Il pallottoliere 2012-2013: luglio

Il calcio come specchio della società

Italia - 24 luglio 2012: scontri tra ultras del Como e dell'Inter (legati tribalmente al Varese, "nemico" dei lariani) prima dell'amichevole estiva tra le due squadre: un agente ferito e un comasco, accoltellato, in ospedale. Non è il caldo ad aver dato alla testa.

29 luglio 2012, City of Coventry Stadium, Coventry
Michel Morganella (sulla destra) affronta Kim Bokyung

Svizzera - 30 luglio 2012: il difensore della Svizzera e del Palermo, Michel Morganella, dopo la sconfitta patita dalla Corea del Sud alle Olimpiadi, cinguetta su Twitter: "Vi sfondo tutti coreani, andatevene a bruciare. Ahahah, banda di ritardati mentali". Risposta, sempre su Twitter, di un coreano: "Non ci sono scuse per il razzismo. Sei un cretino". La Federazione svizzera è stata costretta a mandare a casa il connazionale, comunicando che "anche se è stato provocato e se ha chiesto scusa, condanniamo il suo comportamento. Ha leso la dignità di un intero Paese". Un colpo al cerchio e uno alla botte, sport elvetico per eccellenza.

Inghilterra - 30 luglio 2012: il difensore nero del Manchester United Rio Ferdinand ha chiamato "negro bianco" su Twitter Ashley Cole, giocatore di colore del Chelsea, che aveva testimoniato a favore di John Terry, compagno di squadra bianco, nel processo intentato a quest'ultimo per aver rivolto frasi razziste nei confronti del fratello nero di Rio, Anton Ferdinand. Assolto Terry, è ora sotto indagine Rio Ferdinand. Una storia in bianco e nero.

Olimpiadi - 31 luglio 2012: la nazionale femminile del Giappone si è battuta scandalosamente per lo 0:0 contro il Sud Africa per rimanere a giocare a Cardiff il turno successivo. Commento della FIFA: "Non c'è stato accordo tra le squadre". È sempre aperta anche la pasticceria olimpica, asian fusion.

Azor

Cartoline dall'estate 2007

Scritte nell'estate 2007 sono state recapitate solo in questi giorni. Un po' ingiallite, e più cattivelle, ma la loro attualità sta forse nella dissonanza e in quello che il filosofo cinico Arnaldo Forlani descriveva come l'eterno ritorno del sempre uguale
E la chiamano estate
Luciano Gaucci e Saadi Gheddafi
Diciamocelo francamente. In questa estate meno torrida delle precedenti, ci sentiamo un po’ orfani di personaggi che avevano rallegrato la commedia messa in scena dai pallonari italiani negli ultimi anni. Pensiamo alla repentina eclissi di prime donne indimenticabili come Luciano Gaucci, capaci di infiammare le piazze di varie città e di marciare su Roma sfasciando a colpi di TAR i cosiddetti “formati” dei campionati federali della Giuoco Calcio. Ma anche a memorabili scandali, come quello allo zafferano che precipitò a giocare a San lo so io la Fiorentina di Vittorione CG e di Evacuo Felice. Ora che i nuovi proprietari calzaturieri prediligono mangiare bistecche con commensali imbarazzanti tutto sembra invece più rispettabile. Più azzimato, nonostante l’adipe che occhieggia sopra la cintola di Mr. Tod o i mutandoni a stelle e strisce esibiti dall’alter ego milanista di Teo Teocoli sulle spiagge della Versilia.
Siamo entrati infatti nell’epoca perbenista di Giancarlo Abete. Una noia profonda: lunghe omelie mediatiche in cui il Presidente che ha esordito pigliandosi in faccia le trote miliardarie ucraine è capace di dire nulla e il contrario di nulla, cioè niente. E il cui unico fremito è dato dalla spasmodica attesa del responso nazionale del Pupone. Al confronto non può non giganteggiare, nel ricordo, il buon Mario Carraro, la cui vocina da sacrestia sembrava espressione di potere autorevole, e che invece abbiamo appreso che ne mascherava la stizzita impotenza di fronte alla sardonica protervia di certi designatori arbitrali. Eppure capace, l’ex tutto, di designare a sua volta con preveggenza il suo giudice “naturale”, tale Piero Sandulli, un figurante del genere del senatore De Gregorio, e di uscire con tutti gli sconti dal grande mercato della cosiddetta Giustizia sportiva. Un mattatore d’altri tempi, verrebbe da dire, di fronte all’attuale compagnia di giro dagli stanchi copioni, magari anche politicamente corretti, ma che non divertono più. Che nostalgia.
14 luglio 2007

Vot’Antonio
È ammosciato Tonino. Anche lui, in questa estate di bonaccia. Ha perso la verve. Ci eravamo illusi, alla fine dell’estate 2006, che il colpo di teatro della compagnia dei presidenti di rinominarlo, immarcescibile, alla guida Lega calcio potesse ravvivare un ambiente depresso dalla vittoria della Coppa del mondo alzata da un capitano capace di esternare in mondovisione la sua stima per gentiluomini come Luciano Moggi e Antonio Giraudo (e di confermala, anche, dopo puntigliosi distinguo su sollecitazione del Guest Director di allora, Guido Rossi). Il commento attonito di Massimo Moratti (“è un uomo di esperienza”) ci aveva fatto sperare. E le dichiarazioni invernali di Tonino dopo la tragedia di Catania sembravano confermarne la tempra camaleontica, di combattente corazzato per tutte le stagioni. Eppure.
Antonio Matarrese
Eppure anche su di lui sembra essere calata la patina di grigiore che rende irriconoscibile la nuova stagione dello Stabile pallonaro italico. Scialba e smarrita come il parto eterno del Partito democratico. La torta dei diritti televisivi da spartire collettivamente assomiglia a un piatto indigesto. Il braccetto di ferro col presidente Abete sulle date di inizio agostane del campionato non pare più che un dispettuccio. Le schermaglie mediatiche con il brizzolato Commissario Tecnico (“è tanto un bravo ragazzo, ma deve maturare imparando a stare zitto”) poco più di un lazzo. E ben altra cosa rispetto alle memorabili allusioni intimidatorie di Lucianone sul Mancio (“è giovane, si farà, potrà vincere anche lui lo scudetto tra qualche anno”). Ora è anche volato a Zurigo ad abbracciare un suo vecchio sodale: lo stesso che aveva cercato di disarcionare a colpi di dossier qualche anno fa, d’intesa con la stessa vecchia renna svedese che consegnò la Coppa al nostro capitano sotto il cielo di Berlino. Insomma, pare essersi imborghesito anche lui, il nostro Tonino. Non ci resta che imbracciare l’imbuto e incitarlo littoriamente a gran voce nello scrostato cortile del nostro calcio.
21 luglio 2007

Al Pantheon
Non resta che darci anche noi al Pantheon. In un’estate pallonara senza sussulti, senza ricorsi al TAR, senza fidejussioni balcaniche, senza un Chinaglia che scala la Lazio, e dove anche il rinvio a giudizio della stimata compagnia Moggi e Associati assomiglia a un copione già visto. Nemmeno il fremito degli infradito della bella Ministra sui campi bagnati di Coverciano. Nulla. Tutto salmonato, azzimato, perbenista. Tutti che vogliono andare a giocare nell’Inter.
Carmelo Bene
E allora buttiamo giù il nostro piccolo Pantheon. Cominciamo anche noi da una Triade. Quella dei più grandi intellettuali italiani della fine del secolo scorso, autori di vere fratture epistemologiche: Righetto, Carmelo ed Enrico. Del primo ricordo una memorabile amichevole del suo Milan sul prato di Wembley (quello di Hurst, non quello di Pazzini) nell’estate del 1988: una squadra perfetta, sinfonica, senza sbavature, con là davanti un fantastico fenicottero olandese dalle fragili cartilagini. Del secondo ricordo non solo la maestosa, silente e remuneratissima (per lui) direzione della Biennale Teatro, ma anche le comparsate da Biscardi (senza canovaccio, cioè senza la spalla di Davico Bonino) a illuminarsi di Liddas, della Roma e di Falcao. Del terzo ricordo non tanto la “differenza” che ha assunto il nostro immaginario televisivo grazie anche alle sue interurbane in asincrono e in t-shirt bianca, ma l’intervista a Carmelo del 1997 (Il mezzo è l’aria) sull’“immediato” in Romario e su una sua famosa punizione ai mondiali americani del 1994 in cui calciò la palla e si presentò in un attimo a riprendersela di persona dietro alla barriera. Un capolavoro nel gesto e nell’esegesi dei suoi cultori. I tre stanno alla cultura italiana come il Mahabbarata di Peter Brook alla storia del teatro: c’è infatti un prima e un dopo il Milan di Sacchi per il calcio, Bene per il teatro di parola, Ghezzi per la cultura della visione. Con buona pace di chi crede che gli intellettuali siano solo gli Eco, i Tabucchi o chi scrive sul paginone di Repubblica.
28 luglio 2007

