La prima vittoria del Napoli a Torino

Un'istantanea dell'XI partenopeo nella stagione 1930-31
Le cronache di Monsù Poss
24 novembre 1930


Nel campionato 1930-31 la Juventus azzeccò un filotto di otto vittorie, dalla prima all'ottava giornata del girone di andata. Il 23 novembre ospitava tuttavia, al "Campo Juventus di Corso Marsiglia", il Napoli. Fu la prima sconfitta dei bianconeri in quel torneo, e - in assoluto - la prima vittoria dei partenopei in casa della Juve. Vittorio Pozzo così descriveva (senza alcuna particolare retorica) l'impresa.



Prima sconfitta della Juventus in Campionato. Sconfitta che desterà scalpore, per il modo, e le circostanze in cui fu subita. I bianco-neri si trovarono in svantaggio di un punto fin dai primi minuti dell'incontro. Cinque minuti di giuoco infatti non erano ancora passati, che già Ruscaglia aveva mandato la palla a finire nella rete. E non s'era giunti ancora alla mezz'ora che gli ospiti avevano segnato una seconda volta a mezzo dell'ex juventino Vojack I. Se il primo punto era stato segnato con la complicità del vento che aveva impedito a Combi di acciuffare la palla nel tuffo in cui s'era gettato, il secondo era stato frutta di una azione magistrale e di un tiro imparabile. Scombussolata e nervosa, la Juventus, pur reagendo con forza, non riusciva a diminuir nulla dello svantaggio prima che l'arbitro mandasse lo squadre negli spogliatoi per il riposo di metà lempo. 

La strenua difesa napoletana 

Alla ripresa le ostilità prendevano una fisionomia ben netta, e delineata. Era la vera fase conclusiva dell'incontro. La Juventus si lanciava all'attacco con tutte le forze di cui poteva disporre, col peso dell'intera squadra cioè. Attacchi su attacchi, avanzate su avanzate, offensive su offensive. La pressione era così costante e vigorosa che ad un certo punto anzi più non era il caso di parlare di attacchi: il giuoco aveva preso fissa dimora nella metà campo degli ospiti, con una certa tendenza anzi a soffermarsi nell'area di rigore. Chiusi nella propria metà campo, schierati davanti alla propria porta, i napoletani si difendevano a denti stretti. Tattica loro unica, la difesa; scopo loro esclusivo: giungere al termine dell'incontro senza che il punteggio o per lo meno il risultato subisse variazioni. 
E si assisteva allora ad una lotta disperata, che non aveva gran che di tecnico nel senso proprio della parola, ma che aveva una bellezza ed un interesse affatto particolari. 
Gli ospiti, abbandonato come abbiamo visto ogni proposito d'attacco, avevano richiamato in aiuto agli uomini di difesa il maggior numero di giuocatori possibile. Giuocavano con tre terzini e cinque mediani. L'area di rigore ne risultava piena, zeppa. Sul muro difensivo cosi costituito, i bianconeri sferravano e vedevano irremissibilmente infrangersi le loro avanzate. Non si passava. Di mano in mano che il tempo avanzava, attaccanti e mediani juventini diventavano più nervosi. Gli attaccanti cadevano tutti nel tranello del giuoco alto. Quando la palla giungeva nell'area di rigore, vi giungeva dall'aria: e si trovava naturalmente tutto un fascio di uomini pronti ad intercettarla od a rinviarla. Certo, come spesso avviene in simili circostanze, il caso e la fortuna contribuivano alla buona riuscita della tattica dell'unità che si difendeva. La rocca dei napoletani fu infatti quattro o cinque volte ad un nonnulla dal capitolare. Nella confusione parve anzi una volta che il pallone venisse da un difensore bellamente deviato con una mano. Ma il passare attraverso a quella barriera umana era in realtà un'impresa ben difficile. A passare riuscì ciò non di meno la Juventus, ma una volta sola, non quanto bastava per portare il risultato alla pari, nè tanto meno quanto occorreva per vincere. 

