Gianni Brera, vate di Eupalla

Pubblichiamo l'intervento di Maurizio Harari, letto nell'ambito di "Brera: pensieri liberi sul più seducente giornalista sportivo del Novecento", incontro svoltosi a Pavia il 27 settembre 2019, in occasione del centenario della nascita di Gianni Brera.


All’uditorio dei Senzabrera parlerò da outsider e voyeur eminentemente palabratico di calcio, lettore affezionatissimo del Vate per circa trent’anni e specialmente appassionato del suo “Guerin sportivo” e dell’inimitabile rubrica dell’Arcimatto. E parlerò anche come studioso e docente di mitologia, perché di narrazione mitologica qui si tratta: e adotterò un approccio scientifico, squisitamente accademico, analizzando le fonti (cioè la fonte: il Brera medesimo) e ricostruendo immagine e funzioni della Dea.

Eupalla chi è? La sua presenza e attualità nel web è impressionante. La definizione è comunque breriana, con tanto di etimologia: la “benevola che assiste pazientemente alle goffe scarponerie dei bipedi” e “presiede alle vicende del calcio ma soprattutto del bel gioco (dal greco eu, ‘bene’)”. Attenzione, però, ché ‘benevole’ sono in Grecia le Eumenidi ossia le Erinni, le Furie tormentatrici di Oreste... Il teonimo è dunque composto dall’avverbio gr. eu e dall’it. palla: la Ben-palla, cioè Colei che (se ne ha voglia) fa giocare bene a palla – come Eu-terpe era, per es., la Ben-piacente. 

Non sembra necessario cercarvi l’epiteto Pallas, Pallade (di Atena), quantunque Brera accosti Atena ad Eupalla in una similitudine che traiamo dalla sua cronaca dell’Italia-Germania 1970: “Albertosi voleva strozzare Rivera, che se ne andò mestamente avanti mentre Bonimba spendeva le ultime energie in un’eroica sgroppata […] Pensai, riflettendoci, al duello fra Achille e Ettore sotto le porte Scee. Achille scagliò la lancia: Ettore la schivò: Pallade Atena la raccolse per ridarla al Pelide: allora il prode figlio di Priamo si accorse che la sua sorte era segnata. Una Pallade Atena che poteva benissimo chiamarsi Eupalla evitò a Rivera lo strangolamento da parte di Albertosi e gli offrì benigna la palla di Bonimba che significò il suo trionfo”. Ma corretta esegesi di quel passo mostra che Eupalla rimane Eupalla, fra Albertosi e Rivera, così come Atena fra Ettore e Achille – e il Bonimba, come si è visto, fa la parte della lancia (con confronto quasi ironico e sconveniente a una struttura fisica che evocava il nano circense Bagonghi). La similitudine è letteralmente omerica, in una scrittura esplicitamente epica e perciò formulare e infarcita di neologismi e nomignoli fortemente espressivi. 
Com’è fatta Eupalla? Non mi pare che Brera l’abbia mai precisamente descritta. Si sa che è femmina, inequivocabilmente tale, e dunque s’apparenta alla passività “volubile” delle squadre italiane – e dell’Inter in particolare, che è “passionale […] agli antipodi del pragmatismo che caratterizza la Juventus” –; a dispetto del nome è “una dea, non una sfera” e “secondo com’è vista può sembrare”. Quasi una statua di Lisippo, che faceva la figura umana non com’è – dice Plinio – , ma come la si vede o la si vuol vedere. 
L’immaginiamo, in ogni caso, opulenta come un’ostessa, col panneggio abbondante di Musa e la palla (invece che il rotolo o il compasso o il flauto) nella mano. Mirko Volpi l’ha vista, in un paradiso che, anche a prescindere dall’autorità dantesca, non poteva non essere sferico, “assisa in regal trono” avendo ai lati Iohannes Brera, appunto, e Pelè, “il re dei bipedi giuocator”.

