La partita fantasma

di Aldo Quaglierini

Una partita fantasma, tra soldati golpisti, un avversario che non c'è, in uno stadio dove fino a poco prima si ammassavano i prigionieri politici, il rimorso di non essersi ribellato: ci sono pagine dimenticate, nascoste e sovrastate dai grandi eventi che cambiano il corso della storia. Sono solo frammenti, briciole, schegge di vita vissuta, minuscoli dettagli a guardar bene, che però ultimano le linee tracciate dai grandi racconti e ne completano il senso e il significato. Succede così, che il colpo di Stato in Cile nel 1973 sia stato raccontato in mille modi dai cronisti allora presenti, visto dalle foto e dai rari balbettanti filmanti, seguito dai tanti casi personali di arresti, torture, deportazioni, talvolta miracolose fughe o coraggiose ribellioni. Molte altre vicende personali, ma con un grande significato umano e politico, sono rimaste schiacciate e non hanno avuto la fortuna di emergere dalla nebbia.Tra queste, esce adesso la vicenda di un giovane calciatore che, a tanti anni di distanza, ha trovato il coraggio di narrare la sua storia di cui, in un primo momento, si parlò sui giornali (soprattutto di sinistra) e che poi finì, in breve, ricoperta dalla polvere della dimenticanza. 

Francisco "Chamaco" Valdés
È una specie di confessione la sua, rivolta idealmente a Pablo Neruda, il grande poeta cileno morto alcuni giorni dopo il golpe di Pinochet, il cui funerale divenne un modo per protestare pubblicamente contro l'esercito, non avendo i soldati il coraggio di intervenire e reprimere l'omaggio pubblico ad una personalità letteraria di grandezza mondiale (premio nobel nel ‘71) come quella. Una confessione, sì, perché l'allora capitano della nazionale cilena, Francisco Valdes, ammette la propria debolezza, la codardia (così la chiama) che gli impedì di ribellarsi all'offerta che gli venne presentata in quelle ore, in quei giorni. Così, qualcuno forse si ricorderà, che due mesi dopo quella tragedia, a Santiago si doveva disputare una partita di qualificazione dei Mondiali di Germania ‘74, e il caso volle che la nazionale ospite fosse l'Unione Sovietica. 

Naturalmente scoppiò un caso diplomatico-politico dato che l'Urss rifiutò di giocare nello stadio in cui fino a pochi giorni prima erano stati tenuti prigionieri antifascisti, democratici, militanti e simpatizzanti di Unidad Popular arrestati durante il golpe e poi avviati ai campi di concentramento o torturati e uccisi sul posto. La richiesta di spostamento della gara fu rifiutata dalla Fifa (e anche qui sorsero polemiche violente poiché si parlò di un atteggiamento morbido nei confronti della federazione calcio cilena) e in definitiva, confermando l'appuntamento del 21 novembre 1973 come data della sfida Cile-Urss. I russi si opposero e rifiutarono di inviare la squadra, la vittoria a tavolino fu assegnata dalla Fifa al Cile, ma il regime voleva comunque giocare la partita, puntando sulla retorica nazionalista e patriottarda e pensò così di organizzare una manifestazione sempre allo stadio Nacional: i giocatori cileni furono chiamati ad una farsa vergognosa scendendo in campo contro una squadra inesistente: undici giocatori furono indotti a schierarsi, con il pubblico a riempire le gradinate (appena liberate dai prigionieri) e i soldati a controllare i bordi del campo. L'arbitrò fischiò l'inizio, i giocatori si passarono la palla, avanzarono, scesero in profondità, si avvicinarono alla porta avversaria. Nessuno andò loro incontro. La palla finì tra i piedi del capitano che, a porta vuota, segnò un simbolico, squallido e inutile gol. Il cartellone elettrico segnò: Cile 1, Urss 0. Tutto questo ruotò intorno al capitano del Cile, Francisco Valdes. 

«Pochi istanti prima di andare in campo - racconta il cinquantenne Valdes - il presidente della federazione cilena scese negli spogliatoi e disse: "Francisco, sei il capitano, il gol devi farlo tu". Stavo diventando un simbolo non sportivo ma politico, perché la partita era politica. Pinochet voleva dimostrare la sua forza contro il mondo che condannava la sua violenza. Segnai quasi senza accorgermene e scappai negli spogliatoi, tra il frastuono delle trombe e l'urlo dei tifosi. Vomitai. Venne l'allenatore, mi chiese se stavo bene. Dovevo tornare in campo, perché dopo la farsa, il regime aveva organizzato una partita amichevole contro il Santos. "Non ce la faccio - dissi - mi sento male"». Il rimpianto per non essersi ribellato a quella farsa, viene ingigantito dalla storia personale di Valdes, ragazzo, allora, che si interessava di politica. «Mio padre Eduardo, che era morto qualche anno prima, aveva fatto l'operaio tutta la vita e si era rovinato a forza di lavorare. Dieci, dodici ore al giorno e pochi soldi alla fine del mese. Mi diceva sempre: "Paco, voi giovani dovete cambiarlo questo sistema". Volle a tutti i costi che restassi a scuola, anche se ci sarebbe stato bisogno di un altro stipendio a casa». 

