, il giorno di sant'Ambrogio del 1947. Roboante cinquina dei rossoneri alla Juve, mai così umiliata dal Milan in mezzo secolo di football; peccato le cronache dicano poco sulla partita: "squadre e gioco hanno fluttuato dall'inizio alla fine in un'ombra di nebbia grigia e bagnata che trasformava gli atleti in evanescenti fantasmi" (Bruno Roghi). Dal canto suo, l'Inter aveva poche speranze di cavarsela al Filadelfia, e venne infatti spazzata via da un simmetrico e indiscutibile cinque a zero firmato dagli assi del Grande Torino.

Cinque anni dopo il Milan consegue un'altra sonante vittoria sulla Juve, ma questa volta a Torino, trascinato da Gren, Annovazzi e dal 'Pompiere'. L'Inter (che vincerà il campionato) è invece inchiodata tra le mura interne dall'Udinese. Sei stagioni più tardi il titolo sarà appannaggio del Milan, ma il 7 dicembre 1958 José Altafini scongiura una sconfitta a Ferrara; l'Inter gioca contro la Juve a San Siro, sta vincendo due a zero ma cala la nebbia; partita sospesa; viene recuperata il 18, e la Juve passa (tre a due).

Disastroso il pomeriggio di sant'Ambrogio nel 1969: rispettivamente sconfitti con identico punteggio (due a zero) a Firenze e dalla Juve a San Siro, nerazzurri e rossoneri sono già lontani dal Cagliari e costretti ad abbandonare la corsa di vertice. Grande delusione soprattutto per il Milan, campione d'Europa in carica.

Unico derby di campionato giocato in questo giorno, quello del 1975, tra due XI ben distanti dall'ancora recente splendore: comica vittoria rossonera, propiziata da un gol dello sciagurato Egidio. E' arrivata poi l'epoca della pay-tv e delle partite spalmate su più giorni. Solo due volte le milanesi sono scese in campo insieme il 7 dicembre. E' accaduto nel 2002 (doppio confronto con le romane, vittoria del Milan e pareggio dell'Inter) e il giorno di sant'Ambrogio del 2014. 
E dunque: il Milan ha perso a Genova, e l'Inter al Meazza. L'arcivescovo si è fatto quattro risate, anche perché i fideles ambrosiani, di questo passo, si divertiranno più in una visita guidata alla basilica che non sugli spalti dello stadio ubicato in una zona il cui nome è quello del patrono di un'antica città rivale.

Mans 
(8 dicembre 2014)

Soltanto Claudio Sala regge a centrocampo

L'Italia di Bearzot ha iniziato il ciclo di amichevoli, in preparazione al torneo di qualificazione per i mondiali d'Argentina. Lentamente, con sofferenza, la squadra si assesta, ma gioca ancora un calcio tradizionale, "con patate", ben diverso da quello che si ammirerà nell'estate del 1978. Giovanni Arpino racconta la serata vittoriosa ma di poca gloria vissuta dagli azzurri a Copenaghen ...

Copenaghen, 22 settembre [1976]. 
Fossi danese, mi vestirei a lutto, seppure per motivi «amichevoli». La squadra nordica, composta da giovanottoni volonterosi ma privi di classe, ha perduto infatti una partita che onestamente meritava almeno di pareggiare. Nel freddo vento che spirava da Est, sull'erba smeraldina di Copenaghen, gli azzurri hanno mietuto una vittoria che dobbiamo accogliere senza rizzare il naso: a un gol donato non si guarda in bocca, per carità di patria. 
Le cifre del primo tempo parlano fin troppo chiaro: contro le due palle-gol create da Sala (prima Pulici che segna, poi Graziani che ne cava solo un tiretto-cross inutile) i danesi conteggiano due pali, tre palloni da rete sventati da un grandissimo Zoff, un'infinità di arrembaggi a ridosso dell'area azzurra. C'era chi mormorava, nel vedere questo forsennato e sterile assalto danese: è tornato a splendere l'antico stellone nazionale. Beh, non esageriamo, questa squadra azzurra deve ancora mangiarne di pagnotte prima di dirsi degna anche delle protezioni celesti. 
Il nostro centrocampo o si è lasciato risucchiare in avanti (e veniva regolarmente infilato dal contropiede degli avversari) o pasticciava a ridosso di una difesa qua e là fragile e talora persino presuntuosa: cosa significano, infatti, i tocchettii in pochi metri quando gli attaccanti bloccano in spazi ridottissimi? Scirea ha avuto momenti di grande autorità e tempismo, ma Bellugi era nelle peste per merito di un avversario molto più agile. Rocca, troppe volte «fa» il Rocca, cioè porta palla alla cieca, con furia offensiva che quasi sempre si spegne in un ultimo dribbling o in un ultimo, inutile cross (anche se nel finale ne ha azzeccati due più che dignitosi). Ma, tutto sommato: che nostalgia dei bei terzini d'un tempo, ordinati, poderosi, autentiche trincee: dobbiamo pur dirlo. 
C'è Antognoni, poi. Il «settebellezze» vorrebbe tanto, e poco ottiene. I mezzi li possiede, la testa è invece quella che è: non ragiona un minuto, né per trovarsi una posizione e fungere da riferimento (per Capello, per un Benetti che ci pare pensionabile, almeno come azzurro) né per suggerire le «punte». Qui, in funzione di spola, e malgrado operasse secondo schemi non abituali, Claudio Sala ha fatto assai meglio: creando non solo le rare occasioni del primo tempo, ma dimostrandosi più agguerrito e pronto. Più riuscirà Sala (lo ripetiamo da secoli) a scarnire e rendere essenziale il suo gioco, più potrà godere di una lunghissima anzianità da campione, in maglia di club e della Nazionale. 
Nella ripresa i danesi denunciano un'impensabile caduta di lucidità manovriera. Arrancano in avanti ma non riescono più a raggiungere Zoff con un solo tiro decente fino al 90'. In compenso gli azzurri tentano azioni anche complicate di alleggerimento, creano un paio di occasioni utili (sempre grazie a Sala). Però la lentezza e la cecità in dribbling di Graziani — non riesce a liberarsi mai del suo marcatore —, la solita ritrosia di Pulici e l'elaborazione non certo geniale dei centrocampisti contribuiscono al mancato dominio della partita: nata con la fortuna, poteva essere legittimata con un minimo di talento e con un briciolo di determinatezza. E invece no. La gara si trascina, lasciando sospesi decine di interrogativi: non abbiamo infatti dovuto sostenere una guerra punica, per bacco, anche se un'ombra di squadra la s'intravvede, con un po' di buona volontà. Però è una squadra che abbisogna di notevoli e urgenti puntelli: la linea neutrale deve assolutamente far perno su uomini che sappiano dirigere manovre meno abborracciate, meno casuali. 
E non dimentichiamo un motivo critico importante: le fasi più limpide del nostro gioco sono scaturite sempre dal vecchio schema del contropiede: forse condotto con più largo raggio, con minore perentorietà, ma è ancora da questo «modello pallonaro» che è possibile partire per un'opera di restauro azzurro. Il resto rischia di diventare velleitarismo, sogni di calcio ma con patate. 
Sappiamo che alcune sostituzioni (con Zaccarelli, con Patrizio Sala) Bearzot non poteva permettersele: nella stessa mattinata, infatti, Gigi Radice aveva «tirato il collo» ai suoi uomini per mantenerli in condizione, facedoli lavorare i vista degli impegni di Coppa. E Bearzot è costretto a rispettare li clima in cui vivono le diverse Società italiane. Sappiamo anche che è restìo a togliere la fiducia ai suoi pupilli in campo, anche se taluno gli fa mangiare non solo le unghie ma persino il cinturino dell'orologio. E adesso trasferiamoci a Roma per l'incontro con la Jugoslavia. Augurandoci, naturalmente, di vedere qualche cosa di più.