Quali sono le funzioni della dea Eupalla? Essenzialmente due. La prima attiene al suo statuto onomastico e iconografico: è la Musa che ispira la scrittura di sport e soprattutto la scrittura di calcio. L’incipit di una Tottiade di recente pubblicazione (Costantini 2013) suona infatti brerianamente così: “O Musa pedatoria, / o Sfera dei Capricci, / raccontaci una storia, / del grande calcio dicci / Eupalla diva” ecc. ecc. 
La seconda funzione investe direttamente il “giuoco” – da pronunciare alla maniera del Cavaliere –, in quanto la dea agisce da Tyche, indirizzando gli esiti capricciosi, indecifrabili e ingovernabili di un confronto in cui non sempre vince chi è meglio organizzato.
In proposito, Stefano Benni ha evocato un’altra dea apparentemente speculare e antitetica, Dispalla, che “con sghemba e beffarda mano fa impazzire le traiettorie e sbilenca le parabole”; ma non s’è accorto che la sua Dispalla altri non è se non il volto oscuro della Medesima, in una dialettica pilotata da eventi accidentali, che scoraggia le teorizzazioni degli ideologi del calcio totale e pretende la semplicità euclidea e l’astuzia ulisside del contropiede all’italiana. 

Questa doppia qualità della Dea si manifesta nell’espressionismo lessicale di una scrittura che trascende l’ ”argomentare di pedate” – “inutile come cercar di governare l’Italia secondo Benitone da Predappio” – e costruisce, non so quanto volontariamente, una specie di memoria culturale. Rivera come Achille, Riva come Brenno, Maradona un Cerbero, l’arbitro “un po’ magistrato e un po’ sacerdote” (e il boxeur Alì il protetto degli “dei della foresta e della savana”). 

Qui s’intersecano letteratura antica e antropologia culturale – il “razzismo” di Brera proviamo a considerarlo da questo punto di vista – nell’edificazione di cronaca in cronaca di un intero “Ramo d’oro” dello sport, intessuto da un indimenticabile sir James Frazer “di riva e di golena, di boschi e di sabbioni”. 

Maurizio Harari (Direttore del Dipartimento di Studi umanistici dell'Università di Pavia)

Audio e video di tutti gli interventi della giornata qui


Il Grande Torino


Uno dei giorni più luttuosi della storia d'Italia: 4 maggio 1949. Lo schianto sul basamento della basilica di Superga annientò il Grande Torino. Il lutto non riguardò solo i familiari delle 31 vittime dell'incidente aereo ma il paese intero, sgomento e in pena. Due giorni dopo, la radiocronaca del funerale fu trasmessa in diretta, con il commento di Nicolò Carosio e di Sergio Zavoli. Il calcio italiano perse una generazione di campioni, uscita dalla guerra come erede di quella che aveva dominato il mondo negli anni 1930s e ideale ponte di congiunzione con quella che ricominciò a vincere a livello internazionale negli anni 1960s.

A fare Grande il Torino era stato il presidente Ferruccio Novo che, negli anni peggiori della guerra, fu capace di garantire ai giocatori l'esonero militare e di proteggere il tecnico ebreo ungherese Ernő Egri Erbstein. Anche il CT Vittorio Pozzo collaborò alla costruzione della squadra, raccomandando ai giocatori in odore di Nazionale il trasferimento a Torino. L'acquisto delle mezzali Valentino Mazzola ed Ezio Loik segnò l'inizio del ciclo vincente: cinque scudetti consecutivi, nel 1943, 1946 (i campionati intermedi non furono disputati), 1947, 1948 e 1949; e la Coppa Italia nel 1943.