Il goal di Cesarini

Ad un quarto d'ora circa dalla fine dell'incontro, Orsi, stretto fra i due o tre avversari che gli facevano vigile e costante guardia, centrava alto proprio davanti alla porta. Due juventini e tre o quattro napoletani saltavano assieme. Cesarini toccava di testa la palla. Marietti, ingannato dal vento e disorientato dal groviglio che gli si era formato davanti, sbagliava il tempo nel suo salto. Mentre egli scendeva dal salto stesso, la palla gli andava a finire nella rete, dietro la schiena. Con un solo punto di svantaggio, la Juventus prese a dominare più energicamente di prima. Ad un dato punto i terzini bianco-neri stessi si portavano nella metà campo degli ospiti: Combi medesimo abbandonò la sua porta ed avanzò rinviando col piede i palloni che gli pervenivano. Nessun scopo pratico venne raggiunto. Palloni alti, passaggi a traiettoria, centri spioventi, tutto veniva intercettato. E d'altra parte, nessun allettamento riusciva ad allontanare gli ospiti dalla loro tattica puramente ed esclusivamente difensiva. Sallustro solo tentò di far qualche cosa da solo in linea di controffensiva, giungendo anche una volta a chiamare al lavoro Combi per una parata ben difficile. Il resto della squadra napoletana, con rinvii lunghi a destra ed a sinistra, portò l'incontro al suo termine, senza che la Juventus avesse potuto raggiungere il pareggio. 
Il primo punto a favore del Napoli, giungendo a pochi minuti dall'inizio ebbe una influenza diretta e preponderante sull'andamento dell'incontro. La Juventus sentì subito che la vittoria le sfuggiva, e fu fin dalle prime battute costretta a lottare per risalire uno svantaggio. Lottò con ogni buona volontà ed energia, bisogna riconoscerlo. Nella scorsa stagione i bianco-neri perdettero più di un incontro per quella specie di apatia di cui parevano cader vittima gli uomini suoi al momento in cui si trovarono di fronte a situazioni imbarazzanti. Ieri no. La squadra non fece economia di forze né di volontà. Più il suo comportamento tattico — assieme, beninteso, alla difesa chiusa e salda degli ospiti — che non permise questa volta ai suoi avanti di raccogliere il successo. Al momento in cui i napoletani si rannicchiarono nella propria area di rigore a tutto pensando fuorché ad attaccare ancora, l'intera squadra juventina si lasciò come assorbire dal vuoto che le si parava davanti. Quelle che dovevano essere raffiche partenti da lontano e rapide ed improvvise per poter aver ragione della difesa napoletana, divennero una .pressione costante e priva di forza di propulsione. Ogni possibilità di penetrazione venne per questo solo fatto compromessa. Il giuoco alto fece il rimanente. L'attacco fece una partita ben sconclusionata, con Ferrari nettamente fuori forma. Meglio per la Juventus che questa sconfitta sia giunta mentre la squadra ha tempo, senza esser pressata dagli eventi, di pensare ai casi suoi, e di porre rimedio agli inconvenienti oggi palesati. 
Ben difficile torna il giudicare il Napoli sulla prova di ieri. Ché la squadra dopo un vantaggio fulmineamente conquistato, rinunciò apertamente ad ogni giuoco costruttivo ad un certo punto. E' brutto per coloro che osservano senza interessi, né passioni e non é rallegrante per coloro che dal giuoco voglion trarre deduzioni tecniche; ma il campionato, con le sue ferree necessità, genera un tipo di egoismo che è comprensibile ed in certo qual modo anche giustificabile. Il Napoli vide ad un certo punto la possibilità di vincere vivendo sul vantaggio acquisito: e non fece complimenti, mandò a farsi benedire le esigenze di tecnica e di bellezza del giuoco, o converti l'intera squadra sua in un reparto difensivo. E riuscì nell'intento. 