"La Stampa", 23 settembre 1976

La sfida dell'Olimpico tra Inter e Juve


Le cronache di Monsù
30 agosto 1965

Da Roma, la mattina dopo la partita, Monsù Poss commenta Inter-Juve - finale di Coppa Italia della stagione 1964-65, ma giocata per l'affollamento del calendario all'inizio della successiva -, non senza considerazioni d'apertura volte a confrontare l'importanza della manifestazione nostrana con quella di altri paesi. Anche in questo commento Pozzo non omette di infilare qua e là qualche allusione all'antipatia che nutre per Herrera e il gioco dell'Internazionale.

Roma, lunedi mattina [30 agosto 1965]. 
Questa volta la corona del pubblico era più che discreta: più di 70 mila persone presenti, ma la finale della Coppa non si avvicina mai da noi, né come presentazione né come importanza, alla luminosità dei consimili avvenimenti dell'Inghilterra, della Francia, della Germania e di altri paesi. Abbiamo assistito ad una dozzina di finali della Coppa inglese e ad un paio della Coppa di Francia. E' tutt'altra cosa. Una manifestazione grandiosa, lassù, con musiche, cori, una autentica festa di popolo, presenti ogni qualvolta le più alte personalità dello Stato. 

Qui da noi la Coppa ha sempre trovato il mercato occupato dal campionato. Non c'è più posto per altre competizioni. La «campionite» ha contagiato un po' tutti quanti. Ce ne vorrà del tempo perché le cose cambino. Qui le società stesse non giungono ad attribuire importanza alle gare di Coppa che al momento in cui si arriva allo stadio delle semifinali, perché allora già si sente l'odore degli incassi ai quali dà luogo il torneo internazionale dei vincitori delle consimili manifestazioni dei diversi paesi.

In questa occasione c'è stata, comunque, più animazione delle altre volte. Essenzialmente c'è stato più nervosismo. Sia l'Internazionale come la Juventus avevano mobilitato al massimo i componenti dei loro gruppi di sostenitori sparsi nelle diverse città d'Italia. Gli incitamenti di questi interessati erano quindi quasi ugualmente divisi. A far pendere la bilancia a favore dei torinesi erano le opinioni altisonanti degli sportivi della capitale, che a loro dire non avevano dimenticato alcuni screzi datanti dalla stagione scorsa. Nel complesso si può affermare che i favori del pubblico erano per i bianconeri.

L'incontro è finito con la vittoria della Juventus, per una rete a zero segnata al 15° minuto del primo tempo dal calciatore romano dei bianconeri, Menichelli. 

Il gioco è stato nel suo complesso equilibrato ma non si può dire affatto che la vittoria dei juventini non sia stata meritata. 

Il primo tempo è apparso il migliore, specialmente per parte dei torinesi. L'Internazionale ha tentato di distendersi appieno nella ripresa, in modo particolare nel corso del quarto d'ora finale. Durante quest'ultimo periodo, il mediano nerazzurro Bedin ha segnato con un colpo di testa il punto che avrebbe dovuto essere quello del pareggio, ma l'arbitro ha annullato la rete senza esitazione alcuna. Era stata segnata in netta posizione di fuorigioco. Prova ne sia che il guardalinee già aveva sbandierato la posizione irregolare del nerazzurro prima ancora che egli ricevesse la palla. 

A guastare poi il periodo finale dell'incontro intervenne, proprio alla mezz'ora del secondo tempo, l'espulsione di un giocatore per ognuna delle due compagini: Burgnich e Del Sol. I due si erano scambiati apertamente, senza sotterfugi, calci e pugni. Delle due assenze, in quel quarto d'ora che decise di ogni cosa, quella di Del Sol si fece immediatamente sentire per la mobilità che lo portava ad essere un po' dappertutto. 

La partita non è stata gran che sotto il punto di vista della tecnica. Si è visto chiaramente che entrambe le squadre hanno ancora da lavorare parecchio per portarsi al giusto grado di forma e di rendimento. Ma la Juventus è apparsa delle due unità la più a posto. L'Internazionale non ha prodotto nulla di più di una esibizione mediocre. I nerazzurri avevano apertamente dichiarato che avevano giocato finora gli incontri amichevoli di preparazione senza impegno o grande convinzione, ma che trattandosi questa volta di una gara di grande e solenne importanza intendevano finalmente dare la prova del loro vero ed autentico valore. 

Se questa era l'intenzione, bisogna dire che la promessa non è stata mantenuta. Si è avuto più o meno la conferma del disastro subito dai milanesi a Barcellona. La prima linea non ha prodotto una sola volta un attacco del tipo di quelli del passato. Sarti è stato il giocatore sul capo del quale viene a gravare decisamente la colpa della sconfitta. Dall'inizio della stagione egli difendendo la sua porta ha commesso errori su errori. L'intera compagine nerazzurra ha fornito del resto la prova di essere ancora ben lontana da una condizione fisica e tecnica soddisfacente. 

Sugli scudi per la Juventus la prova fornita da Salvadore. Ma tutti gli uomini hanno coperto i novanta minuti in modo che, come impegno, non si può se non lodarli incondizionatamente. L'intera difesa però si è portata molto bene e particolarmente Bercellino, il quale nel quarto d'ora finale ha salvato con una rovesciata provvidenziale la propria rete dal pareggio. 

La Juventus ha riportato per la quinta volta la Coppa d'Italia, un primato questo che è assoluto per tutta l'Italia.

[Vedi le immagini del match in Cineteca]

Memorie di Adriano

Di lui ho vivido il ricordo del suo esordio nerazzurro. Era una sera afosa dell'agosto 2001, davanti a un classico eurovisivo di sempre: Real-Inter. Squadre in rodaggio, senza particolari sconquassi. A tre minuti dalla fine il cambio: esce un ronzinante di cui ho perso memoria ed entra questo ragazzo di cui nessuno sapeva nulla tra cronisti e giornalisti (poi venimmo a sapere che era casualmente arrivato, campione mondiale a 17 anni, come spicciolo per il rientro al Flamengo del non rimpianto sambista Vampeta). In quattro minuti giocò tre palloni in crescendo, con una naturale autorevolezza. Il primo fu un dribbling sulla destra in cui saltò l'uomo e mise al centro un cross che la cabeza incredula di Vieri o chi per lui mise fuori di un soffio. Il secondo al successivo rovesciamento di fronte, questa volta a sinistra, si bevve tre uomini convergendo verso la lunetta dei 16 metri dove fu steso. A quel punto fu inquadrato il Gaucho Triste che poi ci avrebbe pilotato al 5 Maggio, che si sbracciava verso il campo per fare tirare la punizione al ragazzone ("Tira lui! Fate tirare lui!"). Cronisti RAI sogghignanti: "mo' tira sto' Adriano, appena entrato, mai visto, la solita Inter". 

Rincorsa breve, sinistro in partenza a 178 all'ora (misurati), ancora 170 probabilmente quando si insaccò nell'angolino a sinistra di Ikers [vedi]. Bernabeu espugnato, il fantasma di Santillana finalmente scacciato. Fu l'epifania di un campione. Per giorni consumammo pagine di Rosea per sapere tutto di lui, in un delirio ferragostano.