Tesoretti
Bernd Schuster
Ce l’hanno tutti. Il tesoretto. Ce l’ha anche Ramon Calderon, un personaggio che promette bene. In grado, se non si imborghesisce anche lui, di rallegrarci un poco nei prossimi anni. Uno capace di vincere lo scudetto dopo annate di vacche magre e di licenziare il giorno dopo l’allenatore, con una buonuscita da 6 milioni di euro. Intendiamoci, non che Mascellone sia il massimo della simpatia, ma è uno capace di vincere: anche il mondiale in Sudafrica. Chi può dimenticare le foto della cena nel dammuso nell’estate memorabile del 2006, quando la Juve era nella tempesta e da Madrid si mosse Predrag Mijatović (di cui, peraltro, ancora veneriamo il gol nella finale di Champions del 1998) per portare Capello al Real? Beh, ora siamo a Schuster, uno di quei tedeschi cui piace più il Mediterraneo delle brume tedesche: uno pertanto che ha tutti i numeri per non vincere nulla. E siamo a Kakà, a Chivu, e ai 28 milioni di euro per un normale difensore centrale portoghese, tale Pepe (ed è curiosa, e tutta nei misteri senza fine, questa epidemia lusitana di marcatori centrali, cominciata in tempi più lontani con quella testa calda di Coutho, e ora dilagante con i vari Carvalho, Andrade e compagnia).
Il tesoretto ce l’ha anche la Juve, ci mancherebbe. Solo che lo gestisce nei modi subalpini compassati e ora anche autocompiaciuti della Torino post fordista: quella del Museo del cinema alla Mole, della festa del libro al Lingotto, del badmington a Pinerolo, per intenderci. Le eredità della Triade non sono solo la serie B e la gioia diffusa di tutta la nazione non bianconera, ma anche una smodata quantità di giocatori in entrata e in uscita: 35 convocati in ritiro, per stare alle cifre. Dunque un tesoretto di famiglia che la nuova dirigenza sembra volere capitalizzare. Con orizzonti diversi rispetto a Madrid: là Pepe qui Andrade, là Kakà qui Tiago, la Chivu qui Criscito. Che poi, in entrambi i casi, tutto ciò serva a vincere lo si vedrà. Il vantaggio, al momento, è che nessuno ha Padoa Schioppa a libro paga.
4 agosto 2007

Memorabile
Il Vecio e Gaetano, tra gli altri
Rileggo le pallonate tirate in precedenza, e colgo una ricorrenza: l’aggettivazione “memorabile”. Provo a capirne i motivi. D’istinto direi che è sintomo di una carenza e di una paura. Ci sembra sempre che alle emozioni attuali manchi qualcosa di comparabile al passato, e abbiamo timore che quelle che abbiamo provato (più numerose forse solo perché accumulate nella memoria) non si ripetano in futuro. Con un amico di comune fede eupallica e di comprovata sapienza calcistica (Mans), il 10 luglio 2006 discettavamo su quale Italia fosse migliore per qualità morali e tecniche: se quella dell’Ottantadue o quella di un quarto di secolo dopo. La mia istintiva propensione andava a quella pilotata dal Vecio: Zoff, Gentile, Cabrini, Oriali, Collovati, Scirea, Conti, Tardelli, Rossi, Antognoni e Graziani. Nomi ormai scolpiti, nella memoria, come quelli dell’Inter di Herrera. Ma è difficile dire, mi si faceva giustamente notare, se Buffon, Zambrotta, Cannavaro, Materazzi, Grosso, Gattuso, Pirlo, De Rossi, Camoranesi, Totti e Toni, e lo stesso Lippi, siano davvero tanto più scarsi. Chi come noi ha la sfortuna di avere ormai l’età per averle viste entrambe, e la fortuna di avere visto vincere la nazionale per due volte nella vita, potrà dire la sua.
Il rifugio nella memoria è però forse anche un segno di poca fiducia in quello che avverrà. E forse è vero. Ma bisognerebbe essere ottimisti sul fatto che il Gran Teatro del Pallone continui a darci in futuro altri Maradona e altri Beckenbauer, altri Cecchi Gori e altri Biscardi. I primi si intravedono da giovani e si seguono con tremore, paventando che sfioriscano: si chiamino Messi o Casiraghi. I secondi, invece, in genere non sono avvistabili a distanza ed erompono all’improvviso. I primi ci deliziano ed esaltano per le gesta, i secondi ci rallegrano per la loro improbabilità da veri freaks che solo il circo del pallone sa accogliere. I primi sono eroi da tragedia, i secondi guitti da commedia. Tutti, però, li portiamo con noi nella memoria.
11 agosto 2007

Gentlemen
Ha cominciato sparato. “Gli altri devono vincere lo scudetto, noi daremo fastidio a tutti”, “essere alla Juve è già essere nella storia, ma non mi accontento, voglio scriverla”, “questa è una grossa Ferrari: essere competitivi è il sogno di tutti”, “lavoreremo senza illusioni, ma sognando”, “la società ha fatto non bene, ma benissimo”. Insomma, il personaggio promette di infarcire di altri bei luoghi comuni anche le settimane pallonare della prossima stagione. Che poi riesca a finalmente a vincere qualcosa in carriera, Claudio Ranieri, è solo una possibilità, non una probabilità. Finalmente però si è alzata un po’ di brezza dai ritiri alpini.
Antonio Giarudo e Riccardo Agricola.
In tribunale
Rimaniamo alle dichiarazioni del raduno festante in cui i Bianconeri si sono presentati sfoggiando il soprannome cromatico su delle belle magliette rosse. I giornali l’hanno chiamata “cordiale nonchalance”: piuttosto, è sembrato anche questo un bel segnale contraddittorio. Come quello lanciato dal nuovo AD savoiardo che ha esternato anche lui che la “nuova” Juventus vuole “prevalere sugli avversari nel rispetto della sua storia: vincere da gentleman”. Difficile credere, però, che si riferisse a gentiluomini come il dottor Agricola, il mago merlino dei tre scudetti farmaceutici della Juve di Lippi, certificati dalle sentenze (si noti, non da mere indagini) dei tribunali della Repubblica. O a milord come il dottor Giraudo e l’ex capostazione Moggi, scelti personalmente dall’Avvocato buonanima per assicurare continuità allo stile della vecchia signora, e ai quali la Juve deve alcuni altri tricolori “vinti" - come si dice - "sul campo”. Nonostante non fossero “smart”, come invece avrebbe voluto il rampollo scapestrato di casa FIAT.
E poi ci si stracciano le vesti perché Massimo Moratti, il presidente della Beneamata, ha valutato miliardi degli onesti ronzini o ha taroccato qualche passaporto: anche così facendo ha continuato a non vincere un tubo per anni, il galantuomo. Altro gentleman, altri risultati. 
18 agosto 2007
Azor

Europa '72

La Deutsche Fußballnationalmannschaft del 1972
Euro storie

L'Europeo del 1972 è forse tra i più evocativi sul piano storico. La fase finale si svolse in Belgio, la cui capitale si avviava a diventare in quegli anni la sede burocratica della nascente Comunità europea. A contendersi il titolo furono due nazioni del blocco orientale, l'URSS e il suo inquieto satellite ungherese, e due nazioni bastione dell'Alleanza atlantica, la Germania ancora dolorosamente divisa e appunto il Belgio, naturale sede geografica di molte agenzie politiche e militari occidentali, a cominciare dalla NATO. A dieci anni dalla cosiddetta crisi missilistica di Cuba, la tensione tra i due blocchi rimaneva alta, e l’Europa ne era il naturale teatro, potenzialmente anche di guerra: solo quattro anni prima, proprio nell’anno dei campionati continentali in Italia, l’invasione militare della Cecoslovacchia aveva messo fine alla “primavera di Praga”, vale a dire alla speranza di una riforma socialista, e di lì a poco il regime guidato da Leonid Brežnev avrebbe deciso un ulteriore riarmo nucleare. Questo era il clima che circondava anche il mondo del calcio.

