Santi Giorni

Football Miscellany

Ne sta arrivando un'altra. Più dolce. L’ennesima onda che bacia di mistero la riva. Ti viene voglia di bagnarti i piedi, di toglierti le scarpe, di farti accarezzare da quell’acqua gelida. Ti viene voglia di chiudere gli occhi, di non sentire più i rumori del porto, le urla dei gabbiani, il mormorio sommesso di gente che passa distratta intorno a te. Percezione di fantasmi. Quelli partiti e non più tornati. Quelli non più trovati. Quelli che a bordo di un enorme transatlantico nero partito da qui, dovevano arrivare a New York e invece il 14 aprile 1912, a 400 miglia a sudest della costa canadese, persero la vita nello scontro contro un enorme iceberg.

La vedetta Frederick Fleet lo vide solo quando era ormai a 500 metri di distanza...
“Iceberg di prua, signore!”
Il primo ufficiale William Murdoch ordinò:
“Tutto a dritta. Indietro a tutta forza..”
La repentina virata a sinistra si rivelò inutile. Trentasette secondi dopo l’avvistamento avvenne l’urto a prua, sulla fiancata destra della nave, sei dei sedici compartimenti stagni rimarranno danneggiati, l’acqua incominciò a filtrare nella nave. Le vittime furono 1517.

Un dramma, ma cosa puoi fare contro il destino? Casomai resta da decidere di cosa abbiamo bisogno. Di sogni o di certezze? Forse di entrambe le cose. Forse è vero che serve un briciolo di sana follia per creare qualcosa che valga la pena essere ricordata. Southampton ci ammaliava con qualcosa di particolare, di vagamente incomprensibile, se si ritiene le geometria applicata all’architettura un qualcosa di simmetrico e socialista.
Il Dell era tutto e di più. Era barocco.
Il Dell era quello che volevi per affermare l’unicità di un luogo e di un culto.
ll Dell era lo stadio dei santi, quelli che ora giocano sulle rive dell’Itchen, cercando la spiritualità delle origini ma che ormai di santità ne hanno sempre meno, come tutti.
Il Dell è stato il primo stadio ad avere installato un impianto d’illuminazione permanente, ed è stato la casa del Southampton FC per 103 anni.



Freddo. Usciamo da quest’acqua che nemmeno lei è più la stessa.

Il Dell con la sua tribuna obliqua. Uno degli ultimi satrapi a cui le concubine del calcio inglese si sono concesse. Investito, abbattuto da un complesso residenziale dove, in un coraggioso gesto di memoria, gli inquilini hanno fatto incidere accanto alle loro porte d’appartamento nomi che si perdono nel vento ma che il vento nel suo ciclo di eterno ritorno fa annusare ancora. C’è anche un Dio. In ginocchio, miscredenti.

Mattew Le Tissier da Guernsey. Troppo francese quel nome. Troppo vicine quelle coste. E lui risente tutti i difetti secolari di Versailles. Aristocratico, elegante, indolente. Eppure un genio, anzi un talento perché il genio fa quello che può mentre il talento fa quello che vuole. Il primo centrocampista a segnare 100 gol in Premier League. Non è l’unico nome. Provate a suonare i campanelli a Bobby Stokes, Ted Bates, Danny Wallace o a Mick Channon. Non vi apriranno loro, tuttavia qualcuno disposto a raccontarvi della sua fede nei “Saints” lo troverete di sicuro.

Vi diranno di un curato che fondò il St. Mary Church young men's (abbreviato in "YMA St Mary") che poi divenne semplicemente S. FC of Mary nel 1887-1888, prima di adottare il nome di Southampton St. Mary finché, nel 1897, fu ribattezzato semplicemente Southampton FC. Ma sì, come no. Vi diranno anche che quel giorno faceva un gran caldo. Un’ondata di caldo anomalo che nel 1976 aveva colpito l’Inghilterra. Inconsueto come quel vinile di Jasper Carrott chiamato “Carrott in Notts” che accompagnò il Southampton a Wembley per la finale di FA Cup. Era il primo di maggio e la città era vuota. Letteralmente. Tutti a Londra. O tutti davanti alla TV. A colori o in bianco e nero. Anzi in bianco e rosso. La squadra allenata da Lawrie McMenemy la stava per combinare grossa. McMenemy era uno del nord, di Gateshead, specchio fedele della Newcastle che si affaccia sul Tyne. Aveva il naso grosso e un sorriso accennato. Veniva dal Grimsby Town dove si era aggiudicato un campionato. Al vecchio Dell troverà un club di seconda Divisione formato da un gruppo non giovanissimo. Eppure il destino aveva in serbo un regalo: quella coppa d’argento, posata sul palco reale davanti alla Regina Elisabetta. Lucente, come le maglie gialle indossate quel giorno dai Santi.