Un mese dopo, alla prima di campionato [vedi], a S. Siro fece un gol acrobatico di sinistro al Venezia e cercò di strapparsi di dosso come Hulk la maglietta dai sacri colori. Si cominciò a dire che era ancora giovane e discontinuo e che gli avrebbe fatto bene svernare in provincia: così gli furono preferiti Ventola e Kallon e lui andò a sciacquarsi i panni in Arno, dove lo vidi dal vivo il successivo sabato di Pasqua dalla Maratona giocare un'oretta senza nerbo, vedendosela con Materazzi e Cordoba, in uno stadio surreale, vuoto nella Fiesole per l'ultimo sciopero del tifo viola prima del tracollo di VCG.

Poi conosciamo la farsa in cui fu coinvolto: venduto a metà al Parma, insieme con 11 miliardi di vecchie lire, per un Cannavaro intero; una stagione in cui cominciò a dimostrare tutto il suo valore; una comparsata in gessato grigio sociale Parmalat a Controcampo una sera in cui interrogato se sarebbe tornato ad Appiano a fine stagione disse sinceramente che gli sarebbe piaciuto finire al Milan; capocannoniere del campionato in autunno, ispirato dai lanci dell'irritante Morfeo, prima dell'infortunio; il tracollo di Tanzi; la fessaggine di Moratti e i suoi 4 milioni di 'valorizzazione' "per il lavoro svolto da Prandelli"; 22 milioni per ricomprarsi la seconda volta un presunto campione. Anche questa è stata l'era Moratti. 

Il resto è storia: triste. Perché il ragazzo aveva i numeri ma non la testa per cambiare vita. Ha continuato a fare quella di quando era ragazzo. Un peccato: per sé e per noi.
(2015)
Azor

Il gol fantasma

Uno dei gol più famosi della storia del calcio: la contestatissima rete del 3:2 di Geoff Hurst al 101° minuto della finale mondiale tra Inghilterra e Germania disputatasi il 30 luglio 1966 al Wembley Stadium di Londra.

Secondo i tedeschi la palla non varcò la linea di porta, secondo gli inglesi e il guardalinee sovietico il gol era regolare. Uno studio del 1995 dimostrò che avevano ragione i tedeschi: troppo tardi.

Ci fosse stata la goal-line technology non avremmo narrato, di generazione in generazione, un'epopea: una ricchezza che dal 2014 è preclusa definitivamente alle generazioni future, più "certe" nel loro video gioco, più impoverite nell'immaginario.
















Personaggi e interpreti:
arbitro Gottfried Dienst (svizzero); guardalinee Tofik Bachramov (sovietico); Inghilterra (maglia rossa): 7 Alan Ball, 9 Bobby Charlton, 10 Geoff Hurst, 21 Roger Hunt; Germania (maglia bianca): 1 Hans Tilkowski, 2 Horst-Dieter Hoettges, 3 Karl-Heinz Schnellinger, 5 Willi Schulz, 6 Wolfgang Weber.

Vedi anche:
La partita (Eupallog Cineteca)
L'ineffabile storia di Tofik Bachram-og’ly Bachramov (Eupallog Storie)
Adesso i tedeschi pareggiano (Eupallog Storie)
La restaurazione (Eupallog Calendario)

Addio alla Juve

La mattina del 14 luglio 1965 gli sportivi italiani appresero quanto era già nell'aria da un po'. Per 100 milioni di lire, Omar Sivori lasciava la Juve e si accasava a Napoli. Il Cabezon non ne poteva più dei metodi di Heriberto Herrera; salutando i suoi vecchi tifosi, scrisse per "La Stampa" un pezzo denso e polemico.

L'altra sera, mentre aspettavo la mezzanotte per sapere quale fosse la mia nuova destinazione di calciatore, mi domandavo quale sede avrei preferito: Napoli o Torino? La città dai facili entusiasmi o quella dal pubblico freddo, ma anche capace di sincere amicizie? Una vita sportiva che spero possa portarmi a tanti goals accanto all'amico Altafini o una più amara che mi permetterebbe la rivincita su Heriberto Herrera e su certi critici che mi vogliono finito anzitempo?
La sorte ha detto Napoli. Ora non vi sono più dubbi. Anche nello stadio San Paolo potrò dimostrare che un giocatore non chiude la sua carriera a trent'anni non ancora compiuti; so che i tifosi partenopei mi trascineranno con il loro entusiasmo, così caldo, spontaneo e pittoresco. 
Ringrazio dunque il dottor Fiore, presidente della mia nuova società, gli altri dirigenti azzurri e l'allenatore Pesaola per la fiducia che mi hanno accordato ed assicuro che farò di tutto per meritarmela. 
Stamane, però, mentre mi hanno informato che la maglia bianconera non è più la mia, ho guardato a lungo, commosso, la grande fotografia appesa nello studio di assicuratore dove lavoro e mi sono sentito di colpo svuotato, come dopo un «derby». Otto anni di attività juventina ... Li ho rivisti tutti in un susseguirsi confuso di episodi belli e brutti, esaltanti o malinconici: sono stati davvero per me un lungo, meraviglioso «derby» in cui ho vinto, ho perso, ho segnato goals ed ho incassato botte, ma mi sono sempre sentito orgoglioso di far parte di un club che era allora ineguagliabile nello stile. 
Sarebbe facile, al momento del saluto finale, affermare diplomaticamente che tutto è passato, che non serbo rancori ma soltanto ricordi belli. Chi mi conosce bene sa che sarebbe una grossa bugia. Il motivo dell'anticipato divorzio tra me e la Juventus, a parer mio, sta nel giudizio tecnico e nel comportamento del «trainer», Heriberto Herrera. 
Sul primo non posso esprimere opinioni. Ognuno la pensa come vuole; aggiungo semplicemente che farò il possibile per dimostrare ad Heriberto Herrera che si è sbagliato sul mio valore di giocatore. In quanto ai rapporti psicologici non credo che il «trainer» abbia servito la miglior causa nei confronti miei e della società. 
In otto anni di carriera juventina, il destino ha voluto che mi trovassi quasi sempre al centro delle polemiche. Anche ora che è giunto il momento di partire non posso sottrarmi a questa regola. A Napoli giocherò nel 'mio' ruolo, con i compiti che mi sono sempre stati affidati prima che sulla mia strada si presentasse Herrera, compiti cioè di mezz'ala sinistra con la funzione di dirigere il gioco per una squadra offensiva e di inserirmi in questo modulo. Herrera, invece, non ha mai creduto che io potessi fare un simile gioco. 
Malgrado le mie continue insistenze di darmi la possibilità di fare una prova, una sola, magari in una gara amichevole, il «trainer» mi ha impiegato tutto l'anno quasi come centravanti, preferendo a me Da Costa o Mazzia per gli altri compiti. Mi disse addirittura che nella «sua» Juventus io non avrei mai giocato mezz'ala effettiva. Ognuno ha le proprie idee, ripeto, ma il signor Heriberto non si è dimostrato certo un buon psicologo. 
Non dico questo per cattiveria. Voglio bene alla Juventus e vorrei sinceramente vederla nuovamente trionfare come cinque anni fa, ma credo sarà difficile. Come ho sostenuto l'estate scorsa, ripeto anche ora che in fatto di acquisti e cessioni si sta ricadendo negli stessi errori. 
Il capitolo comunque sta alle mie spalle. E' un capitolo ohe non mi riguarda più. Giocherò nel Napoli ed è come se iniziasse una nuova carriera. Nella città del Vesuvio avrò a fianco José Altafini con il quale ho giocato cinque partite in Nazionale: due volte contro Israele, poi contro il Belgio, la Francia e infine contro la Germania ai mondiali, in Cile. E' un bravo ragazzo, un fortissimo centroavanti. Con lui mi sembrerà di tornare insieme a John Charles, il cannoniere della Juventus dei miei sogni. 
Ricordo che avevo 21 anni quando giunsi in Italia. Era il 12 giugno 1957. Atterrai alla Malpensa insieme al dirigente juventino residente a Buenos Aires, Carletto Levi, che purtroppo è recentemente scomparso. Egli aveva trattato il mio trasferimento per conto della Juventus. Ad attendermi c'era il comm. Cerruti che mi condusse a Novara, dove mi incontrai, per la prima volta, con il dottor Umberto Agnelli, allora presidente del club bianconero. Insieme raggiungemmo Torino. Il dottor Umberto dimostrò subito una simpatia di cui gli sono profondamente grato. Mi disse: «Sono due anni che ti aspettiamo». Levi tradusse, poiché non capivo l'italiano. Risposi in spagnolo che erano cinque anni che volevo venire alla Juventus. Ridemmo. Ero davvero felice. 
Non faticai molto ad imparare la lingua dei miei vecchi. Mi furono sufficienti quìndici giorni per arrivare a leggere e capire i giornali e due mesi per poter esprimermi correntemente in italiano. 
Incominciò l'attività sportiva e con essa i primi successi: la tournée trionfale in Svezia, il campionato. Iniziammo discretamente. Io giocai benino quelle partite d'inizio, ma mi mancava la tranquillità spirituale. Avevo lasciato a Buenos Aires Maria Elena, una ragazza di 18 anni alla quale volevo bene. A dicembre, grazie alla comprensione dei dirigenti, ottenni di partire per l'Argentina per sposarmi. Allora non avevo ancora paura di volare in aereo ed in pochi giorni ero di nuovo a Torino. La paura del volo mi venne in seguito. Finalmente ero tranquillo e, insieme a Charles, Boniperti e tutti gli altri bianconeri, incominciai a 'girare'. Vincemmo il campionato. Charles fu capocannoniere con 28 reti. Io ne realizzai 23. 
Charles è stato grandissimo, come giocatore e come spirito sportivo. Un compagno simile, sia per quanto riguarda il lato tecnico (era una spalla ideale) sia affettivo (era ed è un grande amico), non l'ho più ritrovato. 
Il resto è forse ancora presente nella memoria degli sportivi torinesi. I miei ricordi juventini più belli sono rappresentati dai tre scudetti, dalle due Coppe Italia, dal primato nella classifica dei marcatori, dal riconoscimento quale miglior calciatore europeo attribuitomi nel '61-'62 dal referendum della rivista Foot Ball France ed infine dalla maglia azzurra della Nazionale italiana. I ricordi brutti è meglio lasciarli portar via dal tempo. A che servirebbe rievocarli! 
Alla fine ciò che più mi amareggia è il dover lasciare i tifosi juventini che mi hanno voluto bene ed ai quali sono affezionato. Ora che militerò in un'altra squadra, spero che essi non mi serbino rancore ma continuino ad avere per me quell'affetto che reciprocamente ci siamo dimostrati in questi lunghi otto anni.