La classe dei giocatori - il portiere Bacigalupo, i terzini Ballarin e Maroso, il centromediano Rigamonti, i centrocampisti Grezar, Castigliano, Loik, gli attaccanti Menti, Gabetto e Ossola, e il fuoriclasse Mazzola, costituivano l'XI dell'ultima stagione - era tale da poter adottare più schemi di gioco: l'iniziale "metodo" (WW); la moda importata negli anni 1940s, vale a dire il sistema (WM); e il "mezzo sistema". La squadra segnava tantissimo e poteva permettersi di giocare scoperta dietro. Secondo Gianni Brera la tragedia la colse nel momento in cui stava maturando una svolta tattica più prudente, che le avrebbe probabilmente garantito anche i successi a livello internazionale.




4 maggio 1949: Prima pagina della "Gazzetta" | Lo strazio che non ha nome | Settimana Incom
Ricordi: Bruno Roghi (1949) | Gianni Brera (1989) | Il Conte Rosso (1999)
Documentari: Il Grande Torino | Soltanto il cielo li dominò
Gli XI: 1942-1943 | 1945-1946 | 1946-1947 | 1947-1948 | 1948-1949
Il santuario: Stadio Filadelfia
Letteraria: Ai campioni del Torino di Mario Luzi | Me Grand Turin di Giovanni Arpino | Nel piccolo caffè di via Garibaldi (Alfonso Gatto)
Biblioteca: Un ineguagliato genio del pallone
Kultur: Quel giorno di pioggia | Osvaldo Casanova


Superga 70 anni dopo (Nicola Sbetti) - con collegamenti ad altre risorse

ClochArd – La triste storia di Joachim Fernandez


Il Casamance a dicembre è ancora ingrossato dalle piogge, le piogge della stagione delle piogge. Le piogge, meravigliose piogge, le piogge maledette piogge…anche quelle di danaro e di successo. Il Casamance scorre in Senegal, nella sua parte meridionale: scorre in terre piatte, spesso paludose e le sue acque sono attraversate da piccole imbarcazioni di pescatori, che attraccano poi su sponde ricche di vegetazione; piroghe e natanti sulle quali marinai primitivi dalle fragili onde tirano su pesci dal sapore fangoso. Dove sei, Casamance? Dove siete, pescatori? Dove sei, amore mio? Dove sei, figlio mio? Diosanto…Qui fa freddo, fa tanto freddo! 

Questo enorme serpentone d’acqua, dopo aver attraversato chilometri di nulla, bacia l’Atlantico con un estuario che se lo sognano in Europa…l’Europa che ci ha “scoperti”, l’Europa che ci ha dominati, talvolta aiutati, più spesso sfruttati. Vabbeh, sono passati anche secoli, da quando quell’ “italiano” che non sapeva ancora di essere italiano venne a farci visita e per qualche cavallo ne prese quasi cento, di nostri amici e fratelli. “Sciavi” li chiamava, chissà…fra quei cento, magari c’era pure qualcuno della mia famiglia. Che bello, il Senegal! Sì, anche a dicembre. Ed era il 6 dicembre del 1972 quando mamma mi diede la vita: donna bellissima, mia madre…forse fu lei la musa di Senghor, “donna nuda, donna nera”. Che tempi, gli anni della nègritude! Tempi in cui non eravamo più “sciavi”, ma uomini liberi, alla ricerca di noi stessi, della nostra cultura, della nostra storia, delle nostre radici. Radici. Penso alle radici e mi vengono in mente quelle profonde degli alberi, che scavano la terra, penetrano nel suolo profondo, arrivando fino al cuore. Ma che spesso non riescono da esso ad uscire. Prigionieri della propria libertà. Siamo stati anche questo, noi africani, noi senegalesi. Radici. Meraviglioso limite. Senghor ci aveva avvertiti:”La vera cultura è mettere radici e sradicarsi”. Certamente, non farsi sradicare, ma sradicarsi. Ci siamo riusciti? 
Spesso ho mangiato le radici. Le mie radici. Non c’era molto altro, negli anni 70 a Ziguinchor, a meno che tu non fossi abbacchiato coi francesi. E i miei di abbacchiarsi coi francesi, almeno con quei francesi, lì in Senegal per amore del denaro (amore che avrei conosciuto anche io, maledetto me!), non ne avevano proprio voglia. Se loro sono venuti qui…ma perché non andiamo noi là? Addio Senegal, addio Casamance, addio Senghor. Il mio viaggio inizia qui, da ragazzino ti lascio, materna mia terra, ma tornerò. Tornerò. Giuro!