14 giugno 1972, Stade Émile Versé, Bruxelles
Davanti a pochi intimi si gioca la semifinale d'oltre cortina:
il portiere magiaro István Géczi anticipa in uscita bassa gli attaccanti sovietici

Il pallone e i suoi protagonisti rimasero semmai uno dei pochi canali di contatto pacifico tra nazioni ideologicamente contrapposte e tra le quali i rapporti di scambio di uomini e merci erano sostanzialmente inesistenti, divise com’erano da quella che veniva allora chiamata la “cortina di ferro”. Un’analisi in dettaglio meriterebbe, per esempio, proprio per il significato politico di ponte tenuto aperto, la riesumazione della Coppa Mitropa tra il 1955 e il 1989, un torneo di grande prestigio nel periodo tra le due guerre e riservato poi a squadre di secondo rango di Austria, Cecoslovacchia, Italia, Jugoslavia e Ungheria. Soprattutto da parte degli stati dell'Est fu forte infatti l'investimento, anche propagandistico, nel calcio come più in generale nello sport. Nei giochi olimpici essi potevano fare vantare il loro status “dilettantistico” (che mascherava la realtà della gestione statale dello sport socialista): dal 1952 al 1988 a dominarne i tornei di calcio furono ininterrottamente le nazionali dell’Est (che lasciarono campo a quelle occidentali solo nell’edizione USA del 1984, boicottata per ritorsione politica); pochi mesi dopo l’Europeo del 1972, alle Olimpiadi monacensi il “cappotto’’ fu addirittura completo: prima la Polonia, seconda l’Ungheria, terze a pari merito l’URSS e la Germania Est; qualcosa di inimmaginabile ai giorni nostri. Anche nei tornei continentali per club le squadre dell’Est figurano nei palmarès di quegli anni, come vedremo.

Proiettato sullo scenario della Guerra fredda, il percorso della Germania nel campionato europeo del 1972 appare a sua volta densamente simbolico: per imperscrutabili disegni di Eupalla, la sua nazionale dovette evocare alcune delle tappe più dolorose della sua storia recente. Nel gruppo di qualificazione affrontò la Turchia, da cui proveniva la sua comunità di immigrati più ampia e più problematica in termini di convivenza religiosa e di integrazione dei costumi sociali (una ferita tuttora aperta, come ci ricorda il bel film di Fatih Akin, Gegen die Wand [qui alcune scene]), l’Albania, occupata dai nazisti nel 1943, e la Polonia, la cui invasione nel settembre del 1939 aveva segnato l’inizio della seconda guerra mondiale e che avrebbe inflitto sofferenze indicibili al popolo polacco. Nei quarti, i tedeschi furono accoppiati all'Inghilterra, il loro più fiero e indomito avversario durante il conflitto bellico. Gli avversari finali furono il Belgio, occupato in soli 18 giorni nel maggio 1940 (in un clima di evacuazione descritto vividamente in uno dei romanzi più torbidi di Georges Simenon, Il treno [scheda]), e l’URSS, un totalitarismo dapprima spregiudicatamente alleato, quando si era trattato di spartirsi la Polonia e i paesi dell’Europa orientale, e poi nemico e oggetto dell’Operazione Barbarossa tedesca naufragata nel fallimento dell’assedio terribile di Stalingrado. In breve, in sole dieci partire la Germania dovette riavvolgere la pellicola della propria memoria storica del Novecento: quando i suoi calciatori scendevano in campo il confronto internazionale con gli altri popoli insinuava comunque i suoi spettri.

Una pausa durante gli allenamenti della Germania
nelle fasi di qualificazione del Campionato europeo del 1972:
si riconoscono Günter Netzer, Paul Breitner,
Horst-Dieter Höttges, il CT Helmut Schön e Wolfgang Overath
Ma il dato nuovo fu che la Deutsche Fußballnationalmannschaft parlò un linguaggio inedito, che la povertà lessicale dei media, che rispolverarono per l’ennesima volta la consunta metafora delle Panzerdivisionen, tradiva del tutto: la Germania guidata da Helmut Schön e innervata da una straordinaria genìa di campioni, mostrò invece un calcio intenso, spettacolare, bellissimo. Dopo la positiva partecipazione ai mondiali del Messico del 1970, culminata in una delle partite dalla trama drammaturgica più ricche di tutti i tempi (e che forse non a caso arrise agli eredi della “commedia dell’arte italiana”), la Germania mostrò il meglio di sé nell’Europeo del 1972. Fu quella nazionale a fare da traino alle vittorie delle squadre tedesche nelle competizioni internazionali per club. Dopo l’iniziale predominio del calcio spagnolo e poi di quello italiano, e salva la parentesi olandese, fu finalmente il calcio tedesco a dominare la scena negli anni ’70 (sia pure in condominio con quello inglese): alle dieci finali di Coppa dei campioni tra 1974 e 1983 arrivarono per ben sette volte squadre tedesche, che la vinsero per tre anni consecutivi col Bayern Monaco (1973-1975) e poi con l’Amburgo nel 1983; nello stesso periodo (1973-1982) furono per sei volte finaliste nella Coppa UEFA (con vittorie del Borussia Mönchengladbach nel 1975 e 1979 e dell’Eintracht Frankfurt nel 1980); mentre nella Coppa delle coppe, dopo i fasti del quadriennio 1965-1968 (quattro finaliste consecutive, e titoli al Borussia Dortmund nel 1966 e al Bayern Monaco nel 1967), la partecipazione si contrasse a un minore blasone (Amburgo vincitore nel 1977, Fortuna Düsseldorf finalista nel 1979). Giocatori simbolo di quegli anni furono il “Kaiser” Franz Beckenbauer (Pallone d’oro nel 1972 e nel 1976, d’argento nel 1974 e 1975 e di bronzo già nel 1966) e “Der Bomber” Gerd Müller (Pallone d’oro nel 1970, d’argento nel 1972 e di bronzo nel 1969 e 1973).

A dire il vero, la favorita nei pronostici era l'Italia campione in carica e vice campione del mondo. Ma i "messicani", come si usò chiamare in quegli anni i protagonisti del memorabile mondiale americano (festeggiati, peraltro, da una vergognosa gragnuola di pomodori al patrio riapprodo) avevano ormai imboccato il viale del tramonto senza che si profilassero ricambi alla loro altezza. Vinsero un non esaltante gruppo di qualificazione che li aveva opposti all'Irlanda, alla Svezia e all'Austria, ma naufragarono inopinatamente nei quarti contro il Belgio, una nazionale senza blasone ma vivificata in quel torno di anni da una felice generazione di buoni pedatori, guidati dal capitano Paul Van Himst, un centrocampista di classe e sostanza. I belgi ci misero fuori usando le nostre armi: strenuo catenaccio al San Siro di Milano il 29 aprile 1972, dove Valcareggi ripropose 8/11 della formazione che aveva vinto l'Europeo del 1968 (fatti salvi Albertosi, Bedin e Cera per Zoff, infortunato, Guarnieri e Salvadore) [tabellino], e micidiale contro gioco allo Stade Émile Versé (al Parc Astrid di Anderlecht, uno dei comuni che compongo la grande Bruxelles) quindici giorni dopo, fronte al quale l'afasia della nostra manovra, non sostenuta nemmeno da una condizione atletica decente, nulla poté se non una rabbiosa zompata del mastino Mario Bertini a spezzare la gamba destra di Wilfried van Moer (rea di aver aperto le marcature) e un rigore a pochi minuti dal termine di Gigi Riva con il quale ammainammo tristemente la bandiera sul continente [tabellino | HL].

29 aprile 1972, Wembley Stadium, London
Josef Dieter "Sepp" Maier fa sua la palla anticipando Francis Henry Lee
in uno dei quarti di finale europei più belli di sempre
Negli altri confronti diretti, l'Ungheria fu costretta alla partita di spareggio da una assai coriacea Romania, mentre l'URSS batté nettamente la Jugoslavia raggiungendo per la quarta volta consecutiva le semifinali della competizione. Il grande confronto fu però quello che mise nuovamente di fronte l'Inghilterra alla Germania. Gli antefatti sono noti: gli albionici avevano vinto il loro unico mondiale, in casa, nel 1966, battendo in finale i tedeschi in una bella partita di corsa e agonismo macchiata da un gol fantasma validato da un guardalinee sovietico di sospetta integrità (a dire di mastro Brera). I tedeschi si erano presi la rivincita quattro anni dopo in Messico, estromettendo ai quarti gli inglesi in un avvincente 3:2 risolto da Der Bomber der Nation al 106°. Ma la vera vendetta fu consumata sul pitch di Wembley il 29 aprile 1972 in una delle partite più belle di tutti i tempi (e di cui possiamo gustarci in rete il filmato intero [tabellino | FM]).