Lo spareggio dei poveri

Il campionato 1963-64 fu tiratissimo non solo al vertice, ma anche in coda. All'ultima giornata, con Spal e Bari già condannati, rimaneva una piazza da scansare, e con essa la retrocessione in serie B. La Sampdoria (27 punti) naufragò a Torino, mentre il Modena (26 punti), non andò oltre uno zero a zero interno contro il Messina. Così blucerchiati e canarini finirono appaiati. A quei tempi le regole erano meno sofisticate di oggi,  niente differenza gol o 'classifica avulse', ma uno spareggio. Esattamente come quello dei ricchi, tra Bologna e Inter, che valeva il titolo. Una sfida secca, senza se e senza ma, che si giocò in quel fatidico pomeriggio del 7 giugno 1964 a San Siro.

Per forza di cose lo spareggio-scudetto oscurò, sulla stampa e nell'opinione pubblica, lo spareggio-salvezza. Tuttavia anche in quello che venne definito “lo spareggio dei poveri” la posta in palio era alta e le due squadre prepararono la partita con attenzione: ritiro in altitudine, un po' per ritemprare le forze al termine di una lunga stagione e un po' per sfuggire al caldo africano di quell'inizio estate. I blucerchiati a San Pellegrino, all'inizio della Val Brembana; i canarini scelsero Canzo, nelle Prealpi lombarde. La partita era molto sentita da entrambe le tifoserie, tanto che la società genovese organizzò una sorta di offerta low cost: viaggio in treno e biglietto d'ingresso allo stadio a prezzo scontatissimo. Come si conviene per le grandi sfide, non mancò neanche un po' di sana pretattica da parte dei due tecnici, Mario Genta per il Modena e l'austriaco Ernst Ocwirk, che dopo essere stato un grande con la maglia blucerchiata era passato a guidare i doriani dalla panchina.

Giancarlo Salvi, l'eroe di San Siro.
La Samp ha vinto il 'suo' scudetto, ed è grande festa
La partita fu molto equilibrata, dura e a tratti nervosa. Proprio quando sembrava che il Modena stesse prendendo il sopravvento, al minuto 17 del secondo tempo, Frustalupi sganciò una lunga parabola che scavalcava la difesa emiliana; Barison bruciava sullo scatto Panzanato in area di rigore e in diagonale batteva Gaspari, il portiere modenese. Il gol rompeva l'equilibrio e, come si suol dire, spaccava la partita. Trascorrono dieci minuti, contropiede doriano e Salvi, libero in area di rigore, con un secco tiro  raddoppiava. Risultato in cassaforte per la Samp, e pacifica invasione di campo dei tifosi che portano in trionfo i loro beniamini. La Doria si salva e resta in serie A, dove peraltro militava ininterrottamente dal 1946, anno della sua fondazione. L'onta della prima retrocessione sarà però solo rimandata di due anni e arriverà al termine della stagione 1965-66. Per il Modena invece quella sconfitta nello spareggio di Milano segnerà l'inizio del grande freddo. Ci vorrà la bellezza di 38 anni per rivedere nuovamente i canarini in A al termine della stagione 2000-01.

Kalz

Tutte le virtù dell'acclamato modulo Bagnoli

di Gianni Brera

Alla conclusione del campionato di Serie A 1984-1985, Brera celebra con piacere lo scudetto del Verona guidato dal suo Schopenhauer, "grande filosofo pessimista", della Bovisa: e pertanto grande interprete, ai suoi occhi, della tradizione italiana

Viva dunque il Verona campione d’Italia! Ha chiuso a quota 43 come la Juventus l’anno scorso e la Roma due anni or sono. Ha segnato 42 reti, che non sono molte, ma ne ha subite 19, che sono poche e fanno onore al suo impianto. Quota 43 prevede un -2 (meno due) in media inglese come dimostrano anche la Roma ‘83 e la Juve ‘84. Il Verona, ad ogni modo, ha vinto 15 volte, pareggiato 13 e perso 2: cifre altamente onorevoli sotto l’aspetto storico-statistico.

Sul tono del gioco bagnoliano abbiamo già disquisito da tempo. È ispirato agli schemi del modulo italiano. Contempla una saggia contaminatio fra zona e marcatura a uomo. Aggiunge al centrocampo, che è il nerbo della squadra, due difensori quali Marangon, terzino sinistro d’ala, e Tricella, libero; inoltre, vi richiama Fanna, ala sinistra capace di generosi recuperi difensivi, di impostazioni e rientri fulminei in azione. Giocano di punta Galderisi e Larsen. A turno entrano negli schemi delle punte i centrocampisti Briegel e Volpati, più raramente Di Gennaro, che costituisce il perno stabile di centrocampo. Bearzot riconosce nel Verona l’emulo più avveduto della nazionale (per quanto si rifà al modulo) e riconosce se stesso in Bagnoli, tecnico di piglio schietto e talora burbero, mai insensato o cattivo.