Immagine del funerale di Pablo Neruda
Così, la lettera prende la forma di confessione a Neruda ricordando che il giorno del suo funerale (il 23 settembre ‘73) «c'ero anch'io lì. Eravamo in trecento, vidi la sua casa di via Marques de la Plata distrutta dalla crudeltà dei militari che volevano sotterrare per sempre la sua presenza. Stavo nascosto in mezzo alla folla. Qualcuno gridò il suo nome, un'altra voce rispose forte "presente", tutti gridarono presente. Poi si gridò il nome di Salvador Allende e quel nome gelò la folla. I soldati ci squadrarono, ebbi paura. Restai lì dov'ero, un po' nascosto, vigliaccamente nascosto. Quando tornai a casa piansi. Pensai a mio padre e mi rimproverai di non aver avuto il coraggio di gridare "presente". Non ce l'avevo fatta, così come non ce la feci quel giorno allo stadio di Santiago». 

A rileggere oggi questo racconto, viene da domandarsi che cosa potesse fare allora il giovane Valdes. Ribellarsi, forse con un gesto simbolico tanto forte quanto praticamente inutile (perché sicuramente non sarebbe stato divulgato) a restituire dignità ad una nazionale schiava di un regime fascista. In certe situazioni, anche i piccoli gesti servono, certo, ma forse ha più forza la bella e ricca pagina di umanità che ci ha regalato trent'anni dopo un ex giocatore, stretto tra il rimorso e l'amore della poesia di Neruda e della libertà. 

Ps: dopo la gara farsa, il Santos (senza Pelè) strapazzò il Cile 5-0.

"L'Unità", 21 novembre 2003 

Il samurai che non legge Mishima

di Giancarlo Dotto

Il 6 maggio 2001, allo Stadio delle Alpi di Torino, Juventus e Roma si contesero lo scudetto di quella stagione in una partita decisiva [vedila nella Cineteca]. Erano gli anni in cui in Serie A scendevano in campo ordinariamente grandi giocatori e campioni come Van der Sar, Ferrara, Montero, Zambrotta, Davids, Zidane, Inzaghi, Del Piero, Conte, Zebina, Samuel, Aldair, Cafu, Tommasi, Totti, Batistuta, Montella, e sedevano in panchina nientemeno che un giovane Ancelotti e un maturo Capello. Sotto di due gol alla mezz'ora della ripresa quest'ultimo sostituì un'opaco Francesco Totti con Hidetoshi Nakata, la star del calcio nipponico di quegli anni, e tuttora il migliore giocatore di sempre del Sol Levante. L'attaccante giapponese trovò subito il gol con un gran tiro da lontano e propiziò il pareggio di Vincenzo Montella nei minuti di recupero. Per la Roma, quel pareggio fu fondamentale per la vittoria del titolo. Nella città eterna, i romanisti scoprirono all'improvviso le qualità di un campione esemplare che - come rilevò Giancarlo Dotto - avevano sottovalutato oltre misura, senza comprenderne carattere e personalità.

Sono pazzi questi romanisti. Hanno un fenomeno in casa e se ne accorgono un anno e mezzo dopo, solo perché Capello sfodera uno dei suoi lampi luciferini a mezz’ora esatta dal baratro. Fuori Totti e dentro Nakata. Ci vogliono palle di toro e certa bieca fiducia nel proprio stellone per sfrattare dalla partita dello scudetto l’Intoccabile e sostituirlo con l’Indecifrabile. Mezz’ora dopo eccoli, Nakata eroe, Roma in estasi, i tifosi, già in strada, a solfeggiare sguaiati e beati tutta la notte il trisillabo giapponese fino a domenica sera ignorato. Qualche chilometro più in là, a Est, sul Pacifico, edizioni speciali sparano i primi titoli, tra melò ed enfasi. "La nostra star non è più triste ora che ha cambiato la storia".