Mi ricordo ancora lo stupore e l'entusiasmo che mi avvinsero in quel tardo pomeriggio da ragazzo davanti a una TV ancora in bianco e nero, perché non immaginavo che il gioco del calcio potesse essere davvero così bello (che fosse il più drammatico lo avevo invece già sperimentato nella notte dell'Azteca di due anni prima). I tedeschi dominarono il primo tempo mettendo in cattedra il loro esaltante regista biondo, Gunther Netzer, capace di possenti giocate e di tessiture continue. Ma al riposo il risultato era bugiardo perché i sassoni avrebbero meritato più del gol di Uli Hoeness. La veemente reazione degli angli nella ripresa fu premiata da un gol di Francis Lee, che al 77° rimise in precaria e illusoria parità la gara. Un terrificante uno due di Netzer su rigore e di Müller alla sua maniera, tra 85° e 88°, fecero assumere allo score finale la misura di una disfatta. Wembley era espugnato. Lo shock per gli inglesi fu enorme: i commenti evocarono subito il doloroso ricordo del 6:3 inflitto vent'anni prima, e sempre nel Tempio, dagli ungheresi dell'Aranycsapat, perché gli inglesi avvertirono il senso della fine dell'era Ramsey che, a costo di rinunciare all'ortodossia del WM, li aveva portati sul tetto del mondo. La partita è parte integrante ovviamente dell'Anatomy of England di Jonathan Wilson, in quanto "one of the seismic events in English football history". Da allora la convinzione inglese di essere i migliori del mondo si incrinò per sempre, alimentando le illusioni e gli scoramenti che li accompagnano ormai da quarant'anni ad ogni torneo, e anche la percezione che "football is a simple game: 22 men chase a ball for 90 minutes and at the end, the Germans win”, come nella nota battuta di Gary Linecker.

29 aprile 1972, Wembley Stadium, London
Ulrich "Uli" Hoeneß prova a saltare Paul Edward Madeley


I tedeschi infatti – che pure non potevano schierare il loro regista mancino di qualità Wolfgang Overath, infortunato in quella annata – avevano mostrato un calcio nettamente superiore, bellissimo, irrorato dalla qualità di campioni come "Sepp" Maier in porta, Beckenbauer a dirigere la difesa e ad avviare il gioco, Georg Schwarzenbeck bastione centrale, Paul Breitner terzino sinistro capace di folate offensive, così come lo era, sull'altro versante, il giovane mediano dalle rapidissime incursioni Hoeness; a coprire le spalle di Netzer pensava il roccioso compagno di club (nel Borussia del "Ruscello della pace dei monaci", alias Mönchengladbach, nella poetica traduzione di Gioanbrerafucarlo) Herbert Wimmer. Davanti si muoveva l'implacabile Müller. Ma tutta la squadra, anche nei comprimari, giocava una miscela inedita di grandi qualità tecniche, rigore tattico e intensità agonistica. Artefice dell'assemblaggio era il CT Helmut Schön, che avrebbe retto il ruolo per ben 14 anni, dal 1964 al 1978, entrando nella leggenda come l’unico allenatore capace di vincere sia il titolo europeo (1972) sia quello mondiale (1974), di arrivare in finale una seconda volta in entrambe le competizioni (1966 e 1976) e di mettere in paniere anche un terzo posto (1970).

La fase finale appariva ormai scontata, e lo fu. Il sorteggio si allineò al bipolarismo politico, garantendo scontri finali incrociati, in cui prevalse l'Occidente. La semifinale orientale raccolse pochi intimi (solo 1.659 spettatori, la platea più misera di sempre per una semifinale europea) la sera del 14 giugno 1972 allo Stade Émile Versé di Bruxelles, perché l'attenzione dei padroni di casa era ovviamente tutta concentrata sul Bosuilstadion di Antwerp (stipato all’inverosimile: oltre 55.000 spettatori) dove, alla stessa ora, il Belgio provò inutilmente a giocarsela con i tedeschi. A Bruxelles l’Ungheria tenne in mano il gioco senza risultare mai pericolosa e fu uccellata da un tiraccio di Anatoliy Konkov che passò tra una selva di gambe sugli sviluppi di un calcio d’angolo al 53°; a cinque minuti dalla fine sprecò anche un rigore con Sándor Zámbö, il cui tiro fu intercettato all’angolino da Yevgeniy Rudakov, che regalò la terza finale in quattro edizioni all’Unione Sovietica [tabellino | HL]. Nelle Fiandre, invece, i belgi poterono poco contro una determinatissima Germania, che mise immediata pressione alle retrovie avversarie e giunse al gol due volte con il suo Bomber imbeccato in entrambi i casi da Netzer; Odilon Polleunis, detto "Lon", già Soulier d'or belga nel 1968 (quando militava nel Saint-Trond), passò allo storia marcando a 7 minuti dal termine il golletto della bandiera [tabellino].

18 giugno 1972, Stade du Heysel, Bruxelles
L'implacabile Der Bomber mette a segno
il primo e il terzo (qui) gol della finale contro l'URSS
I padroni di casa sfogarono la delusione sugli ungheri tre giorni dopo allo Stade Maurice Dufrasne di Liège (noto anche, non senza qualche esagerazione come l'Enfer de Sclessin, dal nome del quartiere in cui è sito): davanti  a nemmeno 7.000 compatrioti (evidentemente il paese aveva creduto davvero alla possibilità di vincere il titolo) les Diables Rouges (o anche Rode Duivels per i politicamente corretti) appiopparono un uno-due in cinque minuti tra 24° e 29°, portando anche al record del 30° gol il loro capitano van Himst; i magiari segnarono su rigore (questa volta affidato a Lajos Kü) un gol utile solo alla statistica e recitarono con dignità il loro ruolo di comprimari [tabellino | HL]. Anche la finalissima – andata in scena il 18 giugno 1972 allo Stade du Heysel di Bruxelles – ebbe un esito scontato. I russi erano già stati martellati dai tedeschi in un'amichevole monacense nemmeno un mese prima da una quaterna di Müller [tabellino | FM], e non furono in grado di opporre gioco a una squadra che stava vivendo il suo hapax. Il risultato finale (3:0, con la solita doppietta di Müller e il condimento di un gol di Wimmer) è tra i più ampi di una finale europea e non lascia dubbio alcuno sul divario tra le due compagini [tabellino | HL | FM]. La Germania giocò bene ma non la sua partita più bella di quell’anno. Ed è opinione diffusa che non si ripeté ai livelli raggiunti nel 1972 nemmeno ai mondiali vinti due anni dopo, in una finale di massimi sistemi epici e tattici contro la squadra che vi aveva fatto vedere, in sette partite indimenticabili, il calcio totale più bello di tutti i tempi [vedi].

Azor

Azzurro è il cielo del 1968

Euro storie

Azzurro, la canzone scritta da Paolo Conte e cantata da Adriano Celentano, fu per mesi in testa alle vendite di dischi da 45 giri e la più ascoltata in Italia nel corso del 1968 [qui una clip che rende l'idea dello stile raffinato che caratterizzava la RAI in quegli anni]. Nella sua apparente spensieratezza, la poesia - perché di tale si tratta - coglieva le inquietudini di quell'anno, la sensazione diffusa che un'epoca stava per terminare (come l'estate, con il treno dei desideri che all'incontrario va ...). L'Italia aveva conosciuto nel decennio precedente un impetuoso boom (come sia amava dire pagando il solito dazio lessicale alla lingua che sembra incarnare la modernità) economico che ne aveva trasformato non solo l'impianto industriale, le infrastrutture, e i consumi, ma anche gli equilibri sociali e il costume, creando il primo benessere diffuso e inaugurando nuovi stili di vita. Tra questi erano anche i riti legati al calcio, santificato dalla partita domenicale (un inedito cruccio di genere), dall'ascolto spasmodico, radioline a transistor all'orecchio, di trasmissioni come Tutto il calcio minuto per minuto, dalla visione serale delle immagini delle partite alla Domenica sportiva, e poi ancora dall'avida lettura di quotidiani e riviste sportive durante la settimana, che alimentavano discussioni infinite nei bar e nei luoghi di lavoro. Il termometro della passione fu dato dall'immediato e clamoroso successo del collezionismo applicato al calcio con le raccolte delle figurine dei calciatori avviate dall'editore Panini nel 1961.

10 giugno 1968, Stadio Olimpico, Roma
Gli italiani scoprono improvvisamente cosa sia il delirio calcistico
L’Italia uscì in quel decennio dalla sua povertà rurale allineandosi progressivamente alla "modernità" che altri paesi avevano già raggiunto. Oggi è viva la nostalgia per quegli anni come se fossero stati "favolosi", ma solo perché la memoria tende all'oblio. Furono certamente anni di speranza per il futuro, ma anche duri: la scena politica fu lacerata tra la prima esperienza di un governo di centro-sinistra, che, a parte l’estensione dell’obbligo scolastico e la nazionalizzazione dell’energia, mancò le riforme sostanziali (a cominciare dal riequilibrio tra il nord e il sud del paese, che fu dissanguato da un’emigrazione di massa in cerca di lavoro nel settentrione industriale), e uno strisciante golpismo, pronto a blindare il Vallo atlantico anche ricorrendo all'esercito. Soggetto sociale emergente furono in primo luogo i giovani, stretti tra il delirio dei 26.000 che assisterono all’unico concerto italiano dei Beatles al velodromo Vigorelli di Milano nel giugno 1965 e le tensioni vissute in famiglia (perlopiù inadeguata a gestirne gli umori nuovi), drammaticamente descritte nel film dello stesso anno di Marco Bellocchio, I pugni in tasca [qui una delle scene clou].