Fernandez a 17 anni
Bordeaux. Gli zii abitano qui. Mamma e papà sono rimasti in Senegal: le radici non pagano più di un biglietto di sola andata per il sogno. C’è il mare, poco distante. E’lo stesso oceano che ho lasciato anni fa. Questo mi rincuora. Certo, è tutto diverso: palazzi, traffico, uffici, automobili, gente che va di corsa (ma dove andrà così di fretta?!) e io che vado a scuola. Da solo. Non ho molti amici qui, anzi, quasi nessuno. Ma anche io avrei “paura” ad andare in giro con me stesso: sfioro il metro e ottanta e non ho neanche 18 anni, grosso, robusto, un armadio. Incuto timore. Ma qualcosa di delicato ce l’ho anche io. Sì, i piedi. Sarà per le tante corse sulle rive del Casamance, sarà per merito della mia bella mamma, ma i piedi li so usare. E non solo per camminare, ma anche per tirar calci al pallone. Lui sì, che è mio amico: silenzioso, pacifico, ubbidiente, educato…come me. E i miei piedi. Anche altri si sono accorti dei miei piedi. Un tizio qui dice di allenare i ragazzini della squadra della città e mi ha convinto a seguirlo. Ora sono nelle giovanili, li chiamano i “Girondini”. Chissà perché, ma mi piace. E io piaccio a loro. Gli anni passano e io continuo a crescere in altezza e nel fisico. Il tizio e i suoi colleghi, li sento parlottare un giorno…Dicono cose del tipo:”Il ragazzo deve crescere”, “Deve farsi le ossa”, etc. Mi mandano in un’altra società, dove posso migliorare la mia tecnica e le mie qualità possono avere tempo di esprimersi. 


Sedan. Freddo. Dio mio che freddo! Le mie lunghe gambe spesso attraversano questa poltiglia bianca che qui chiamano “neve”: mai vista prima! Ti ghiaccia la testa, finanche i pensieri sono ghiacciati. Ti ghiaccia il corpo! E i piedi? Mamma mia, mi dolgono da morire. Non bastano calze e calzini, sono irrimediabilmente freddi. Quei piedi che bagnavo in acque torbide, ma calde adesso spesso riposano dinanzi al timido calore di un camino. Però i piedi continuo a saperli usare. Il mio mister è un tipo in gamba, si chiama Michel Leflochmoan: non ho ancora vent’anni e tiro calci con Delmotte e De Neef, gente da decine e decine di match nella serie A francese. Il Sedan è al momento in seconda serie, ma per me è un sogno giocare tra i professionisti! Il mister mi manda in campo una quarantina di volte e io non me la cavo affatto malaccio. Segno anche un gol! Io che fino a pochi anni fa pescavo sulle rive di un fiume senegalese. E anche i guadagni non sono male. Sembra girare tutto nel verso giusto adesso. 


Angers. Altra stagione in seconda serie. Città splendida, patria di quel Bodin che disprezzava “l’abbondanza di oro e argento” (Jean, parlavi di me?). Anche qui c’è l’acqua. Non è l’oceano, ma un fiume. La Maine. E’destino. E’sempre il destino che manovra le nostre vite. O almeno la mia. O almeno così mi piace pensare, quanto meno per scaricarmi la coscienza dai miei errori, dalle mie responsabilità. Qui mister Guesdon mi utilizza spesso, gioco abbastanza da mettermi per bene in mostra. E anche qui segno un gol. 27 partite. Il sogno continua. 