Il Manchester United aveva il dente avvelenato. L’infausta retrocessione patita due anni prima, e per ironia della sorte dettata dall’ex Dennis Law davanti ai muri piangenti del tempio di Old Trafford andava vendicata con una grande vittoria. Tommy Docherty, manager scozzese dei Red Devils, lo sapeva, e non doveva sbagliare.

Centomila. Ian Turner portiere del Southampton, lì vede. Non è un miraggio. E allora si esalta. Quando l’orologio nei primi venti minuti decide di non scorrere il santo è solo lui. Para tutto, gioca la partita della sua vita e infonde fiducia alla squadra. Qualcuno alla BBC disse che il risultato non poteva essere che in doppia cifra a favore di quelli di Manchester.

Oracoli cattivi e falsi.

Quando il bus del Southampton era penetrato a fatica fra due ali di tifosi entusiasti nel cuore di Wembley, il mezzo aveva involontariamente colpito uno spettatore e tutti i giocatori si erano molto preoccupati quando entrarono negli spogliatoi. Peter Rodrigues, il capitano, non era affatto tranquillo. Tornò in strada. Chiese informazioni. Lo rassicurarono, tutto a posto, il ragazzo stava bene. Solo allora indossò la maglia, la fascia di capitano ed entrò nella luce abbagliante del campo. E come tutti i capitani ha qualche ferita. Nel fisico e nel cuore. Si riconosceva subito. Inconfondibile quel gallese. Il capello brizzolato, un leggero riporto e gli occhi azzurri sopra baffi da ufficiale di frontiera.

Mike Channon gli si avvicinò durante la rituale presentazione alle autorità. Channon era un capelluto centrocampista appassionato di cavalli ... Gli disse che non avrebbe scommesso un penny sulla vittoria, ma chi lo farà in fondo avrà fatto bene. Si trattava del classico ossimoro da ippodromo, da chi non dice di aver giocato un brocco 20 contro 1 finché non vince e dimostra a tutti la sua competenza.

In quella squadra c’era anche “Ossie”, Peter Osgood, lo stravagante ex Chelsea approdato a Southampton due stagioni prima. C’era soprattutto l’autore della rete decisiva. Un diagonale bello e preciso, tagliente come una lama nel burro: Bobby Stokes.


Quando ormai la partita si stava incanalando verso un pareggio, il versatile Jimmy McCalliog servì Stokes sulla linea di confine e la palla finì dietro Alex Stepney nell'angolo più lontano, dove le vecchie reti di Wembley si facevano ancora più capienti.

A Southampton si festeggiava. Lì, dove tutto si unisce. Fiumi, mari e oceani.

Simone Galeotti

Illusioni e realtà (la Scozia ai mondiali del 1978)

Football Miscellany

Mister Ally MacLeod
La signora MacLeod avrebbe dovuto apparire in primo piano, sorridente e vestita con semplicità. Avrebbe dovuto dire che era la moglie di Ally, l'allenatore di quella invincibile armata del calcio e a quel punto tutte le casalinghe di Scozia, secondo i piani, si sarebbero precipitate a fare acquisti al supermercato. Non si conosce con esattezza la cifra spesa per l’iniziativa pubblicitaria, si sa solamente che quel contratto, dopo il crollo della nazionale ai campionati del Mondo, fu invalidato e la catena di grandi magazzini in questione si rivolse immediatamente ad altri mezzi di seduzione del consumatore.

Nel giorno della partita contro l'Olanda valida per i mondiali del 1978 (ossia la resa dei conti del girone), i parsimoniosi scozzesi oltre ai calcoli sulla qualificazione si misero a fare anche un altro tipo di conti, quantificando quello che sarebbe costato l'eventuale mesto ritorno a casa della loro squadra. Secondo un computo che teneva presente diversi aspetti, il mancato passaggio del turno avrebbe comportato una perdita economica di oltre un milione di sterline.