Il giuoco del Napoli 

In questo giuoco, che fu un sacrificio dell'attacco, emerse il lavoro tutta energia e sicurezza di Marietti, Vincenzo e Castello. La seconda linea è composta di lavoratori duri, resistenti e coscienziosi. Nessuno degli uomini dell'attacco, a giudicare da quella parte del primo tempo in cui il giuoco fu aperto, ha raggiunto ancora il grado di forma della prima metà della stagione scorsa, per quanto Sallustro paia migliorato in combattività e Mihalic, l'uomo migliore della linea, in fatto di tecnica dia segni di avviarsi nuovamente verso la buona via. L'attacco, nella prima mezz'ora di giuoco,  portò una mezza dozzina di attacchi in stile eccellente. Il primo punto degli ospiti venne segnato da Buscaglia su centro di Sailustro che si era portato verso l'ala destra. Il vento impedì a Combi. gettatosi in avanti, di toccare la palla, e l'ala sinistra napoletana poté sospingere la palla nella rete da pochi passi senza difficoltà, Il secondo punto venne originato da un passaggio trasversale di Mihalic che tagliò fuori metà della difesa juventina. Sallustro, con abile finta, lasciò in possesso Vojack che con un violento tiro di sinistro mandò la palla a finire alta nella rete, Nel primo tempo, la Juventus mancò parecchie occasioni facili da segnare. Cesarini, fra altro, si lasciò sfuggire un pallone di grande facilità a pochi passi dalla porta.

'54 e dintorni


Football Miscellany

Parole a galleggiare nell'aria, a riempire lo spazio stretto racchiuso tra le quattro mura dello spogliatoio. Berna 1954, Wankdorfstadion. Ferenc sente di non dover dare altre spiegazioni, ha appena finito di bere il suo the, ha gettato la maglia rosso cremisi nella cesta di vimini sul tavolo e si è alzato in piedi accendendosi una sigaretta e infilandosi la giacca.
“Vado.”
Il tempo della verità era già finito?
Gustav vorrebbe fermarlo, ribattere che non può andarsene così, ma lui risponderebbe che è venuto al mondiale non per lui, ma solo perché quello è il suo lavoro. Gustav vorrebbe chiedergli qualcosa ma il tempo della verità era davvero finito e Gustav guardò Ferenc scomparire dietro la porta, poi si voltò, appoggiò la testa al vetro dell’unica finestra e ascoltò il rumore della pancia dello stadio spegnersi poco alla volta, restando immobile, con quelle orecchie troppo grandi e la fronte calva, provando a rimettere in ordine i pensieri.

A Budapest, quartiere Lipótváros, c’è una piazza piena di gente. C’è la musica di una fisarmonica all’angolo e quella più netta di un pianoforte che entra e esce dalla porta di un caffè. Le note inconfondibili del “sogno d’amore” di Franz Lizst, mentre il sole scompare lentamente dietro l’orizzonte sagomato dai palazzi sul Danubio. È aprile. Gustav se ne sta nel suo vestito di buona sartoria, nell’andatura goffa, dondolante, eppure tiene lo sguardo dritto davanti a sé, gli occhi a catturare quel pezzo di mondo che gli sta di fronte, a cercare qualcosa che inizia e finisce dentro un nome: “Arancycsapat”.
I ragazzini lo riconoscono, è quello del calcio. Se ne stanno in disparte, ai lati della scalinata di un alto edificio in laterizio. Le risate cedono alla bolla del grande maestro, solo la musica del pianoforte arriva, a sprazzi, a rompere il silenzio dell’ammirazione.
Alfréd, occhi azzurri e profondi come un lago d’estate, vorrebbe parlargli ma ha il timore che quell’uomo non risponda lasciandolo deluso su quei gradini di cemento. Per questo aspetta, sperando che sia lui, se vuole, ad avvicinarsi al gruppo. Gustav Sebes, l’allenatore dell’Ungheria ha capito, soppesa la frase, pescando nel suo credo, rincorrendo il futuro, finché la visione non diventa quella giusta, stemperata dalla luce giallastra dei lampioni in ghisa che se ne stanno, simmetrici, ai margini della piazza. Il giallo oro che assomiglia tanto a quello della coppa Rimet.