Il 1968 segnò la fine dell’innocenza. L’anno fu attraversato ovunque in Europa, anche all’Est (a Varsavia, a Belgrado, a Praga), da manifestazioni, da scontri e da violenze nel nome della “contestazione” di ogni autorità e della rivendicazione dei diritti civili soggettivi (per primi si erano mossi, già dal 1964, gli studenti e i neri negli USA). Anche sui campi da calcio i giocatori di quel periodo cominciavano a essere antropologicamente diversi rispetto alle generazioni che li avevano preceduti. George Best è forse l’emblema di quella stagione, nel bene e nel male, e anche l’Italia conobbe figure simili, prima tra tutte quella di Gigi Meroni, talentuosa ala destra del Torino e scapestrato anticonformista, un beat (come si diceva allora) che esibì, tra i primi, i “capelloni” sui campi italiani, e morì tragicamente nell’ottobre del 1967 ad appena 24 anni. Né fu un caso che proprio nel luglio del 1968 i capitani delle squadre di serie A fondarono l’Associazione Italiana Calciatori, affidandola alla guida del coriaceo avvocato, e già bomber del Lanerossi Vicenza, Sergio Campana.

5 giugno 1968, Stadio San Paolo, Napoli
Protetto da Giorgio Ferrini, Dino Zoff allontana
di pugno un pallone comunque irraggiungibile
per Anatoliy Fyodorovich Byshovets
Soprattutto, dopo decenni di delusioni il calcio italiano tornò a vincere a livello internazionale, grazie a una nuova generazione di campioni, all'acume tattico di alcuni tecnici – che affinarono magistralmente un’idea di gioco, detta da allora “all’italiana”, che ruppe definitivamente con la tradizione del WM –, e ai capitali investiti da alcuni proprietari di club. Furono le due squadre milanesi, in particolare, a sprovincializzare la pedata italica e a spezzare il dominio del calcio spagnolo. Per ben sette edizioni su undici tra 1963 e 1973 le squadre italiane furono capaci di raggiungere la finale della Coppa dei campioni (vincendola col Milan nel 1963 e 1969, e coll’Inter nel 1964 e 1965), col corollario di tre Coppe intercontinentali (Inter nel 1964 e 1965, Milan nel 1969), tre Coppe delle coppe (Fiorentina nel 1961, Milan nel 1968 e 1973) e una Coppa delle Fiere (Roma nel 1961). Nel 1969 il Pallone d’oro fu attribuito a Gianni Rivera, e giunsero secondi lui stesso nel 1963, Giacinto Facchetti nel 1965, Gigi Riva nel 1969, Sandro Mazzola nel 1971 e Dino Zoff nel 1973 (mentre nel 1961 lo aveva vinto anche l’appena naturalizzato Omar Sivori).

Non meraviglia pertanto che quando una rinnovata e più credibile dirigenza federale, emersa dopo la vergognosa impreparazione e gli esiti tragicomici dei mondiali del 1966, si propose per ospitare la fase finale degli europei nel 1968, facendo leva abilmente anche sulla ricorrenza del settantennio della Federazione Italiana Giuoco Calcio, ottenne fiducia dal resto del pallone continentale. A guidarla era ora Artemio Franchi, persona colta e rimpianto esponente della classe dirigente italiana migliore: già direttore sportivo della Fiorentina e commissario straordinario della Lega (sì, accadeva anche allora ...), Franchi assunse le redini del calcio italiano nell'estate del 1966 e attuò con decisione le riforme di cui si era solo parlato, e a lungo, nella precedente gestione di Giuseppe Pasquale: il blocco all'ingaggio di calciatori stranieri, la riduzione a 16 squadre del campionato di serie A, la trasformazione della società di calcio in SpA senza fini di lucro.

Giunto alla sua terza edizione il torneo continentale cambiò nome (da Coppa delle nazioni europee a Campionato europeo, la denominazione attuale) e formula: non più eliminazioni dirette con partite d'andata e ritorno ma gruppi di qualificazione seguiti da quarti a confronto diretto in due turni, e la fase finale negli stadi un paese prescelto. Di fatto un formato simile a quello attuale. Per la prima volta parteciparono tutte le nazioni iscritte alla UEFA, a parte Malta e Islanda. Anche la Germania si degnò finalmente di concorrervi ma la Nemesi le fece inesorabilmente pagare il dazio dei dinieghi precedenti: dopo un roboante 6:0 iniziale all'Albania (con quaterna del giovanissimo Gerd Müller [HL]) e uno scambio di sconfitte con la talentuosa Jugoslavia, la beffa si consumò allo Stadiumi Qemal Stafa di Tirana nella partita finale del girone (l'unico a tre, oltretutto) dove l'Albania fermò sullo 0:0 i vice-campioni del mondo e ne determinò una clamorosa eliminazione [tabellino | HL]. Anche i Champions albionici faticarono non poco a prevalere (dopo una memorabile sconfitta patita in casa dalla Scozia, di cui abbiamo in rete l’intero filmato [tabellino | FM]) nel British Home Championship, l’annuale torneo insulare che gli inventori della pedata moderna riservarono snobisticamente a se stessi per un secolo (dal 1883 al 1984), e che fu assunto in quell'occasione come gruppo di qualificazione agli europei. Ai quarti, il confronto tra i campioni del mondo e gli spagnoli campioni d’Europa in carica si risolse a favore degli inglesi che espugnarono il Bernabeu.

5 giugno 1968, Stadio Comunale, Firenze
Dopo una partita molto maschia, Bobby Charlton e Mirsad Fazlagić
si danno cavallerescamente la mano: ma  i volti tesi tradiscono la tensione
Affidata a un allenatore modesto (fu lui a 'visionare' la Corea del Nord ai mondiali del 1966 e a relazionare al "commissario tetnico" Mondino Fabbri l'infelice battuta passata alla storia: "sono dei Ridolini"), ma dotato di buonsenso, come Ferruccio Valcareggi, la nostra compagine si ricostruì dopo il disastro inglese intorno al nucleo dei campioni dell'Inter e del Milan, epurando il ronziname di gravitazione felsinea. La poule, affatto potabile, di qualificazione con Svizzera, Cipro e Romania servì a rodare un gruppo che innestò la giovane promessa finalmente sbocciata di Giggirriva (6 gol nelle qualificazioni) sul ceppo della difesa nerazzurra e su un centrocampo di fatica cursoria (Angelo Domenghini) e di estri lunatici (Mariolino Corso) oltre che di abatini. Lo scoglio da superare ai quarti fu la Bulgaria, una squadra di buon livello in quel torno d’anni (e che di lì a qualche mese sarebbe arrivata seconda nel torneo olimpico messicano vinto dall’Ungheria). La prima mezzora dell’andata, allo Stadio Nazionale Vasil Levski di Sofia il 6 aprile 1968, fu angosciosa: rigore all’11° per i bulgari, trasformato da Nikola Kotkov, pallonata nello stomaco a Enrico Albertosi costretto a uscire al 21°, rottura del bacino per Armando Picchi al 24° (che restò incredibilmente in campo aggirandosi per un’ora sulla fascia destra solo per non lasciare la squadra in dieci perché non esistevano i cambi, e che terminò così, di fatto, la sua grande carriera); grazie a una gagliarda prova di carattere riuscimmo alla fine a limitare i danni a un 2:3 [tabellino | HL]. Orfani come già all’andata dell’indisponibile Rombo di Tuono, nel ritorno al San Paolo di Napoli due settimane dopo, i nostri misero in cattedra Gianni Rivera a ispirare le finalizzazioni dell’emergente Pierino Prati, che sbloccò il risultato con una bellissima rete [HL]: un 2:0 rotondo e pieno ci garantì il passaggio del turno [tabellino].

Alla fase finale giunsero dunque, insieme a noi, la sempre verde URSS (che aveva liquidato l’Ungheria ai quarti), i baldanzosi Leoni della Regina (ancora sotto la guida di sir Alf Ramsey) e la squadra migliore del lotto, la Jugoslavia (che aveva asfaltato la Francia), che poteva avvalersi della sua generazione migliore di giocatori, ricchi di talento e forza fisica, attenti tatticamente e guidati da un campione, il serbo Dragan Džajić, capocannoniere di quell’edizione, vera ala sinistra, dotata di velocità, dribbling e gran precisione nei tiri e nei cross dal fondo [clip]. Alle 21:15 del 5 giugno andò in scena al Comunale di Firenze la semifinale tra inglesi e slavi: i primi, tecnicamente inferiori nonostante il blasone del titolo mondiale (conquistato in casa), la buttarono sul piano fisico e la partita si trasformò in un agone durissimo, risolta da un guizzo di Džajić a quattro minuti dalla fine [tabellino | HL]; gli inglesi tornarono ad assaporare il pane sciapo (toscano per l’appunto) della sconfitta nelle competizioni internazionali di vertice (da allora avrebbero collezionato solo un paio di semifinali ai mondiali del 1990 e agli europei del 1996, e attendono ancora di giocarsi nuovamente una finale). Ancor oggi essi dissimulano l’onta della sconfitta ricordando quella partita per la prima espulsione di un loro nazionale, Alan Mullery (che è un modo abile, si noti, di fare storia comunque), ad opra dall’arbitro spagnolo José Maria Ortiz De Mendibil: intervistato di recente dalla BBC lo sciagurato [vedi] ha argomentato come una mammola che "I felt stupid when it happened but some of the tackles they were putting in were horrendous; if that game was played now, it would have been abandoned after 20 minutes because they would have had six players on their side and we would have had about nine” [leggi]. Un'opinione di parte, of course.