Il giovane Joachim Fernandez ai tempi del Bordeaux: 
dietro di lui un giovanissimo Zizou
Bordeaux. Parte II. Erano prestiti e si sa come funziona nel mondo del calcio. Ti mando lì, là…nella speranza che tu possa esplodere. Beh io il mio l’ho fatto. E anche benino. Sulla panchina del Bordeaux c’è un serbo, Slavo Muslin. Uno che da giovane giocava in difesa. Come me. Ed è stato bandiera della gloriosa Stella Rossa Belgrado. Mi inserisce nella seconda squadra. Ma per lui sono invisibile. Rimango tra le riserve e solo talvolta posso assistere (non partecipare, assistere) agli allenamenti della prima squadra. E sapete chi c’era in quel Bordeaux di metà anni 90? Lui. La classe cristallina, talento puro, luce del calcio. Lui. L’immenso Zinedine Zidane. Ha 23 anni, come me e gioca come mai avevo visto fare. Accarezza il pallone come si fa con una bella ragazza. E con lui in rosa c’è qualcuno che conoscerete sicuramente, almeno di nome: Lizarazu, Dugarry, un’olandese che si farà valere tanto, Witschge, e anche un certo Prunier che giocherà nella prestigiosa piazza di Napoli, seppur poco e male. Ma capita. Ci sta. E’ una bella squadra davvero. Spesso li vedo dalla tribuna. Ma i miei occhi sono solo per Zizou. Come fa, mi chiedo in continuazione. Dai mister, chiamami. Dai, mister…almeno una convocazione, anche solo in allenamento, anche solo in panchina. Ma lasciami giocare con Zizou, con Christophe, con questi grandi campioni. Dai, mister. Niente. Poi succede. Sì, ragazzi…succede. E’inizio novembre del 1995, non potrò mai dimenticare quei giorni: alcuni difensori non sono disponibili, tra infortuni e squalifiche e lo slavo viene da noi, nelle riserve. Parla col nostro mister, chiede, chiacchiera e poi mi indica. E’fatta. Sono convocato e non per andare in panchina: signori, gioco titolare il match dell’8 novembre (dopo il mio compleanno, festeggio anche ogni 8 novembre!) a Lens. Il Lens di quel Bolì che porterà sul tetto d’Europa il Marsiglia, il Lens di quel Laigle che a Genova, sponda Sampdoria, lascerà ottimi ricordi, il Lens di altri volti noti come Dehu e del mio vecchio amico Delmotte. Il nostro 11 di partenza: Huard, io, Croci, Dogon, Prunier, Lizarazu, Toyes, Dutuel, Witschge, Grenet e Bancarel. Finirà 0-0. Io gioco tutto il match. Loro non segnano, io faccio un figurone! Muslim si complimenta, i compagni mi abbracciano. Certo, non abbiamo vinto, ma è un buon pari, fuori casa. E dopo l’esordio nella serie A francese, arriva anche quello in Europa: ottavi di finale di Coppa Uefa contro il Betis Siviglia, di quel Robert Jarni che addirittura indosserà la maglia della Juve. All’andata s’è vinto per 2-0, il ritorno lo giochiamo con noi ragazzi in campo. Prima del match, arrivano i giornalisti e mi chiedono se ho timore, paura e io rispondo, con semplicità, con ovvietà: ”Loro hanno le magliette e noi abbiamo le magliette. Loro hanno le scarpe e noi abbiamo le scarpe. Perché aver paura?”. La mia dichiarazione fa il giro del paese. Passiamo in vantaggio con Zidane (un lob da 35 metri! La classe, dicevo…), ma veniamo rimontati. Perdiamo, ma passiamo ugualmente il turno. Io gioco ancora una volta tutti i 90 minuti e mi becco pure un giallo! Fa nulla! Torno fra le riserve con altro spirito, nella speranza di una nuova chance. Che arriva dopo pochi giorni. Andiamo a giocare a Nantes e di fronte ho Pedros e Cauet, altri due che hanno conosciuto l’Italia. Sarà mica questo il mio destino? Va male, molto. Ne prendiamo due, doppietta di N’Doram. C’è Zidane in campo e per me è già una vittoria. Io non brillo, ma comunque ancora una volta gioco tutto l’incontro. Dopo l’entusiasmo, arriva il limbo. Passano i giorni, le settimane, i mesi e io ritorno fra le riserve aspettando nuovamente la chiamata da Rohr (un tedesco subentrato a quell’antipaticone di Muslim, che sta al Bordeaux come