Ragazzo veloce di pensiero e capace di grande sintesi, Hidetoshi Nakata. Gli è bastata quella mezz’ora per lasciare un segno probabilmente definitivo nel campionato della Roma. Due imprese. La seconda in società con Montella. Prima di lui il più flaccido Pupone di sempre si era trascinato per un’ora come una damigiana stressata a cui avevano spillato l’ultima goccia di vino. Il sorriso di mister Hide al momento di entrare in campo era sembrato incomprensibile. Inadeguato all’incubo del momento. Era invece la maestosa serenità di un ragazzo che si consegnava alla sfida. Che coglieva la fragola sul precipizio del racconto zen. Due colpi e due imprese. Il massimo indispensabile. Non c’era tempo per altro. Al suo confronto, l’inespressività un po’ gnocca di Totti che, all’atto di uscire, si lasciava scappare l’unico telegenico tic di ravvivarsi i capelli e sfilarsi la fascia di capitano mai così disattesa.

E ora sbracano le cronache. Infuria il colore. Hide che va in discoteca, mangia spaghetti, gli piace tirare ai piattelli, non sa nulla di politica e preferisce lo shopping ai ruderi, via Condotti ai Fori Imperiali. Paccottiglia che non dice l’essenziale. Nakata è un ragazzo moderno, laico, cibernetico, distante dalla tradizione dei suoi avi, che probabilmente non legge Mishima e le sue lezioni spirituali per giovani samurai. Ma il più occidentale degli orientali resta comunque sempre troppo a oriente per risultare comprensibile a occidente. Mister Hide va in discoteca e fa lo shopping, ma gli resta dentro come una radice millenaria la regola del samurai, il rispetto dell’impegno e della parola data. I tifosi latini vorrebbero vederlo esagitarsi e sbracciarsi dopo un gol a Torino, non capendo che la sua passione è nella disciplina. Gli è bastato un gesto per rianimare la Roma.

Fenomeno più volte sprecato e confinato nelle cronache del folclore. Tra costume e marketing. Raccontato più come un investimento che come l’acquisto di un calciatore di raro talento. Per via di tutto quanto induce dal Sol Levante. L’ex studente di economia presentato come una multinazionale viaggiante, una miniera d’oro, tra sponsorizzazione, diritti televisivi, il merchandising che va a mille per il feticismo nipponico che non sa fare a meno di una stoffa o una foto. E l’indotto turistico. Mai visti tanti giapponesi svernare tra Assisi e Perugia in attesa della domenica in tribuna e poi a Roma.

Fin troppo fuorviata la sua qualità di calciatore. Eccezionale. Di più. "Nato per giocare al calcio", mi confidava Castagner, allora tecnico del Perugia. "Ha un modo speciale, unico, di far arrivare palla al compagno sul pelo dell’erba. Un senso innato della profondità e la precognizione dei fuoriclasse. Sa già dove destinare la palla prima ancora che gli passi per i piedi". Me ne parla oggi ammirato Emerson, suo compagno alla Roma, un brasiliano di stoffa tedesca, tutto campo e calcio. "È impressionante vederlo allenarsi. Il primo a scendere in campo, l’ultimo ad andarsene, anche quando sapeva di dover finire in tribuna". "Sono pagato per questo", replica lui a chi sbalordisce con geometrica semplicità, schiudendo appena le sue fessure di serpente a sangue freddo.

Testa di prim’ordine. Cantano i fatti. In Giappone era popolare come Ronaldo. Idolatrato. Vincitore del Pallone d’oro asiatico, per capirci. Stella della Nazionale. Accetta la sfida. L’Italia. Non senza aver prima studiato da cima a fondo in videocassetta i movimenti di Baggio. Passa dalla ipertecnologica follia di Tokyo e la protezione di mamma Setzuko alle rustiche atmosfere di un paesone come Perugia, dove si presenta comunque affibbiando due pappine indovinate a chi? Alla Juve, naturalmente. Non basta. Incanta Perugia, non fa in tempo a integrarsi che si lascia deportare da Gaucci, rapido a nasare con Sensi l’affare della vita. A Roma gli capita l’esperienza fin lì inedita di essere uno dei tanti, anzi uno dei meno, l’inaudita pretesa di soffiare il posto al Pupillo di Porta Metronia.

Nel frattempo mister 50 miliardi impara alla perfezione l’italiano, che dispensa a pochi privilegiati, per la sua discrezione ormai leggendaria e garantita da un contratto che lo preserva dal rischio di dividere la camera con un compagno. Passa l’inverno tra tribuna e panchina e mai una polemica. La Corte Federale lo grazia e lui, in mancanza di piattelli, si mette a impallinare quell’anima lunga e da domenica molto infelice di Van der Sar. Da extracomunitario a extraterreno. Da qui a un mese esultare, per mister Hide, non sarà solo un dovere.