5 giugno 1968, Stadio San Paolo, Napoli
Giacinto Facchetti esulta al responso numismatico di Eupalla
Nel tardo pomeriggio dello stesso giorno si era giocata sotto la pioggia al San Paolo di Napoli l’altra semifinale tra noi e i sovietici. Questi ultimi, ormai privi di giocatori di talento, ruminarono il loro solito gioco grigio di ordine e passo, senza fantasia, ma capace di imbrigliare gli avversari. Noi giocammo una brutta partita, contratta, anche perché Rivera si acciaccò lungo strada spegnendo la nostra fonte di iniziativa principale: il film della partita mostra come le (poche) occasioni pericolose le ebbe l’URSS e come i nostri si svegliarono solo nei supplementari quando Domingo incacchiò il montante sinistro della porta di Yuri Pshenichnikov a tre minuti dalla fine [tabellino | HL | FM]. Non era stata ancora inventata la lotteria dei rigori e dunque l’arbitro tedesco Kurt Tschenscher convocò negli spogliatoi i capitani per lanciare per aria la monetina (una formula folle, e infatti mai più ripetuta). Eupalla ci arrise, per motivi che restano ancora imperscrutabili nonostante un’inesausta esegesi (tra i molti, Baffo Mazzola sostiene sornione che era fiducioso assai nel notorio deretano baciato di Giacinto Facchetti): il capitano scelse Testa, e Testa fu infatti. Seguita dalla consueta manifestazione di arte pirotecnica partenopea.

Le finali si tennero a Roma. La Scala di San Siro fu clamorosamente snobbata nonostante il primato delle sue due squadre, costringendo il prato dell’Olimpico a un inedito logorio: alle ore 15 dell’8 giugno scesero in campo, per il terzo posto, sovietici e albionici, che strapparono con rabbia un 2:0, con timbri di Bobby Charlton [HL] e Geoff Hurst [tabellino]. Alle 22:15 (sic) dello stesso giorno fu la volta delle finaliste. Valcareggi ripropose la formazione di Napoli con poche varianti: il ronzino Lodetti per l’infortunato Rivera, Guarneri per Bercellino e, clamorosamente, la ventenne rivelazione del Varese, Pietruzzo Anastasi (poi passato alla Juve per 700 milioni in quell’estate) al posto di Sandrino Mazzola (il quale, leso nella sua majestas, quella mattina aveva fatto le valige ed era stato placcato dai suoi pards nerazzurri nella hall dell’albergo mentre chiamava il taxi per tornarsene a casa). In pratica affrontammo la prima finale internazionale dopo trent’anni senza Rivera, Mazzola e Riva: una follia insondabile. Il tecnico serbo Rajko Mitic ripropose invece gli stessi titolari di Firenze, fatto salvo il mediano Jovan Aćimović per Ivica Osim. Un centrocampo affidato a onesti pedatori come Ferrini, Juliano e Lodetti non riuscì a fornire un pallone decente alle due punte: “Gli slavi sono fortissimi ed è cara grazia non perdere”, scrisse Brera. Dopo un inizio pimpante e illusorio la squadra subì l’iniziativa degli slavi e si affidò alla difesa dell’Inter, votandosi a una partita di sofferenza. Džajić sfruttò l’unica incertezza della nostra retroguardia al 39°, mettendo una zampa in mezzo a una mischia, e nella ripresa liftò un pallone al curaro nell’area di Zoff che il giovanissimo centravanti Vahidin Musemić mancò di un nulla. Lì la Jugoslavia perse l’occasione di vincere, come avrebbe meritato. Come vuole Nemesi, all’80° il medemo bosniaco aprì le gambe davanti a una staffilata su punizione di Santo Domingo che uccellò l’incolpevole Ilija Pantelić, regalandoci un insperato pareggio [tabellino | HL]. Supplementari in bianco conclusi verso l’una di notte rinviarono il tutto alla ripetizione della finale (un'occorrenza che poi rimase unica) due giorni dopo, sempre sul solito manto erboso (che mostrò tutta la perizia della plurisecolare tradizione dei giardinieri “all’italiana”: un primato ormai perduto se pensiamo ai nostri attuali supertecnologici campi di zolla frolla, e figuriamoci l’effetto odierno di 3 partite in meno di 60 ore …).

10 giugno 1968, Stadio Olimpico, Roma
Con uno dei suoi atti potenti, Gigi Riva porta in vantaggio l'Italia
Con 240 minuti alle spalle i nostri prodi erano ridotti come bracchetti dopo una domenica passata a correr dietro alla volpe. Costretto anche dalle furiose polemiche suscitate dalla prova scialba, fu gioco forza per Valcareggi inserire forze fresche. Ma imbroccò anche la quadra: rafforzò la Maginot con baby face Rosato al posto del medianone Ferrini e Salvadore al posto di Castano come libero, proponendo un 1-4-3-2 che affidò a Domenghini, Mazzola e all’inedito “Picchio” (ergo "trottola") De Sisti il compito di imbeccare il volitivo Pietruzzo e il redivivo Gigirriva. Improvvisamente giocammo, e alla grande, contro una squadra spenta che aveva dato tutto, e mancato l’occasione, nella gara precedente e che non poteva affidarsi a ricambi di qualità. Di questa partita abbiamo il filmato integrale e dunque possiamo goderne interamente il pathos [tabellino | HL | FM]. Fu Rombo di Tuono a spaccare la partita al 12°, proponendosi magnificamente all’imbucata di Domenghini, sul filo del fuorigioco (che non c’era, nonostante le furiose proteste slave [vedi]), e Anastasi a sigillarla con un magnifico avvitamento dal limite al 31°. Copertura e rilanci, secondo la nostra migliore tradizione pedatoria, caratterizzarono l’ora restante. Mentre dagli spalti cominciavano a essere lanciati razzi e bengala e l’Italia stava per conoscere il rito inedito (quanto ora consunto) dei caroselli automobilistici, quell’uomo garbato che è stato Nando Martellini si congedò dai telespettatori al fischio finale con una delle sue memorabili espressioni: “Signori all’ascolto, qualunque cosa io ora dicessi stonerebbe. L’Italia è campione d’Europa”.

Azor

La Coppa franchista del 1964

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Richiamare alla memoria la Coppa delle Nazioni del 1964 significa ricordare la Spagna di quegli anni e l'egemonia delle sue squadre di club sulla scena europea. Il paese vedeva finalmente allentarsi la morsa della dittatura imposta del Generalísimo Francisco Franco dopo la tragedia non ricomposta della Guerra Civil, uno degli scannatoi più orrendi del Novecento europeo. La Spagna degli anni '50 era un paese povero ma dignitoso, isolato diplomaticamente e culturalmente dal resto del continente. Meglio forse di ogni altra immagine, nella loro immediatezza, neorealista e sulfurea a un tempo, ce la restituiscono i film sghembi di un anarchico come Marco Ferreri nel suo periodo cosiddetto "spagnolo" (1959-1960): Los chicos,  El pisito e El cochecito, scritti insieme allo scrittore Rafael Azcona con ovvi problemi di censura.

21 giugno 1964, Estadio Santiago Bernabeu, Madrid
Le squadre della Spagna e dell'URSS
ascoltano sull'attenti gli inni nazionali
Il calcio - e in particolare le cinque vittorie consecutive del Real Madrid nelle prime edizioni della Coppa dei campioni (1956-1960), e nell'inaugurale Coppa intercontinentale contro il Peñarol di Montevideo (1960), che peraltro si inserirono in una cornice che va almeno dalle vittorie del Barcellona nella Coppa Latina (erede della Mitropa e gestante della Campioni) nel 1949 e 1952 alle sei Coppe delle Fiere conquistate da Barcellona, Valencia e Real Saragozza tra 1958 e 1966, passando dalla Coppa delle Coppe vinta dall'Atletico Madrid nel 1962 - servì da straordinario ambasciatore dell'immagine di una Spagna vincente che cominciava a riaffacciarsi al mondo.