Bagnoli è un pragmatico di caratteristica indole lombarda. È cresciuto in periferia sacrificando a Eupalla dopo aver lasciato le zoccole ai margini del campo che la Ceretti e Tànfani aveva tracciato alla Bovisa. Ha fatto l’operaio e studiato la sera per diventare disegnatore meccanico. Dall’Ausonia, squadretta di liberi molto popolare nella zona del Macello a Milano, Bagnoli è passato al Milan per 75.000 lire e forse qualche pallone. È poi stato prescelto fra i quattro o cinque che Busini riteneva di dover fortificare mandandoli ai bagni sull’Adriatico. Dopo questa vacanza allo jodio e al fosforo (quello dei pesci fritti o alla graticola), Bagnoli è rientrato per tornare in fabbrica ma Busini gli ha quasi raddoppiato la paga mandandolo ad allenarsi con quelli di prima a San Pellegrino. Ha militato nel Milan giocando anche partite in Serie A: poi è stato ceduto al Verona. Sull’Adige ha preso la pleurite e, una volta guarito, anche moglie. Poi ha incominciato le peregrinazioni dei pedatori di ventura. Quando è approdato al Pallanza aveva un solo scopo: imparare il mestiere del legatore per aver posto a Verona presso la Mondadori. Dal Pallanza è passato alla Solbiatese e poi al Como. Faceva il pendolare dalla Bovisa al capoluogo del Lario. Infine è sceso sull’Adriatico ed ha vinto un campionato con il Fano. È risalito a Cesena e anche qui ha vinto il campionato di B ma non è rimasto a guidarvi la squadra promossa alla A: forse ancor prima di conquistare la promozione si era accordato per allenare il Verona in Serie B. A Verona poteva trasferire la famiglia, rimasta alla Bovisa, e questo era importante per lui più dei quattrini e della fama. Al Verona ha trovato Mascetti, lombardo come lui. Insieme hanno impostato la squadra per la promozione che hanno puntualmente ottenuto (terzo scudetto di Bagnoli).

Dopo due anni nelle posizioni di eccellenza, il Verona ha clamorosamente vinto anche il campionato di A. Il miracolo (perché non si tratta di altro) è dovuto all’impostazione d’una squadra equilibrata come nessuna e all’acquisto finalmente azzeccato di due stranieri, Briegel e Larsen. Gli artefici principali del quarto scudetto bagnoliano sono stati Garella, Fanna, Briegel e Volpati; un’unghia sotto, Di Gennaro, Tricella e Galderisi, infine Larsen e gli altri. Lo status di eccellenza tecnica raggiunta dai veronesi è garantito dal fatto che ben quattro di loro sono stati convocati in nazionale: sono Tricella, Di Gennaro, Fanna e Galderisi. Come tutti sanno, il Verona è passato in testa al primo turno e vi è rimasto fino all’ultimo. E poiché Bagnoli non ha mai potuto disporre di più di tredici elementi, era inevitabile che i neo-campioni arrivassero strematelli alla XXX giornata. Essi hanno finito sull’inerzia, come un ciclista in calando dopo una lunghissima fuga. Però il vantaggio del Verona sul secondo, che è il Torino, ammonta a 4 punti: tale margine da toglier fiato a chiunque volesse eccepire sulla sua prestigiosa vittoria. Naturalmente i neo-campioni hanno destato gli appetiti delle società più ricche e famose: Garella, il portiere taumaturgo, sarebbe già del Napoli; Marangon e Fanna dell’Inter. La perdita dei primi due non impressiona più che tanto Bagnoli: è da pensare invece che paventi moltissimo la perdita di Fanna, il quale normalmente sostiene la parte di tre giocatori tre e non potrebbe venir sostituito in Italia se non da Conti, che costa più di Fanna.

Ha compiuto grandi prodezze in rapporto alle sue modiche speranze il Torino, ragionevolmente lieto del secondo posto. Luis Radice viene considerato con Bagnoli il tecnico più bravo dell’anno. Mario Gerbi, vice-presidente del Torino, ha vinto nei miei confronti una elegante pipa di Enea Buzzi da Brebbia. Come Bagnoli ha inventato Briegel centrocampista, così Radice ha fatto del laterale d’ala Junior un regista di grandissimo piglio. Un po' sotto l’attesa si sono mossi Dossena e le due punte, l’alto elegante Serena e il fichettone Schachner, tognino con molto spirito di conservazione (la virtù cardinale degli italiani secondo Hemingway, che faceva l’autista in retrovia). Poiché non si proponeva sfracelli, il Torino e i torinisti sono soddisfatti e ovviamente sperano che le cose abbiano a migliorare l’anno prossimo. Intanto disputerà l’UEFA, che può apportare miliardi. Come il Torino saranno europee l’Inter e la Sampdoria, rispettivamente terza e quarta classificate. Per l’UEFA era favorita la Juve rispetto alla Samp: ma tutti sanno com’è andata all’Olimpico: la Lazio era sotto di 1-3 ed è riuscita nella prodezza di raggiungere i campioni in patente disarmo. Il Trap si è molto arrabbiato e quasi per convincere se stesso ha proclamato che a Bruxelles sarà un’altra cosa: ci mancherebbe che non lo fosse! Regalata dalla Juventus, la Samp ha trionfato dell’Atalanta, ormai sazia di agonismo (e di bravure), conquistando un onore da due decenni desueto a Genova. È un sintomo interessante, che di certo incoraggia un presidente pieno di svanziche e di generosi impulsi. L’ottimo Bersellini ha vinto da par suo un’altra battaglia sul clima capriccioso e ambiguo della Riviera.

L’Inter voleva molto - pur non dichiarandolo apertamente - e quindi ha avuto modo di deludere i suoi tifosi, da oltre mezzo secolo chiamati bauscioni dai milanisti, che non avevano Meazza bensì Ginìn Perversi, e perciò dagli interisti erano chiamati i casciavid (cacciaviti). L’Ernest Pellegrini, sorpreso in pizzeria da Michele, mi ha promesso anticipi superlativi, che forse non avrò per colpa dei troppi barriti denunciati nell’Inter benamata. Se l’Ernest somiglia a tutti i despoti di questa terra, pazienza; se invece è un bassaiolo d’onore, come credo, viva! Mio fondato timore è che vengano considerati punti forti dell’Inter alcuni che in realtà sono deboli. Questi equivoci portano a sgradevolissime delusioni. L’Inter del commiato ha maramaldeggiato ai danni di un Ascoli così generoso e folle da giocare alla pari per oltre un’ora. Quando ho visto affondare gli ospiti mi sono salvato affidandomi ai servizi radio-televisivi. Ho dunque appreso del Como, la cui imbattibilità casalinga non è stata interrotta dal Milan. Era quasi ovvio pensarlo salvo: ma la riprova non poteva non esaltare i cuori bennati. Si dà per certo al Milan il figliale ritorno di Paolo Rossi nel giro di affetti (e interessi) fariniani. Fratelli cacciaviti m’incalzano perché abbia a dir loro che Rossi non è finito. Certo che no! Rossi è un campione: nelle squadre avvezze per amore o per forza al contropiede, egli ha sempre fatto faville (Lanerossi Vicenza e nazionale bearzottiana); nelle squadre che gremiscono le aree avversarie, Paolino può anche non trovarsi a suo agio (vedi Juventus, quasi sempre portata a imporre il proprio gioco). Si tratta di sapere a quale modulo tattico vorrà attenersi il Milan. Roma e Fiorentina hanno beccato. Il Napoli ha vinto con quel suo prodigioso mercenario di passo a nome Diego Maradona. Il Napoli è l’ultimo dell’ottetto privilegiato e anche Allodi, dopo Marchesi, gli ha predetto il titolo nel giro di due anni. L’etimo di Allodi si rifà ai beni allodiali di Matilde: è un emiliano nato nel Veneto e cresciuto in Lombardia. Non vide me' di lui chi vide ‘l vero. Però, che lenza.