Gustav Sebes, uomo di impeccabili credenziali politiche, formatosi come agitatore sindacale negli stabilimenti Renault in Francia, riteneva che lo scontro fra capitalismo e socialismo si combattesse anche sui campi di calcio e il suo contributo alla causa fu l’applicazione di una concezione di gioco in cui ai giocatori veniva chiesto di operare in tutti i ruoli per il bene dell’intera squadra.“Bisogna giocare per il piacere di farlo, per buttare la palla in rete, sempre e comunque, cercando il risultato con naturalezza, impegnandosi e correndo fino all’ultimo respiro senza pensarci più di tanto ma tutti insieme, collettivamente, in concerto".
Bernát, l’unico ragazzino in piedi, pantalone corto e capello mosso da una leggera brezza chiese:
“Vincerete la Coppa?”.



Mesi dopo. Le nuvole sul cielo di Berna.
Puskas è ancora claudicante alla vigilia della finale, Sebes gli chiede chi avrebbe preferito vedere schierato al suo posto. Puskas fa ricorso a uno di quei monosillabi perentori che aveva appreso nella sua brevissima carriera militare e rispose aspramente: “Io! Signor Sebes, per battere i tedeschi mi basta una gamba sola, io la gamba posso appoggiarla, quindi il problema non si pone”.
Veniva dalla Puszta, Puskas, dalla pianura magiara, l’uomo che segnò più di tutti in nazionale, Ferenc Puskas da Kispest, imbronciato, tracagnotto, indolente, le mani assiduamente in tasca, l’unguento nei capelli separati dal pettine, cresciuto sulla strada, come i ragazzi della via Pal, come i ragazzi intorno a Sebes quel giorno di primavera. Puskas aveva 17 anni nel 1945 quando i tedeschi si arroccarono nella cittadella di Buda. Pochi mesi dopo, a guerra conclusa, esordì in nazionale contro l’Austria finendo subito nel tabellino dei marcatori.

“Potevo sentire la palla come un violinista sente il suo strumento, giocavo con la leggerezza di un uccello in volo”, scrisse Puskas nella sua autobiografia a proposito dello stato di grazia che lo visitava.

Sei anni più tardi si sposa con Ersebeth, giocatrice di pallamano e vicina di casa. Grosics in porta poi Puskas, Hidegkuti, Czibor, Kocsis, Bozsik … Campioni Olimpici, poi il 25 novembre 1953 a Wembley umiliano gli inglesi con un sensazionale 6-3.

Il mondiale svizzero per il cinquantenario della FIFA per l’Ungheria è una sinfonia con una nota distorta che comprometterà la composizione. Il tecnico tedesco Sepp Herberger capisce l’antifona e schiera le riserve nella partita del girone. Si, le riserve e un killer: Werner Liebrich. I magiari vincono 8-3, Puskas viene randellato a dovere e deve star fuori contro il Brasile e contro l’Uruguay. Partite tirate, sofferte, gli ungheresi arrivano all’atto conclusivo malconci, stremati; Puskas vuole ad ogni costo giocare la finale dove l’Ungheria ritrova la Germania, la Germania quella vera, e chissà perché così fresca, in forma. L’Ungheria cede 3-2 dopo essere stata in vantaggio 2-0 dopo appena otto minuti, dopo che sembrava fatta, dopo che sembrava fosse un Gulasch perfetto, di quelli cucinati su un fuoco di legna all’aperto. Invece no. Al ventesimo i tedeschi hanno già pareggiato e verso lo scadere Helmut Rahn chiude la faccenda. A Puskas fu annullata una rete in dubbio fuorigioco. Per la squadra d’oro si trattava della prima sconfitta in sei anni. La più cocente.

Gustav Sebes osservò l’orologio dello stadio, in alto sulla tribuna, capì che il tempo era scaduto, che qualcuno aveva commesso un errore di valutazione o di presunzione, sperò che i dubbi e i sospetti venissero chiariti e non depurati. Ci pensò, poi abbassò la testa e pianse per i ragazzi di Buda. Avrebbe potuto riprovarci ma l’arrivo dei cingolati sovietici spezzò in due il novecento e l’Ungheria.

Simone Galeotti