Nel 1960 Franco aveva deciso di riaprire le frontiere al turismo e agli investimenti stranieri. Un decisivo passo avanti, che non trovò riscontro però, nello stesso anno, sul piano delle relazioni calcistiche. Il sorteggio aveva posto di fronte, nei quarti di finale della prima edizione degli Europei, Spagna e URSS. Nonostante le pressioni della Federación Española de Fútbol, il Caudillo impedì alla Roja di giocare contro la nazionale di un paese con il quale non solo non esistevano rapporti diplomatici – dato il sostegno che Stalin aveva fornito alla Repubblica spagnola durante la Guerra Civil – ma che incarnava ideologicamente, agli occhi degli alfieri dell’anticomunismo, il peggiore nemico politico. Ciò aveva spianato la strada per le semifinali ai sovietici, poi vittoriosi in terra di Francia, ma aveva intaccato l'immagine internazionale del calcio spagnolo.

Quando nel corso del 1963 maturò l'eventualità che le strade della nazionale iberica si intrecciassero nuovamente con le compagini dei paesi dell'Est nella seconda edizione degli europei, la politica di Franco si rovesciò astutamente al punto da candidare la Spagna come paese ospitante delle ultime quattro partite del torneo. Il superamento di diffidenze diffuse a livello internazionale si rivelò un successo diplomatico. Oltre alla sorpresa del torneo, la Danimarca del capocannoniere Ole Madsen, approdarono alle semifinali in terra di Spagna sia l'URSS sia una rediviva Ungheria, che di lì a breve avrebbe vinto l'alloro olimpico del 1964 (per poi bissare nel 1968), rinverdendo, sia pure in tono sbiadito, i fasti della mitica compagine dei primi anni cinquanta.

Alla nuova edizione degli europei si erano iscritte 29 nazioni, grandi comprese ad eccezione della Germania Ovest, il cui tecnico Seep Herberger considerava degni di essere giocati solo i Campionati del Mondo: un tipo strambo, che rende bene l'idea della fluidità in cui era ancora avvolta la scena del calcio mondiale, destinata però a trasformarsi in un sistema istituzionalizzato di lì a pochissimi anni. Nei turni eliminatori si erano perse per strada, oltre all'Italia di Mondino Fabbri triturata dal "cinismo dei russi" (Brera scripsit), anche l'Inghilterra, fatta fuori per solo 6-3 dalla Francia nella prima partita di Alf Ramsey in panchina, e infine la stessa Francia naufragata sugli scogli della rampante Ungheria nei quarti di finale [tabellino | FM]. Rimase agli annali lussemburghesi, dopo i fasti carolingi, anche l'eliminazione dell'Olanda, che vantava ancora una compagine scialba per tradizione, e ignara della rivoluzione che stava per avvenirvi di lì a un di presso.

17 giugno 1964, Estadio Santiago Bernabeu, Madrid
Il gol di Amancio al 112° della semifinale contro l'Ungheria
L'URSS fu inviata a giocare la sua semifinale contro i Danesi a Barcellona, città di non sopita anima repubblicana e antifranchista, che l'accolse infatti con simpatia in un Camp Nou gremito la notte (alle 22:30, come d'abitudine) del 17 giugno 1964: di Valeri Voronin, Viktor Ponedelnik (ancora lui, il risolutore al Parc des Princes quattro anni prima) e Valentin Ivanov i timbri sulle formalità per la finale di Madrid, espletate sotto l'autoritario fischietto del nostro Rosario Lo Bello [tabellino]. La sera stessa, ma alle 20, era andata in scena al Santiago Bernabéu l'altra semifinale, molto più tirata ed incerta. Gli spagnoli erano andati in vantaggio verso la fine del primo tempo con Jesús María Pereda, ma una coriacea Ungheria - nella quale cominciavano a brillare giocatori di qualità come Flórián Albert (che sarebbe stato Pallone d'Oro nel 1967) e Lajos Tichy (di grandi capacità balistiche [esempi: 1 | 2]) - aveva riacciuffato il pareggio a 6 minuti dalla fine con Ferenc Bene, grazie anche a un'incertezza del portiere Josè Iríbar, e costretto il paese ospitante a soffrire per un'altra mezzora, insidiandolo con numerose occasioni che offrirono al suo portero l’occasione di un pronto riscatto. A risolvere lo spettro angoscioso di una soluzione affidata alla monetina (all'epoca non erano previsti i rigori, e solo la finalissima doveva essere ripetuta) fu una delle stelline del Real Madrid di allora, Amancio Amaro, a otto minuti dalla fine [Cineteca]. Gli ungheri si sarebbero consolati tre giorni dopo nella finalina, risoltasi anch'essa ai supplementari grazie a una doppietta del prode difensore Dezso Novák.

Alle sei e mezza de la tarde del 21 giugno, puntualissimo, prese posto in tribuna al Bernabeu il Caudillo de España, accompagnato dalla consorte per assistere alla finalissima, della quale abbiamo il filmato intero oltre a vari estratti [Cineteca]. Agli inni nazionali gli 80.000 spettatori applaudirono con rispetto quello sovietico (qualcosa d'inimmaginabile oggi, in un'epoca in cui gli applausi sono riservati ormai solo ai minuti di "silenzio"). A guidare la Nazionale era l'unico fuoriclasse presente in campo assieme a Lev Jašin, il galiziano Luis Suárez Miramontes (entrambi palloni d'oro, rispettivamente nel 1963 e 1960), che qualche settimana prima aveva guidato l'Inter alla conquista della sua prima Coppa dei campioni al Prater di Vienna. Incurante delle polemiche, il duro allenatore della Roja, Jose Villalonga, che pure li aveva portati alla conquista della prima coppa dei campioni nel 1956, aveva deciso di lasciare a casa gli anziani fuoriclasse del Real: Francisco Gento, Luis del Sol, e Alfredo Di Stéfano (che aveva conseguentemente deciso di porre termine alla sua ineguagliabile carriera), e di puntare su una rosa di giovani di minore talento ma plasmabili a un gioco fondato sull'agonismo, sulla velocità e su un forte spirito di squadra.

21 giugno 1964, Estadio Santiago Bernabeu, Madrid
L'immagine è sgranata ma l'incornata di Marcelino che dà alla Spagna
la sua prima Coppa delle nazioni europee è effettivamente bellissima
Tatticamente entrambe le compagini giocavano un WM adattato a una vocazione attendista e interpretato sulla corsa. Grazie e un bel triangolo in velocità con Amancio, Suarez crossò dal fondo al 5° una palla insidiosa, oscenamente offerta di sponda, infatti, da Eduard Mudrik sul piede a Jesus Pereda, che per l'emozione di cotanto regalo sparò di fretta una bordata tremenda anziché cercare una soluzione più ponderata. A mettere subito le cose in pari fu però una sbadataggine del centrale iberico Fernando Olivella, che lasciò avanzare liberamente al tiro il manzo sovietico Galimzyan Khusainov. Seguì un'ora di calcio sempre più affondato nell'afosità della sera,  nella quale si persero i sovietici, privi di fantasia e dunque spenti nella risorsa atletica. Per tutta la partita avevano sofferto sulla fascia sinistra: e da là arrivò l'ennesimo cross, questa volta di Chus Pereda, all’84°. Con un bellissimo volo, il gallego Marcelino girò di testa in rete la palla matando l’attonito Jašin [HL]. Seguì l’apoteosi della squadra, del Bernabeu e dell’intera nazione. Il Franchismo esaltò propagandisticamente il gesto di Marcelino, assurto a eroe anticomunista, diffondendolo attraverso i Noticieros y Documentales (i cinegiornali dell’epoca). L'atto è tuttora celebrato in molti siti sulla Roja.

E' vero anche, però, che la vittoria del 1964 non ha mai goduto tra gli spagnoli di particolare eco memoriale. Alcuni ritengono che ciò vada addebitato al fatto che quella squadra non presentava grandi stelle, a parte Suarez e Amancio. Lo stesso allenatore, l'andaluso José Villalonga, è stato dimenticato, complice forse anche il suo passato di militante falangista durante la Guerra Civil. La rimozione è certamente intrisa del marchio franchista apposto sulla vittoria del 1964. Ma hanno pesato anche le vicende calcistiche. La Spagna acquisì il diritto di partecipare ai Mondiali del 1966 dove però si arenò mestamente al primo turno; il Real vinse l'ultima sua Coppa dei campioni di quegli anni (nel 1966 sul Partizan di Belgrado); ma dopo i fasti del decennio precedente, di cui il trionfo europeo del 1964 costituì il sostanziale canto del cigno, cominciarono los años del desierto. Sarebbe occorso un quarto di secolo perché la Catalogna suonasse, con l'oro olimpico e la prima vittoria in Coppa dei Campioni del Barcellona nel 1992, il segnale del riscatto.