"La Repubblica", 21 maggio 1985

Il Conte rosso

Aveva quasi cent'anni Giovanni Gallea, quando nel 1999 fu celebrato il 'Grande Torino' a cinquant'anni da Superga. Gallea fu invitato alle celebrazioni, e fu intervistato da Claudio Giacchino ("La Stampa"). Era lui, che, negli anni belli, guidava il "Conte rosso", il leggendario pullman su cui viaggiavano in trasferta i giocatori del Toro.


Conte rosso. Così si chiamava il pullman che portava il Grande Torino e l'aura mitica che circondava gli Invincibili è ricaduta anche sul bus, Lo guidava Giovanni Gallea, era l'autista di fiducia della squadra di Valentino Mazzola. Oggi Gallea è un vispo nonnetto di 96 anni, abita con la moglie Ninfa, di un anno meno anziana, in via Asinari di Bernezzo 62. 
E qui, seduto davanti a un tavolino ricoperto di vecchie, ingiallite fotografie del Torino che fu vinto solo dal destino, ricorda «quegli anni favolosi in cui ogni domenica portavo in trasferta i granata e la Juve». La Juve? «Eh sì - sorride l'arzillo nonno Gallea - non è mica come adesso che nel calcio si spende e spande. Allora, le società guardavano al risparmio; anche il Toro che conquistava uno scudetto dopo l'altro, anche la Juve e così il pullman era in comune, veniva usato alternativamente da una squadra e l'altra. Ho, dunque, avuto modo di conoscere bene, da vicino, tutti: granata e bianconeri, Valentino Mazzola o Menti come Parola, Sentimenti IV e Boniperti». 
Giovanni Gallea non dice se era tifoso torinista o juventino, tenta di far credere che per lui Toro e Juve arano lavoro e solo lavoro. Poi, ammicca: «Un po' tutti i giocatori, dell'una e dell'altra squadra, volevano sempre sapere per chi tenevo, non gli ho mai dato soddisfazione, sono sempre stato sulle mie. Capirà, mica potevo farlo, dovevo essere imparziale. Però, Boniperti mi diceva spesso: "Giovanni, contamela giusta, tu stai dalla parte dei cugini. Uhmm, ho fiuto io, li sento lontani un miglio i granatini''». Il nonnetto sorride, annuisce: «M'aveva capito il giovane Boniperti. Avevo simpatia per il Toro». Solo simpatia? Via, sono passati cinquant'anni, può anche sbottonarsi un pochino, signor Gallea. Tanto, Boniperti non se la prenderà. E poi, l'aveva già scoperto .,. 
Il nonnetto ride: «Beh, in effetti tengo per il Toro e, al di là del tifo, sul lavoro preferivo i granata perché erano più alla mano, modesti, Vincevano tutto, eppure non si davano arie, con loro 1'ambiente era meno sostenuto di quello juventino. Che banda di allegroni pronto sempre allo scherzo era il Grande Torino. Una volta, ad esempio, sul pullman, Gabetto, mentre li portavo a Como, tirò fuori da una sacca il pallone e cominciò a palleggiare in mezzo ai sedili. In breve lui e altri si misero a giocare nello stretto corridoio, a passarsi la palla, a colpirla di testa, Chissà, forse il segreto di tante vittorie, di scudetti vinti in serie sta proprio nell'allegria di quei ragazzi, nell'amicizia che li univa. Superga mi ha derubato di una compagnia meravigliosa, indimenticabile. Tant'è che dopo non me la sentii più di guidare il Conte rosso, sarebbe stato terribile continuare. Feci domanda per essere assunto in Fiat, lasciai il mondo del calcio». 
Gallea tace commosso, aggiunge, timidamente: «Sono felice che il Torino non mi abbia dimenticato. Mi ha invitato in tribuna per la partita commemorativa del cinquantenario in cui il Torino indosserà maglie identiche a quelle indossate dai "miei" amici campionissimi. Ci andrò, in carrozzella, ma ci andrò. Voglio vedere ancora una volta quelle magiche maglie».

Quei favolosi e allegri viaggi sul Conte rosso ("La Stampa, 4 maggio 1999, p. 35)

Cruyff, Sherlock Holmes del football olandese

Sulla terza pagina de La Stampa, il 9 novembre 1978, Giovanni Arpino pubblicava questo magistrale ritratto - un ritratto d'occasione - di Johann Cruijff. L'asso olandese, due giorni prima, aveva dato l'addio al calcio, all'Ajax e al suo vecchio pubblico, ad Amsterdam, in un match [vedi in Cineteca] contro gli antichi rivali del Bayern e della nazionale tedesca. In realtà, non impiegò troppo tempo a ripensarci, affidando se stesso a un dorato tramonto. Proprio perciò, sebbene preceda di molti anni il vero addio ai campi (ma solo come calciatore ...) del celebre numero 14, la narrazione di Arpino scolpisce definitivamente il profilo di uno dei più grandi personaggi nella storia del football. 