"Rigore", II, n°19, 11 maggio 2001

Gol e furore

Sono le idi di marzo del 1970, è in programma la nona di ritorno del campionato di Serie A, e tutti sanno che sarà la giornata decisiva. In cartellone c'è il big-match, la grande sfida, prima e seconda in classifica, due soli punti a dividerle. Si gioca al Comunale di Torino. Juventus (32 punti) contro Cagliari (34). L'attesa è enorme. Stadio esaurito e record d'incasso. La RAI programma addirittura la differita integrale del match (all'epoca veniva trasmessa la 'cronaca registrata' di un solo tempo, nel tardo pomeriggio, e non si sapeva mai prima di quale partita), poi gli operatori della sede di Torino improvvisano uno sciopero last minute e i previsti venti milioni di telespettatori dovranno accontentarsi del primo tempo ... 
Giovanni Arpino racconta, per i lettori de "La Stampa", la partita di Gigi Riva.


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Talvolta anche il critico di sport ha il diritto-dovere di «caricarsi» in vista d'un avvenimento eccezionale: per questo ero allo stadio poco dopo le 13. Gli ultimi giocatori cagliaritani trottavano dal pullman agli spogliatoi, tra una doppia fila di tifosi. «Riva, non durerai quanto Sivori», si è sentito dire. «Nené, noi preferiamo Cuccureddu», faceva eco. «Ma chi sarà mai questo vostro Furino?», ribattevano in cadenza sarda. Le schermaglie tipiche, che però acquistano un gusto, un senso speciali data la giornata, il «peso» dell'incontro. Schermaglie alla Cassius Clay, con i toni roboanti delle parole che vogliono dar forza a intime convinzioni. 
Ore 13,15: il campo è già pavesato a festa, la grande sagra sembra ancora lontana ma l'atmasfera è elettrica e insieme commovente. Sono raddoppiate persino le insegne pubblicitarie, si può leggere, qua e là, un «Cagliari club numero Uno» e persino un «Juventus club di Belluno». E' un grande giorno di smemoratezza, i tifosi «sentono» che qualcosa dovrà accadere.
 Alle 13,50 una «carrellata» della radiotelevisione svizzera fa sprizzare migliaia di bandiere. Alle 14,16 entrano in campo due bambini in maglia bianconera e giocherellano col pallone su cosce e ginocchi come due foche ammaestrate. E' diventata rauca persino la voce che al microfono reclamizza film, rasoi, compagnie teatrali. Ore 15: una tromba da corrida dà il «via» e si alza un urlo che potrebbe essere registrato per un eventuale Diluvio Universale, regista Fellini. 
Ed è subito Riva. Si presenta al settimo. Deve battere un tiro di punizione. Una fucilata, respinta dalla barriera ma lui immediatamente recupera il pallone che rispedisce come una folgore poco a lato di Anzolin. Quattro minuti dopo, lanciato in terribile proiezione, salta due avversari e gli viene impedito il cross all'ultimo momento. Al 15' è in difesa. Al 20' un urlo sollecita il pubblico bianconero: Salvadore porta via pulitissimamente il pallone al goleador. E' un onore da riconoscere subito. Dieci minuti dopo, altra punizione: riceve la palla toccata da Greatti e fa partire un bolide pauroso. Ma attenti: trenta secondi dopo è già nella sua area a difendere, su incursione dei bianconeri. Ha una pausa. Fino al 43': quando, da terra, in ginocchio per una carica, riesce egualmente a deviare un pallone e a ottenere un calcio d'angolo. Troppo poco per lui, che infatti si gratta il cranio, insoddisfatto malgrado il terrore che sparge in giro. Tra il 44' e il 45' devia un pallone su Anzolin che lo butta in angolo. E subito dopo pareggia. Testata da un calcio d'angolo ed è rete. Tutti si domandano: come hanno fatto a non «marcarlo»? Ma Riva è questo: all'appuntamento col pallone arriva una frazione prima di ogni altro. La sua rete spegne l'applauso rituale dei tifosi bianconeri a fine tempo. 
E rieccolo al primo minuto del secondo tempo, subito in fuga tra tre avversari, con uno slancio e un dinamismo unici. Ma al 4' sbuccia un buon pallone in area, al 5' commette fallo a difesa abbattendo Cuccureddu, al 9' spara ma da troppo lontano su Anzolin, all'11' ha un'ottima palla da Gori ma manca il controllo per eccesso di velocità. Si ripresenta in pieno al 14': forza (è l'unico verbo adatto) due avversari convergenti e riesce a sparare il sinistro: esterno della rete. Ecco il rigore contro il Cagliari. Esulta per Albertosi dopo che ha parato il primo tiro, passeggia tra il dischetto e la rete prima che venga ripetuta la massima punizione, e sembra davvero l'atleta che ha tutto il destino contro, e anche gli dei. Forse il nervosismo gli sta rodendo il fegato, dopo il secondo gol juventino. Al 30' fa esplodere una punizione che Anzolin devia, subito dopo svirgola in area bianconera un ottimo pallone. La carica psicologica potrebbe tradirlo, a questo punto. Ma su un corner lo si vede reggere come un paletto un'intera vigna di difensori bianconeri che lo assediano. E' il «suo» rigore. Basso e a segno. E fino al termine seguita a combattere, con scatti rabbiosi, con slanci persino fallosi per generosità e orgoglio.
E' finita. Esce lentamente. La sua giornata l'ha fatto vedere a tutti grande e temibile e generoso. Chi aspettava il guerriero ha avuto modo di conoscerlo. Chi pretendeva i gol, li ha visti. Chi non lo credeva leone, taccia per sempre. Amici: cosa diremmo di lui, del suo football essenziale e fortissimo, se lo vedessimo giocare nel Manchester o nel vecchio Real Madrid? 