Facchetti all’Inter), ma non arriva. Arriva l’inverno più cupo della mia vita, anzi…ne vivrò altri peggiori, sicuramente, ma questo è veramente triste. Dimenticato. Mi rispolverano a marzo. Ed è sempre in occasione della Coppa Uefa. E’ un’impresa improba: il Milan di Capello all’andata ci ha uccellato due volte a San Siro. Ehi, il Milan di Capello, capito? Sì, quello di Baggio, Weah, Donadoni, del mio mito Vieira, Baresi, Maldini…è il gotha del calcio. Meglio in giro non c’è. A Bordeaux, nella partita di ritorno, siamo destinati a fare gli agnellini, le vittime sacrificali. Poi qualcuno o qualcosa (il destino?) decide che le cose debbano andare diversamente: dopo un’oretta di gioco siamo sul 2-0 per noi. Zidane e Dugarry si trovano a meraviglia e i totem rossoneri fanno una figuraccia. E’la notte del Bordeaux, è la nostra notte. Dugarry (che, ironia della sorte, diverrà rossonero poco dopo) la mette nuovamente dentro. Siamo sul 3-0, Davide surclassa Golia, la storia si ripete. Io sto in panchina. E’già tanto esserci. Esulto ad ogni gol, corro ad abbracciare chiunque. Poi a 5 minuti dalla fine, quando i milanisti premono, quando Weah spaventa il nostro Huard più volte, quando il sogno sta per diventare incubo perché basta una rete loro e siamo fuori dalla Coppa….quando c’è tutto questo, mister Rohr mi dice: ”Scaldati che entri!”. Io? Io, mister? Ma sei sicuro? Anche se solo per pochi minuti, fosse anche un solo secondo, io devo marcare George Weah? Fu così: esce Tholot e io vado lì dietro a fare diga, a fare resistenza, a fare linea Maginot. Quando il turco Cakar emette tre fischi esplode la gioia, l’impresa è compiuta. 3 – 0 al Milan! Impensabile, anche per il più folle dei folli! C’è ancora la Coppa Uefa e andiamo a giocare a Praga, contro il sorprendente Slavia di Poborsky (italiano anche lui, l’incubo degli interisti). Dopo 8 minuti il nostro Christophe ci porta in vantaggio. Da qui è solo catenaccio. Che dura fino alla fine, con me a dare una mano lì dietro negli ultimi minuti. Vinciamo uno a zero. Stesso risultato del ritorno, ma io in Europa non giocherò più. Mai più convocato. E i miei amici girondini volano in finale. Un traguardo inimmaginabile solo fino a pochi mesi prima. Certo, il Bayern è uno squadrone e noi giochiamo l’andata senza i nostri due alfieri, Zizou e Christophe, squalificati. Perdiamo 2-0, ma ormai siamo abituati alle rimonte, no? La storia si ripete no? No, stavolta no. Al ritorno i tedeschi (che tanto crucchi non sono visto che hanno in campo Klinsmann, Papin, Matthaus, Sforza e Ziege, manovrati sapientemente da Kaiser Franz Benckebauer) ce ne danno 3. La vincono loro la coppa, ma noi siamo la felice sorpresa del torneo. E io? Io sono ritornato un po’ nell’ombra, ma pochi giorni dopo la disfatta europea ritorno in prima squadra. Ci sarà ancora spazio per me? Sono in campo nella partita di ritorno del mio esordio: in casa contro il Lens. E va come all’andata. Identico. 0-0. Partita scialba, ma io non demerito e dopo meno di un mese Rohr mi manda in campo ancora una volta da titolare e per tutto il match contro il PSG di Djorkaeff, idolo della Milano nerazzurra, e Dieng, incubo della Genova doriana. Ancora pari, ma per 2-2. Rohr mi dà nuovi compiti: ricordate la storia dei piedi? Tranquilli, ho sempre freddo, ma i piedi sono sempre delicati e il tedesco dalla panchina spesso mi incita ad avanzare palla al piede, ad impostare, a dare il via alla manovra girondina. Non mi ci vedo mica male, a centrocampo. D’altronde l’ho detto, Vieira è il mio idolo. La mia stagione al Bordeaux si chiude con mezzo match giocato a fine campionato contro il Lille, a giochi fatti, un match senza particolari obiettivi, vinto facilmente. E ora? Mi confermano, mi daranno via? In prestito? Mi vendono. Definitivamente. E io accetto, il contratto è ottimo. Soldi, tanti. 