A volte i festini d'addio alzano calici gonfi di cicuta. E' accaduto ad Amsterdam, nella notte di martedì scorso. Un «re» olandese, Johan Cruyff, aveva scelto quell'occasione, allo stadio olimpico, per la sua abdicazione, ed in settantamila si erano raccolti i suoi sudditi tifosi per festeggiarlo. Di fronte a questo «re» e alle telecamere locali e brasiliane e messicane caracollavano per la sfida amichevole i giocatori tedeschi del Bayern. Hanno reso amarissimo l'ultimo saluto di Cruyff alla sua città, alla sua maglia biancorossa col numero 14, alla vecchia società dell'Ajax. Spietati e sempre memori di vecchie ruggini professionali, i bavaresi hanno rifilato otto reti alla squadra di Cruyff, che a cinque minuti dalla fine, furibondo, abbandona e si ritira negli spogliatoi con le nuovissime insegne di «cavaliere d'Olanda». Lì sta forse meditando un altro brindisi d'addio, più dignitoso, come sempre è accaduto a tenori e toreri. Lì l'ha raggiunto il giudizio del suo vecchio allenatore Kovacs, presente allo stadio tra centocinquanta giornalisti, e che non si è trattenuto dal dire: «Che pena. Lo sport non dovrebbe aprire queste rovinose parentesi». 
Addio, Johan Cruyff, gran cavaliere di pelota. Ecco la tua scheda, scrupolosamente sintetica. Età: trentadue anni. Professione: stratega. Stato economico, floridissimo, malgrado certe beghe per tasse non pagate a Barcellona. Aspetto: nobile e grifagno. Salute: eccezionale, visto che in tanti anni di pedate hai patito pochissimi guai ossei e solo qualche fastidio al nervo sciatico, visto ancora che le tue pulsazioni arrivavano a 180 al minuto sotto sforzo per regredire a 50 normali con una facilità di recupero straordinaria. 
Dopo Pelé, solo Cruyff. Così assicura la storia del football degli ultimi vent'anni, quando deve limitarsi ai prodigi. Ma Pelé era un individuo dalla straordinaria architettura fisica e Cruyff, in alcune mosse, appariva un ragno gigante: il tronco quasi spariva a cospetto degli arti che volavano attraverso l'erba dei campi e gli stinchi avversari. 
Come tutti gli «artisti» dotati di uno stile altamente personale, Johan Cruyff non lascia una «scuola». Le sue capacità, le sue improvvisazioni geniali, persino la sua strategia in campo non hanno creato allievi, anche se la storia di Johan è completamente inserita nel quadro del calcio olandese, tanto tipico da ridurre ad atipici tutti gli altri tocchettatori di palla. Tra i celeberrimi «arancioni» che si muovevano nel rettangolo verde come giganti scioltissimi, capitan Cruyff era diverso: riusciva a scomparire e a riapparire in zone vuote, arretrava e danzava, si catapultava in gol di pura grazia e poi rieccolo a difendere. L'uomo che in abiti civili pareva un «manager» corretto e di lingua sciolta, tanto da improvvisare battute in cinque o sei lingue davanti a selve di microfoni, nella divisa di gioco si rivelava un «re» sgobbone, ed intorno a lui i suoi colleghi, per guadagnarsi la maglia, dovevano percorrere con ordine spazi immensi, fino all'ubriacatura dell'avversario. 
Olandese purissimo, malgrado l'occhio corvino, Cruyff non ha mai esitato dì fronte al denaro. Chissà che non si comperi, prima o poi, un grande ritrattista, come facevano appunto i commercianti di Amsterdam nei loro secoli d'oro. Per pesetas e pedate lasciò la maglia biancorossa numero 14 e si trasferì in Spagna. Ma è anche uomo che ha una sola parola: quando dice no, è no. Così respinse ogni allettamento per il «mondiale» appena trascorso, così rifiutò milioni, in dollari, dagli americani. Semmai dovesse smentirsi, non sarà per quattrini, ma per quella nostalgia, per quell'amore di sudore e prepotenze calcistiche che sovente torna ad illudere chi ha calciato. 
A guardarlo bene ed anche tenendo presente il suo bagaglio di stratega, Cruyff ricorda Sherlock Holmes: non solo gli rassomiglia, per quelle fattezze d'avvoltoio, per una disinvoltura da longilineo nato elegante, ma il suo stesso «lavoro» ha qualcosa in comune con lo spirito del personaggio inventato da Sir Arthur Conan Doyle. Anche Johan, infatti, espletava le pratiche facendo tesoro della sua «facoltà di deduzione», grazie alla quale analizzava ogni momento di ogni partita signoreggiandolo per farlo poi precipitare a suo vantaggio. Questo è stato forse il maggior segreto del suo mestiere: un grande campione tende alla semplificazione, rende facili e quasi ovvi i movimenti che altri invece ingarbugliano accanendosi dentro mille lacci. 
Ha vinto molto, Johan. Ma non troppo. Gli è sfuggito per troppa ansia e troppa voglia il «mondiale '74», proprio di fronte a quei bavaresi che ieri l'altro l'hanno umiliato nell'ora dell'addio. Ha conquistato titoli e coppe, governando da par suo i compagni, a costo di far fuori allenatori o concorrenti troppo sicuri di sé e in disaccordo con il volere del capitano. I più sottili critici esitano davanti a questo doppio quesito: gli «arancioni» olandesi avrebbero vinto nel '74 senza Cruyff e avrebbero rivinto in Argentina con Cruyff nel '78? E' possibile, anche se ogni storia, quella del calcio compresa, non può cambiare grazie a questi sofismi retrospettivi. 
L'addio di Johan ci riporta ad un calcio mirabile, dispendiosissimo secondo i calcoli avari dei tecnici sportivi, ma senza confronti per chi ha attraversato questi dieci anni di pallone. Uomini nati dal freddo, dal lavoro in diga, atleti disposti ad allenamenti ferocissimi ma anche allegri, liberi cittadini in trasferta con le mogli, rocciosi fenomeni fisici come Hulshoff, Suurbier, Neeskens (cognato di Cruyff, autentico Enrico Toti della palla, per quanto sa sacrificarsi davanti ai bulloni avversari), i biancorossi dell'Ajax hanno dettato calcio spazzando la concorrenza di cento club. Devoti agli incassi, si sottoponevano a «tournée» micidiali, galoppando da Amsterdam a Brasilia al Kuwait. Cruyff concordava tutto, i compensi e i minuti della prestazione sul campo per sé e gli altri, il momento della «goleada»e la saggia amministrazione di vantaggi anche esili. Quando l'Ajax di Cruyff segnava un gol, magari nei primi minuti di gioco, la partita moriva letteralmente a furia di passaggi all'indietro, con Johan che faceva il puledro di retrovia, divertendosi. 
Ha scritto un gran capitolo nella liquida storia del pallone, il signor Cruyff. E' stato sempre corretto, cavalleresco, cinico, gentile e distaccato nei rapporti umani. Ha imposto certe regole — dalle sponsorizzazioni alla vendita della propria immagine — che ormai vengono seguite da tutti, nel gran circo pallonaro. E' apparso un autentico fenomeno perché, secondo i medici, i suoi riflessi cerebrali quasi si confondevano con le sue istantanee reazioni fisiche: di qui il decimo di secondo che gli consentiva ogni anticipo sull'avversario e il salvamento dei ginocchi nei duri contrasti, attimi in cui il gran ragno balzava via e la falce assassina del suo marcatore roteava a vuoto. 
Ha sempre fumato una sigaretta prima della partita. Quasi per irridere alle pratiche del comune mortale calciatore. Un po' come l'americano Spitz, che fece vendemmia di medaglie nel nuoto e, mentre tutti i suoi concorrenti si depilavano per penetrar meglio nell'acqua, si lasciava crescere voluminosi mustacchi. Ecco un altro tocco di grazia, che appartiene al destino e intriga i muscolari. 
Forse è giusto, tra tanti ricordi di Johan, sceglierne uno che maggiormente ci riguarda. Accadde esattamente quattro anni fa, quando gli Azzurri si ritrovarono a Rotterdam in un novembre come sempre gelido, come sempre ventoso. La squadra italiana, raffazzonata, perse per tre gol a uno, gli «arancioni» fruirono anche di qualche benevolo sguardo da parte di un arbitro russo. Cruyff, dopo un inizio giocherellone, decise di palesarsi nella ripresa, segnò due reti, e il povero ragazzo italiano che lo doveva francobollare uscì pazzo di entrate, scivolate, abbrancamenti a vuoto. Il gran ragno lo escludeva dalla propria ombra con un accenno d'anca, con un finto passo da maratoneta che, da fermo, riesce di colpo a sparare se stesso come un centometrista. Quello fu un brindisi per il pubblico olandese, e pianto per minatori e camerieri italiani. Negli spogliatoi Johan rispose alle domande con puntualità, il pomo d'Adamo che gli correva lungo la gola come un elettrodo impazzito. Rideva del lavoro ben fatto. Stranamente mi ricordò uno dei «Beatles». 
Lo stadio olimpico di Amsterdam, dove Cruyff ha invano cercato di onorare il proprio addio, si è riempito di schifati cuscini, l'altra sera. Lo stesso Johan, invelenito, ha accusato i tedeschi di non aver compreso il senso di quell'incontro amichevole, rendendosi colpevoli di «aver voluto vincere ad ogni costo». Le abdicazioni sono sempre amare, anche se premeditate con onestà. Non saranno gli affari a consolare Johan Cruyff. Pelé ha dovuto recitare decine di volte la sua ultima partita. Può darsi che al ragno tocchi uguale sorte, in cambio di montagne di dollari. Ma a noi resta l'immagine dei giorni andati, di quel prodigioso compasso che scolpiva l'aria, che rendeva facile l'impossibile e voltava lo sforzo in armonia atletica. Addio Johan. Speriamo che tu sappia sparire come Greta Garbo.