Dentro la bolla speculativa c’erano gli accordi con la casa automobilistica Chrysler (300 mila sterline per pubblicizzare un nuovo modello attraverso i 22 nazionali), con l'industria discografica capeggiata da Rod Stewart e Andy Cameron (lancio di dischi commemorativi inneggianti al successo nella Coppa del Mondo), e con il settore tessile per via di magliette, camicie e bandiere incensate di vittoria. Qualcuno, probabilmente in malafede, dirà che la privazione finanziaria superò perfino la delusione dei tifosi. Insomma parve che la sconfitta sul campo dovesse passare in secondo piano davanti alla quantità enorme di soldi che velocemente scivolarono via come un ruscello nelle Highlands.

E molti scozzesi, disposti a perdonare le disavventura sportiva, non dimenticarono l'affronto subito dai loro portafogli.

Questo perché quella di Ally MacLeod era stata davvero una spedizione iniziata alla grande fra suoni di cornamuse e canti di trionfo. Il giorno della partenza da Glasgow la squadra al completo sfilò davanti alle tribune stipate ed impazzite di Hampden e i giocatori avevano alzato le braccia, avevano salutato tutti, promettendo di tornare cinti d’alloro.

Il segretario della Federazione, Ernie Walker, aveva portato gli auguri della regina (non a tutti ovviamente graditi), e il presidente Willie Harkness lesse commosso il telegramma del primo ministro Jim Callaghan mentre i giocatori, già sulla scaletta dell'aereo, mostravano le loro facce belle determinate sotto un cielo di piombo. Ally MacLeod, tipo spaccone e fin troppo sanguigno nato ad Ayr, aveva guardato fisso il barbuto capitano Danny McGrain del Celtic, e senza incertezze gli disse: “Danny, sarai il primo a bere nella coppa”.

Ora si capisce benissimo che evidentemente Ally non aveva presente la nuova coppa FIFA presentata quattro anni prima ai mondiali tedeschi, altrimenti si sarebbe reso conto che non si trattava di un modello da poter riempire con dello champagne. Ma al di là di questo banale dettaglio, evidentemente il manager riteneva più o meno sprovvedutamente che gli avversari fossero totalmente alla loro portata.

L'arrivo in Argentina era stato trionfale. Ally MacLeod volle subito ripetere il suo mantra carico di certezze davanti ai giornalisti argentini presenti, stupiti da tanta sicurezza, che subito si precipitarono nelle redazioni a scrivere sui loro giornali cose magnifiche sulla Scozia, inserendola di diritto fra le favorite d’obbligo. D’altra parte, le testate locali promossero una tacita simpatia nei confronti dei blu dovuta in parte al carattere estroverso degli scozzesi, in parte alla volontà polemica di accentuare l’astio e la presa in giro verso l’Inghilterra, colpevole di non essere riuscita a qualificarsi per la fase finale. La giunta militare di Videla, insomma, dimostrando amicizia e comprensione verso gli scozzesi, pensò di ribadire, senza dirlo, la sua avversione al governo di Londra, un insofferenza che poi sfocerà a suo tempo con la guerra per il possesso degli scogli delle isole Falkland o Malvinas.

Turbolenti, insofferenti delle norme, istintivi, poco disposti al sacrificio del silenzio, in breve i ragazzi di MacLeod trasformarono il ritiro in una specie di perenne festa a base di risate e birra. Già alla cerimonia di accreditamento divertirono i presenti per la loro "indomita" resistenza all'alcol; ma fu il campo, nei giorni seguenti, a distruggere ogni chimera di grandezza. Teofilo Cubillas e il suo Perù li presero letteralmente a pallonate demolendone il castello di carte. E’ vero, qualche giustificazione ci sarebbe: la Scozia dovette rinunciare a buona parte della difesa titolare, ai due terzini Willie Donachie e Danny McGrain, e al centrale Gordon McQueen.