Caen. Sul mare. Anche se ritorna il freddo e non è Bordeaux, né tantomeno il calmo oceano africano. Vento, pioggia e spesso tempeste dominano le mie giornate. Qui finalmente ho possibilità di giocare titolare e in prima serie, seppur in una squadretta senza troppe pretese, anzi una sola: salvarsi. Segno un gol, gioco 29 incontri, faccio coppia con Gallas che da qui poi supererà la Manica (ci vuole poco…) e farà fortuna in Inghilterra. Ma ormai divento spesso anche perno del centrocampo. Intanto, io la mia fortuna me la sono costruita e me la costruisco tuttora. Rimango un tipo chiuso, taciturno, parlo poco, con mia moglie non va granché bene. Aspetta un bambino. Ma qualcosa non va. Non sono sereno, non mi sento sereno. I soldi non mancano e anche le pressioni: i primi li spedisco spesso anche a casa, giù in Senegal…partono freddi e arrivano caldi. Le seconde le tengo per me. Il Caen retrocede. E mi vende.

Joachim Fernandez in una figurina Panini 
con la maglia dell'Udinese
Udine. Di me qualcuno si ricorda ancora. E’Alberto Zaccheroni. E’lui che mi vuole ad Udine. La fortuna torna a girare. Il destino torna a girare. Io torno a girare. Il freddo lo troverò sempre sulla mia strada e anche quello del Friuli non scherza! Ma è la seria A. A 25 anni è il massimo. Posso ripartire e dal meglio del meglio: Juve, Inter, Milan, Roma…mi confronterò con queste squadre. Non vedo l’ora! E l’ora arriva subito: 31 agosto del 1997, arriva la Fiorentina di un mostro come Batistuta e di un altro piedino fatato (io che ho visto all’opera quello di Zizou me ne intendo…), cioè Rui Costa. Al 72esimo siamo sul 2-1 per noi. Si deve difendere questo vantaggio. Zac richiama Paolino Poggi e mi manda in campo. E’l’80esimo, è il mio esordio. Devo fare muro e sono cose che so fare. Purtroppo non avevo mai incontrato un fenomeno come Batigol: in 10 minuti ci fa due reti. Vincono i toscani. Io rimedio una figuraccia. I 10 minuti più terribili della mia vita. I 600 secondi che mai avrei voluto vivere. Zac (qui lo chiamano così) dopo poco troverà la quadra: l’Udinese diventerà un treno in corsa; è una squadra di provincia eppure quell’anno farà cose favolose. Davanti c’è un tedescone che la butterà sistematicamente dentro: si chiama Oliver Bierhoff. Dietro, una difesa rocciosa. Arrivano a viaggiare nelle parti alte della serie A, ma Zac, trovato l’incantesimo, non ha tempo né voglia di concedere spazio (e prendersi rischi) a giovani e sperimentazioni di varia natura. E seconde chance. Per lui non esisto più. Mi cedono. Ho fallito. Che botta, ragazzi! 