Azor

Il mesto esordio del ‘63

La prima pagina de "Il calcio e il ciclismo illustrato",
con l'immagine di Edmondo Fabbri, dopo la sonora sconfitta
contro l'URSS a Mosca il 13 ottobre 1963
Euro storie

"Commissario tetnico": così definiva il suo incarico Edmondo Fabbri a dire di Gianni Brera, che in poche pennellate ne schizzò inequivocabilmente il profilo con tratti, in fondo, bonari ("a parlarci l'omino non è per niente coglione", la sua chiosa). "Mondino" (o  "Topolino", per la bassa statura) Fabbri è stata una delle macchiette più esilaranti della pedata italica degli anni '60, non fosse stato per i disastri che combinò con la nazionale maggiore. Poteva vantare dei passabili passati come ala guizzante nell'Atalanta, nell'Inter e nella Sampdoria negli anni '40; soprattutto fu protagonista, da allenatore, di una clamorosa scalata del Mantova dalla quarta serie alla A, tra il 1957 e il 1962, grazie anche all'intraprendenza di quell'uomo di calcio senza scrupoli che era Italo Allodi. Dopo due anni in cui il fantasmagorico Helenio Herrera non aveva vinto un tubo, ed anzi era rimasto impigliato nelle sue pratiche farmacologiche, Angelo Moratti si era allora deciso a chiamare all'Inter, nel maggio del 1962, la nuova coppia per provare finalmente a vincere (la stessa cosa avrebbe poi fatto il figlio, nella primavera del 2006, quando aveva già messo sul tavolo i contratti per Capello e Moggi). Per fortuna ci ripensò (il figlio invece fu costretto dagli eventi a ripensarci), ridando la panca ad HH, trattenendo saggiamente in società Allodi e dirottando Mondino a Verona. Che se la legò al dito, segando con le proprie mani il ramo del futuro professionale su cui si era appollaiato un po' per merito e tanto per fortuna.

La sua nomina a commissario "tetnico" avvenne infatti - sostiene Mastro Brera [Storia critica del calcio italiano, p. 331] - per meriti commensali, partecipando Mondino ogni lunedì sera alle sedute culinarie felsinee del Club del Tortellino ("asciutto e in brodo") coordinato da un'altra macchietta, benché più inquietante, quale era l'allora presidente della Federazione Italiana Giuoco Calcio, Giuseppe Pasquale, un ex pugile ferrarese che aveva scalato tutte le posizioni dirigenziali calcistiche dalla SPAL alla Lega alla Federazione, che guidò (anche dai tavoli di trattoria) dal 1961 al 1966 collezionando due disastrose partecipazioni ai Mondiali del Cile e d'Inghilterra (ai quali peraltro nemmeno si recò di persona per il terrore di viaggiare in aereo). Alcuni provvedimenti che cominciò ad avviare furono positivi - il formato della serie A reso più agile a 16 squadre -, altri più discutibili quanto  demagogici - il blocco degli stranieri - o di dubbia efficacia - come la trasformazione delle società professionistiche in SpA -, altri precursori, ma che ebbero un effetto boomerang sullo stesso Pasquale, come la legge antidoping, che colpì per primo proprio il Bologna, squadra della città nella quale si era trasferito e che gli costò innumerevoli charivari sotto le finestre di casa da parte degli inferociti tifosi locali (a dirla tutta fu anche minacciato di morte). L'ambiente dell'italica pedata era questo all'epoca. Esso appariva a Brera dominato da "incredibili errori, cafonaggini inaudite, stoltezze sesquipedali: e tutto questo a suon di miliardi, di travasi biliari, di gratuiti disastri" [Ivi, p. 319]. Insomma, qualcosa di simile al panorama attuale, ora fatto di presidenti che suonano chitarre rock e ballano in tv, parlano il latinorum, e non sanno più esprimersi in pubblico se non attraverso il turpiloquio.

2 dicembre 1962, Stadio Renato Dall'Ara, Bologna
L'immagine è vintage: Gianni Rivera segna il primo gol alla Turchia
Fatto sta che Mondino fu messo in sella alla nazionale maggiore inopinatamente, un po' come quella gente seria solo in apparenza degli inglesi ha or ora messo sulla panca della propria nazionale quel buon uomo di Roy Hodgson. Come quasi tutti i piccoli di statura, Mondino era però orgogliosissimo e si rifiutò a lungo di affidarsi ai giocatori che stavano facendo grande l'Inter proprio nei primi tempi del suo incarico "tetnico". Il credo calcistico del Club del Tortellino aborriva infatti il "catenaccio", cioè l'unica grande invenzione geometrica italiana dopo la prospettiva rinascimentale: la creazione dello spazio alle spalle dell'avversario (ma di questo parleremo in altro momento). Fu per questa via che la prima partecipazione italiana alla Coppa delle nazioni europee durò lo spazio di quattro partite, di cui purtroppo non abbiamo "riflessi filmati" e per le quali dobbiamo rifarci alle cronache. Illusorio fu il doppio confronto con l'inesistente Turchia: 6:0 al Renato Dall'Ara di Bologna (vedi un po') il 2 dicembre 1962 [tabellino], e 1:0 al BJK Inönü Stadyumu di Istanbul il 27 marzo 1963 [tabellino]. Un paio di mesi dopo l'Inter catenacciara vinse il suo primo scudetto dell’era Moratti-HH, ma Mondino e il suo Club ("asciutto e in brodo") non ne tennero il dovuto conto in vista della sfida degli ottavi che ci aveva dato in sorte i campioni in carica dell'URSS.

Il 13 ottobre 1963 allo Stadio Centrale Lenin di Mosca, di fronte alla consueta adunanza degli oltre 100.000, Mondino mandò in campo William Negri in porta, Cesare Maldini e Giacinto Facchetti terzini laterali, Aristide Guarneri stopper con accanto Sandro Salvadore, Giovanni Trapattoni mediano arretrato, Giacomo Bulgarelli in mezzo al campo, Mario Corso finta mezzala sinistra, Gianni Rivera dietro alle due punte, Angelo Benedicto Sormani, centrale, ed Ezio Pascutti, esterna e mobile [tabellino]. I russi furono cinici, affidando al "terzino-boia" Eduard Isaakovych Dubynskiy del CSKA Mosca la missione di neutralizzare i nostri manzi d'attacco: presto fatto, l'oriundo brasiliano fu sfregiato alla prima occasione da una tacchettata sulla faccia e rimase intronato per il resto dell'incontro, mentre l'irruento bulagnese fu falciato orrendamente alla prima occasione in cui aveva provato a ingobbirsi in contropiede; il pisquano anziché abbozzare mise le mani in faccia al truce sovietico, raggiungendo la doccia già al 23°. A quel punto la partita era finita. Ricorda Brera che "arretrato in mediana, Bulgarelli non vince un tackle che è uno sul finto interno Cislenko, che manda in gol Ponedelnik prima di andarci a sua volta. Maldini terzino d'ala, dopo anni che gioca da libero, è un non senso. Il centrocampo impostato su due atipici quali Corso e Rivera si conferma deficitario fino al dispetto". Insomma, un disastro.

La copertina de "Lo sport illustrato"
con una immagine della partita d'andata con l'URSS:
Corso sarebbe stato dunque l'unico italiano
a salvarsi dalla mareggiata
Al ritorno un mese dopo all'Olimpico di Roma, l'11 novembre 1963, l'ineffabile Mondino mise finalmente in campo la difesa dell'Inter, ma nella partita sbagliata, quando cioè occorreva attaccare: Giuliano Sarti, Tarcisio Burgnich, Giacinto Facchetti, Aristide Guarneri più Sandro Salvadore, in difesa; Angelo Domenghini cursore destro a mezzo il campo insieme con Giovanni Trapattoni, Giacomo Bulgarelli e Gianni Rivera; davanti Sandro Mazzola insieme con Giampaolo Menichelli. La nostra si risolse in "una disordinata e ingenua offensiva" punita dall'implacile contropiede di Gennadiy Gusarov al 33°: "il centrocampo porta palla e non è che imposti per lanci perentori". Gianni Rivera salvò l'onore (si fa per dire) all'89° [tabellino].

Con un po' di acume tattico, l'orgoglioso Topolino avrebbe dovuto mettere la formazione di Roma a Mosca e quella di Mosca a Roma. E magari ne sarebbe anche uscito vincitore. La sua pochezza emerse evidente, ma la responsabilità fu addossata ai pedatori, a cominciare da Pascutti. In realtà si trattò solo delle prove generali della ingloriosa spedizione di tre anni dopo in Inghilterra, preparata in maniera dilettantesca e meritatamente conclusasi per piede di un odontotecnico coreano - una delle stagioni più meste della nostra pedata, riassunta nella gesta eponime di Mondino Fabbri.

Azor