Giovanni Arpino

Le miserie del calcio

5 giugno 2011
Maurizio Crosetti (La Repubblica) intervista Eduardo Galeano, venuto in Italia per inaugurare il Festival di Asti


I sogni, il mistero, le illusioni, la tecnica, ma soprattutto la bellezza. Il calcio, per Eduardo Galeano, è un favoloso groviglio di splendore e miserie: questo il titolo di un suo famoso libro che è, ormai da anni, un classico. E attorno alle due parole-chiave, splendore e miseria, ruotano anche questi giorni convulsi per il nostro povero pallone.


Galeano, cominciamo dalle miserie? 
"Sto seguendo l'ultimo scandalo che ha colpito il vostro sport. Tristissimo, veramente. Ma è la conferma che il calcio non è un'isola: non genera da sé violenza, corruzione, miseria morale, bensì le condivide con una società senza riferimenti, dove i potenti ingannano, rubano, mentono. Il football non è un capro espiatorio. C'è di peggio, credetemi, di un portiere che vende le partite o droga i compagni di squadra".

Ci fa un esempio?
"Qualche primo ministro. I nomi? Eh, sapete, io vengo da lontano e me ne intendo poco... Oppure i banchieri che hanno impoverito il mondo. Nessuno di loro è stato arrestato. Non i grandi, almeno. C'è chi ha violentato interi Paesi, e ha chiuso violentando cameriere d'albergo".

Come ci si oppone alla miseria, soprattutto quella interiore?
"Con la coscienza, con la capacità di ascoltare lei e non la convenienza. Come fece quel centravanti colombiano, tal Devani, che in un vecchio derby a Bogotà disse all'arbitro che non era rigore quello 
che gli aveva appena concesso. Sono inciampato da solo, spiegò. Ma l'arbitro guardò la folla inferocita, che quel rigore voleva assolutamente, e rispose: grazie, però io preferisco restare vivo. Allora il centravanti andò al dischetto della morte, appoggiò il pallone e tirò fortissimo: fuori. Da quel giorno cominciò la sua fine sportiva, eppure quel giorno rappresenta il momento di massima gloria di tutta la sua vita. Perché egli, appunto, ascoltò la voce della coscienza e non della convenienza".

Lo sport non dovrebbe essere un luogo dove si proteggono le illusioni e i sogni?
"Dovrebbe, ma non è, anche se nella contraddizione sta la sua fecondità. In Uruguay ci indigniamo quando un centravanti simula un fallo da rigore, diciamo che è un pessimo esempio per i bambini. Io penso che sia peggio scaricare bombe sugli innocenti, chiamandola 'missione di pace' invece di usare il suo vero nome: guerra".

Cosa può spingere un atleta a tradire e barare? Solo il denaro?
"Forse c'entra anche la condanna al successo. Ormai, non solo nel calcio, la sconfitta viene vissuta come una realtà senza redenzione. Quello che non rende, non serve. Abbiamo creato il mito dell'efficienza a qualunque costo, e le persone deboli cercano scorciatoie. La cosa grave, tuttavia, è il messaggio di impunità che talvolta si accompagna ai crimini. Questo è inaccettabile per gli onesti".

Però il calcio ha un grande potere consolatorio: è riduttivo, questo ruolo, o necessario?
"Siamo mendicanti di bellezza, e il calcio ci riempie gli occhi. Lionel Messi è l'unico vero messia in un mondo che inganna. Il Barcellona è splendore, certamente. Amo questa squadra solidale, creativa, piena di gioia di giocare, che non cerca atleti grandi e grossi e dà invece pieni poteri alla fantasia. La finale di Coppa dei Campioni contro il Manchester United è stata meravigliosa".

Meglio il Barcellona del Real Madrid, dunque.
"Non si discute neanche, Mourinho è un orrore".

A proposito di finali: il Peñarol di Montevideo si giocherà la Libertadores contro il Santos: a una squadra uruguaiana non accadeva da 23 anni.
"Non sono tifoso del Peñarol, ma spero vinca. Ogni tanto bisogna togliersi la maglia con i propri colori sociali, e pensare più sportivamente".

Lei ha scritto pagine memorabili sul mundial argentino del '78, usato dai militari per coprire i loro crimini. Pensa che lo sport sia ancora uno strumento di potere?
"Purtroppo sì. C'è chi manipola una passione universale per puro interesse privato, e questo è da delinquenti. Lo fece Hitler nel '36, umiliato dalla vittoria del Perù contro l'Austria: nella notte dopo la gara venne cancellata la vittoria, ottenuta con i gol di attaccanti neri. Però abbiamo esempi meno clamorosi e più recenti".

Cosa pensa dei politici che usano lo sport?
"Ne ricordo uno, anche se il nome mi sfugge. Italiano, mi pare... Disse, più o meno, che avrebbe fatto al suo Paese le stesse cose che aveva fatto con la sua squadra di calcio. Non andò proprio così".

Come si diventa grandi narratori di sport?
"Guardando e ascoltando. Se l'uomo ha una sola bocca, ma due orecchie, significa che prima di parlare dovrebbe ascoltare due volte".

Perché gli scrittori sudamericani hanno scritto le pagine più belle della letteratura sportiva?
"Non so se questo sia vero, comunque noi cerchiamo di tradurre la voce della realtà mescolandola al sogno e alla magia. Bisogna sempre partire dalla cose minime, dai dettagli. Io amo confrontarmi con le vicende difficili e profonde, cercando di raccontarle in modo semplice. La realtà regala le storie migliori, non c'è bisogno di ricamarci troppo. Credo nella grandiosità delle piccole cose, anche se il nostro tempo malato ha confuso la grandiosità con la dimensione del reale: una cosa, se grossa, non è necessariamente grande, anzi è spesso il contrario".

Come si cerca, lo splendore?
"Ne ho appena visto molto tra gli 'indignados', i ragazzi che ho incontrato in Spagna. Alcuni loro cartelli erano memorabili, ad esempio quello che diceva 'se non ci farete sognare, non vi faremo dormire'. Oppure, il mio preferito: 'La rivoluzione del senso comune'.

Contro le miserie, anche lo splendore di un po' di ottimismo?
"Io mi aspetto sempre che dentro questo mondo che non desidero, e che mi piace sempre meno, ci sia nascosto un altro piccolo mondo possibile e migliore, come dentro la pancia di una futura mamma".

Il mondo piccolo e migliore comincia dalle persone?
"Sempre, e dalla loro capacità di amare. Ricordo quando incontrai per la prima volta Obdulio Varela, l'eroe della Coppa del mondo che l'Uruguay strappò al Brasile nel 1950. Si narra che, la sera, questo grande giocatore abbandonò la festa dei suoi compagni, in albergo: me lo confermò egli stesso. Era andato vagando nei bar di Rio, per osservare le persone. Mi disse: Dentro lo stadio Maracanà, la folla mi era parsa un mostro con 200 mila teste e l'avevo odiata. Ma adesso, dopo la sconfitta, ognuna di quelle teste piangeva da sola. Ne abbi un'immensa tristezza. Il mio amico Obdulio trascorse l'intera notte, per così dire, abbracciato a coloro che aveva fatto soffrire. Ecco, a me sembra un esempio bellissimo di compassione. E' così, comprendendo le ragioni degli altri, soprattutto gli infelici, che forse si realizza un mondo migliore".

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