Monza. Tra la nebbia. A stento riesco a vedere i miei piedi, tanto è fitta! I miei piedi…che fine hanno fatto, dov’è finita quella grazia che li accompagnava?! E’ la serie B. Inizio con mister Radice e chiudo con mister Frosio, in mezzo c’è spazio anche per mister Bolchi. 6 occhi e nessuno che guarda me. Mi incupisco sempre più. Mia moglie sparita. Mio figlio idem. Non ho notizie da mesi. Non vedo vie d’uscita, poi con questa nebbia…che vuoi vedere?! Sto sempre solo. Certo, mi alleno ma non gioco nemmeno un minuto. Sto per fare le valigie, ma il Monza mi tiene ancora un anno. La nebbia aumenta. La disperazione pure. Mi convocano spesso, ma il campo lo vedo appena 5 volte e mai da titolare. Prestazioni sottotono. Mi lascio definitivamente andare. Ma almeno torno in Francia: il Monza mi gira al Milan che mi gira al Tolosa 

Tolosa. Non c’è molto da dire. Sono ritornato in Francia per cercare mia moglie e mio figlio, ma di me non ne vogliono sapere. Gioco pochi minuti. La luce è lontana. Vado via. Ripartire dalla Scozia. 

Dundee. Cosa trovo? Ovviamente freddo e pioggia. Pioggia e freddo. Fuori e dentro me. Solo, 7 partite. Nulla da dichiarare all’aeroporto. Direzione? Indonesia!

Malang. Solo il nome rispecchia come mi sento. La squadra si chiama Persema. Mai sentita. Ma pagano. Poco, ma pagano. Ho giocato con Zidane, contro Baresi, calcato il campo della serie A…e mi ritrovo a 29 anni a scontrarmi contro tizi dai nomi impronunciabili: Nugroho, Rusdiana, Munawar…Un campionato ai limiti del dilettantismo. Merito questo? Forse sì. Qui almeno fa caldo, tanto caldo, troppo caldo. E c’è un mare di gente che parla una lingua a me del tutto ignota. La solitudine rimane, inalterata. Torno al gol. Gioco due partite. Ormai sono un ex giocatore. Meglio lasciare. 

Domont. Porte di Parigi. Banlieu, insomma. Freddo, freddissimo. E’ gennaio. Mi aggiro per il mercato rionale. Qualcuno mi offre un caffè caldo, qualche ortaggio, del pane e ogni tanto qualche sorriso. In fondo alla strada, sì quella che porta fuori dal paese, c’è un container abbandonato. La mia casa, qualche coperta, un fornellino e i pochi spiccioli che racimolo elemosinandoli ai passanti che ne hanno pochi di più. Indosso quel che trovo, mi lavo dove posso, mangio quando vogliono…quelli che mi danno due soldi all’angolo della strada. In Francia li chiamano “clochard”. Io sono uno di loro. Invisibile fra gli invisibili. Fantasma fra i fantasmi. Io, che il mio nome veniva annunciato dagli altoparlanti degli stadi europei. Io, che il mio nome è andato sui cartellini degli arbitri e negli archivi dei giornali sportivi più importanti del pianeta. Io sono questo ora. Com’è successo? Perché è successo? Dov’è Zizou? E Dugarry? Freddo, fa freddo, troppo freddo. Non la reggo più questa vita, questa storia, questo freddo…il container è completamente ghiacciato e la fiammella del piccolo fuoco acceso con due legnetti si sta spegnendo. Basta. Finisce qui. Triplice fischio. Buio. 

….

Joachim Fernandez verrà trovato cadavere il 19 gennaio del 2016. Morto assiderato. Viveva da senzatetto ormai da anni. In paese era conosciuto come il classico barbone che non dà fastidio, sempre buono, anche se solo e taciturno. Come aveva vissuto. La sua salma è stata rimpatriata pochi giorni dopo. 
In Senegal.

Claudio Marengo