"La Stampa", 16 marzo 1970, p. 7

Que viva Riva!


L'addio alla verde erba dei prati di Gigi Riva arrivò, non inatteso, il 9 aprile 1977. Su "La Stampa" del 10, di domenica, comparve il saluto di Giovanni Arpino



Que viva Riva! Salutiamolo alla messicana, visto che Gigi da Cagliari, Gigi da Leggiuno, insomma Giggirrivva, «bomber» massimo, rombo di tuono, «espada» del calcio azzurro, etc. etc. (durano più gli aggettivi che non l'esistenza) ha deciso di «lasciare». Salutiamolo alla messicana, perché proprio in Messico, sette anni fa, tra Pueblo e Toluca, il «goleador» patì una stagione difficilissima, contraddittoria, con lampi di potenza atletica ineguagliabile e smarrimenti di ogni genere, dettati dall'altitudine, il carattere, l'eccesso di responsabilità, l'insonnia. 
Con sana sobrietà provinciale, Gigi dice addio al pallone giocato. Recentemente ha parlato di sé come «figura dirigenziale» ma senza nascondere dubbi, attriti societari, perplessità, e senza il can-can prodotto da altri celebri «colleghi» suoi, così astuti nel rimestare le carte dei loro club. 
Va in pantofole l'ultimo autentico «eroe» della pedata patria: un uomo che galoppava verso l'area avversaria puntando gomiti d'acciaio nelle costole altrui (è il mestiere) trascinandosi sulle spalle almeno due marcatori, aggredendo l'aria. I suoi gol — basterebbe rivederli in sequenza rallentata - furono un prodigio di coordinazione e coraggio, di furia muscolare e di ispirazione, parola sacra che usiamo senza alcun falso pudore. 
Due volte sacrificò le ossa alla pelota azzurra. Mai si lamentò. Non fece una piega nemmeno dopo l'ultimo, sciagurato «mondiale» a Stoccarda, dove solo la miopia tecnico-tattica dei «capataz» poteva impiegare un Riva ridotto a larva del guerriero che fu. Fedelmente, passò dalla A alla B, senza esitazioni. Accolse il tributo sardo come una culla del destino, senza smancerie e mai tradendo. 
Que viva Riva!, perché è un uomo prima ancora d'essere stato un grande «esecutore» di gol. Mai una parola spropositata, mai un giudizio non misurato (e strappatogli a furor di domande: essere taciturni è ancora una virtù in questo paese di ciarloni). Auguriamo al signor Luigi Riva una vita felice: se la merita. Lui sa benissimo cosa significhi essere assalito da centinaia di tifosi, sempre: a tavola, al cinema, persino a letto. Il tempo di pace che ora gli tocca sia dunque familiare, disteso, grande. 
Davvero non avremmo voluto vederlo stentare sulla gramigna d'un campo, lui che fu fulmine vendicatore. Ha scelto d'appendere le scarpacce con il solito tono ritroso, pudico. Sa, come tutti i guerrieri di razza, che è ora di chiudersi nella tenda. A tutti noi, una considerazione (che è anche un verso famoso). Tarderà molto a nascere, sempreché nasca, uno che gli somigli.

"La Stampa", 10 aprile 1977, p. 18.