La scelte di MacLeod caddero su Stuart Kennedy, Martin Buchan e Kenny Burns. Il talento Graeme Souness restò in panchina per far posto allo stagionato Don Masson (certo, eroe di Liverpool nella partita decisiva per la qualificazione contro il Galles, ma in quel momento obiettivamente fuori forma), escludendo anche il bomber dei Rangers Derek Johnstone che aveva appena chiuso la stagione siglando 41 reti e al quale venne preferito Joe Jordan. Una mossa, quest’ultima, che lasciò molto perplessi, nonostante inizialmente abbia dato buoni frutti visto che al minuto quattordici “lo Squalo” raccolse un passaggio di Bruce Rioch facendo esultare la Tartan Army.
Ma il Perù non era una banda di sprovveduti suonatori di flauto; Cubillas, uno dei reduci di México '70, iniziò a dettare legge mentre sulle fasce Kennedy e Buchan arrancavano maledettamente dietro la frenesia e gli scatti velenosi delle ali Oblitas e Muñante.
Prima dell’intervallo Cueto aveva pareggiato la rete di Jordan e l’incapacità scozzese di prendere le misure ai peruviani apparve preoccupante. Una matassa che MacLeod non seppe sbrogliare. L’inerzia della partita infatti non si modificò, nemmeno la dea bendata si mosse per la Scozia: il colpo di testa di Jordan finì sul palo e il rigore di Masson fu respinto dal “Loco Quiroga”.
A quel punto iniziò lo show di Cubillas e fu notte fonda; doppietta del mago peruviano e 3-1 al fischio finale gli Scozzesi uscirono con il morale sotto i tacchetti e il ricordo dei festeggiamenti dell’Hampden Park evaporò come se fosse lontano intere decadi piuttosto che poche settimane.

In ogni caso qualche simpatia da parte del pubblico MacLeod e compagnia ce l'avevano ancora; vuoi perché l’uomo in kilt è un po' alla stregua di certi personaggi dell’opera che - felicissimo o tristissimo, baciato dalla buona sorte o trafitto dalle avversità -, invece di ridere o piangere, invece di esaltarsi o accasciarsi, canta. “Oh, accidenti come canta bene il tifoso scozzese”: e pure canzoni belle, romantiche con un ideale sottofondo di prati, boschi e di valli risalite da nebbie perenni.

Ma bastò una comunicazione ufficiale della FIFA al medico della squadra, John Fitzsimons, per cancellare la Scozia dal cuore degli argentini. La comunicazione parlava di doping, di sostanze “stimolanti” ingerite da Willie Johnston, ala sinistra del West Bromwich, prima della partita col Perù. Furono ore di tensione, di voci contrastanti, poi il giocatore ammise il suo peccato venendo immediatamente punito dalla federazione che lo bandiva per sempre dalla nazionale.

La tensione si alzò esponenzialmente dopo il magro pareggio con la cenerentola Iran. Alla conferenza stampa l'atmosfera era plumbea, MacLeod tentò di rasserenarla avvicinandosi a un cane e cominciando ad accarezzarlo: "Almeno è rimasto questo cane a volermi bene". La bestia si girò di scatto e lo morse. In patria i sociologi lanciarono grida di allarme parlando di lacerazioni, di immagini da ricostruire, mentre intanto a Mendoza, davanti all'Olanda, la Scozia si preparava a giocare una partita impossibile che a posteriori risultò inutile, perfino triste, una partita che valse soltanto titoli sottotono.

La Scozia aveva bisogno non solo di vincere ma anche di farlo con tre reti di scarto, per accedere alla fase successiva. Un'impresa che apparve disperata contro i fortissimi orange pur privi del faro Cruijff. L’11 di giugno. inaspettatamente, ad un tratto le cose parvero prendere una piega interessante: sul 2-1 per le maglie con il leone rampante rosso, Archie Gemmill si costruì un fantastico goal accendendo candele nelle case scozzesi come nella notte di Natale. Ma ogni speranza sarà immediatamente strozzata dalla bordata di Johnny Rep che non lasciò scampo a Alan Rough. Il compito non riuscì, il capolavoro di Gemmill venne immortalato da una ballata scritta dal poeta Alastair Mackie, dal titolo The Nutmeg Suite, ma servì solo a scaldare un po’ i cuori.

Archibald Gemmill

Forse, paradossalmente, l'unico a trarre guadagno da questa avventura ingloriosa sarà proprio il sottile Ally MacLeod. Un quotidiano, lo Scottish Daily Express, gli chiederà di scrivere di suo pugno, ora per ora, il diario dell'umiliazione. Settemila sterline il prezzo pattuito e sembra che un barlume di sorriso gli apparve sotto gli occhi vacui.

Simone Galeotti

La nuova Corea della nazionale

A metà del girone che qualifica per l'europeo di Svezia, l'Italia è virtualmente eliminata. La sconfitta in Norvegia - le trasferte nordiche sono sempre insidiosissime per i nostri a fine campionato: peraltro, il rovescio degli azzurri coincise con un clamoroso zero a sei degli azzurrini contro i baby norvegesi - avvicina all'epilogo l'era di Azeglio Vicini. Gianni Brera assimilò questa disfatta a quella - che fu sempre termine di paragone di ogni nostra brutta figura - contro i nord-coreani del 1966.


Il campionato che si pretende sia il più bello ed è invece il più costoso e dissennato del mondo ha trovato il modo di farsi rappresentare in Norvegia da un piccolo branco di cadaveri neppur tanto eccellenti. Carichi di un carisma già compromesso da loro fino alla vergogna, gli azzurri sono riusciti a mettere subito in evidenza una squadra composta da gente se non altro sana e animata da ammirabile senso agonistico. Norvegia-Italia non ha avuto storia se non per le brutture che sono aggallate verso la fine: 2-1 per loro, l'Italia esce così dagli Europei: è una piccola Corea. I norvegesi si sono subito avventati, sballando le nostre fragili difese come se fossero di carta e soprattutto come se sapessero che erano di carta. Dopo soli 4', il famosissimo Zenga era battuto senza mercè!
L'attesa controffensiva degli azzurri non ha prodotto che disordine e affanno. Un centrocampo fondato sui soli muscoli bruti, per giunta oberati di ruggini vistosamente grevi, non è mai riuscito a fornire un'idea che fosse una, né in attacco né in difesa. Le punte della Sampdoria hanno cercato disperatamente nelle esili riserve a loro disposizione la forza di esprimere quanto purtroppo avevano speso per vincere il campionato: si sono molto agitate a volte commuovendo per l'impotenza che le frenava. I norvegesi crescevano di statura ad ogni azione. Si vedeva che erano freschi e pieni di entusiasmo. Ogni loro schema prendeva avvio in un subisso di applausi festosi. Il viatico della partita era stata purtroppo l'incredibile goleada inferta ai giovani azzurri sull'infausto campo di Tavanger. I tifosi norvegesi erano così arroganti sugli spalti da sfiorare l'insulto. Altro che compostezza nordica, fratelli! In certi momenti si aveva l'impressione di vivere nella più scalcinata e smodata provincia d'Europa. 
I famosi e più pagati pedatori del mondo si mortificavano in entrate e rincorse da mettere vergogna. Il secondo gol norvegese veniva segnato in assolo (al 25') da un'aletta di tutta grinta. A questo punto non si era più vista partita. Il cronista che qui s'ingegna di contenere il proprio dispetto si abbandonava a invettive che rasentavano il dileggio. Parlare adesso di tournée in Scandinavia è abbastanza pretenzioso, per non dire addirittura ridicolo. Da possibili campioni del mondo, siamo stati mediocri e già fortunati terzi nel Novanta; adesso, ci siamo preclusi la partecipazione all'europeo che qualche mattocchio straparlava di disputare da doverosi protagonisti (!!). La grande scivolata ha avuto inizio con la mancata vittoria a Budapest; poi, con il pareggio imposto dai sovietici a Roma. Qui, la caduta è stata verticale, clamorosa molto più che non dica l'esiguo risultato numerico. 
Nel secondo tempo i norvegesi hanno giocato una partita esclusivamente tattica: si sono ritratti di proposito invitandoci a concedere loro spazio e noi puntualmente abbiamo abboccato illudendoci di attaccare. Zenga è stato graziato più volte. E' entrato Schillaci al posto di De Napoli, non molto più disastroso di altri, e Lombardo gli ha offerto una difficile palla-gol in cross dalla destra: il piccolo siciliano ha compiuto una vera prodezza incornandola in rete. Era il 34'. L'arbitro olandese, furiosamente beccato all'avvio per i troppi interventi favorevoli agli azzurri, alla lunga si era insospettito che non lo facessero fesso e aveva persino negato un rigore per fallo evidente di Thorstvet su Maldini (13'): ma dopo quell'episodio i norvegesi avevano sciupato gol fatti in contropiede. L'ultima occasione davvero clamorosa l'ha sventata d'un soffio Ferri azzoppandosi malamente. Baresi ha ribattuto palla lontano e Vialli ha porto a Schillaci la palla del possible 2-2: il magnifico goleador dei Mondiali, oggi finito chissà dove, ha sparato con troppa superficialità il sinistro e la palla, ancorché facile, è volata al cielo! 
Infine, si è chiuso con l'ignobile apparizione di Bergomi scaldato a freddo dalla panchina: entrato a sostituire Ferri, dopo soli venti secondi si faceva espellere. Era la farsa che mancava per riportare il nostro amaro dramma al clima di tragicommedia cui sembra ci condanni un destino ahimé inqualificabile. Certo, è colpa nostra. E chi ha colpa è giusto che paghi.

Gianni Brera, La Repubblica, 6 giugno 1991