The Old Master - Il padre del calcio italiano

Chi era Vittorio Pozzo? Era "semplicemente un piemontese risorgimentale, ciecamente convinto delle virtù piemontesi; uno per cui la parola sacra era el travai" (Giorgio Bocca). Pozzo è figura centrale nella storia del football italiano, di cui è stato autentico emancipatore. Non solo per i due titoli mondiali conquistati (oltre a due coppe della Mitteleuropa e a un oro olimpico); non solo per l'invenzione del campionato a girone unico; anche (e forse soprattutto) per il contributo alla conoscenza del calcio internazionale e per le relazioni che - viaggiando - riuscì a stabilire. The Old Master: così, a lui, si rivolgevano gli inglesi. 

Sul piano tattico, diede un'impronta definitiva alla scuola italiana: sua l'escogitazione del 'metodo', di un gioco essenzialmente basato su difesa e contropiede veloce. Fu forse precocemente accantonato, in nome di velleità innovatrici che portarono, negli anni Cinquanta del secolo scorso, a risultati disastrosi. Non perciò smise di seguire le competizioni più importanti, dettando a "La Stampa" cronache talora pignole e tutt'altro che brillanti, talora ironiche e spassose. La figura di Pozzo è stata a lungo, nel dopoguerra, controversa. Considerato uomo di regime, è stato poi parzialmente riabilitato. Parzialmente: non abbastanza, a nostro parere. Comunque lo si voglia giudicare, va ricordato per quello che è: un monumento della storia patria.

Vittorio Pozzo si spense a Torino il 21 dicembre 1968.


Vittorio Pozzo si muoveva ormai come un fantasma in un calcio che non era più il suo e non gli apparteneva più: all'estero lo rispettavano come il più grande personaggio del calcio d'ogni tempo; in Italia alla venerazione e all'ammirazione del pubblico - che soprattutto nei periodi deludenti vedeva in lui il simbolo dei trionfi passati - faceva riscontro sempre più evidente e aspra l'ostilità degli ambienti più direttamente colpiti dalle sue severe e pungenti critiche ...
Addio Pozzo, addio commendatore. Non vedremo più la tua fiera testa bianca. Ma non promettiamo di ricordarti sempre: sarebbe un'ipocrisia. La legge spietata della vita che continua, cancella tutto attraverso il tempo. Ti diremo solo che tu meriteresti di non essere dimenticato.

(Gino Palumbo, 'Corriere della Sera', 22 dicembre 1968).


L'ultima cronaca di Monsù


Da Bologna, meno d'un mese prima di andarsene, Vittorio Pozzo detta il suo ultimo pezzo per "La Stampa". E' andato a vedere Bologna-Milan, partita di cartello della domenica di campionato. Il resoconto di Monsù è breve ma preciso. Forse un po' stanco.

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Bologna, lunedì mattina [25 novembre 1968]

A Bologna, l'episodio più interessante dell'ottava giornata del campionato, i rossoblu emiliani sono riusciti ad infliggere la prima sconfitta del torneo al Milan capolista. Un risultato non del tutto prevedibile. E' servito al Bologna per dimenticare le amarezze della sconfitta di domenica scorsa a Bergamo e la delusione d'esser eliminati dalla Coppa delle Fiere; ed è costato caro al Milan, che ha perso il primo posto della classifica a vantaggio del Cagliari. La gara è stata molto vivace ed interessante, all'insegna di un pressoché perfetto equilibrio. Nel primo tempo, il Milan ha fatto registrare un sia pur lieve predominio, che, però, non è riuscito a tradurre in goal. Il Bologna, dal canto suo, ha retto benissimo il confronto. Sostenuta a gran voce dal pubblico, con Bulgarelli in funzione dì regista ed impegnato a disputare a Rivera il ruolo di miglior uomo in campo, la squadra di Cervellati si è sempre difesa con notevole ordine, ed è passata in vantaggio grazie a Muiesan, che, intervenendo di testa su un tiro di Turra, sorprendeva il portiere milanista Cudicìni. I rossoneri, trovatisi in svantaggio, reagivano con vigore, ripartendo all'offensiva, senza però farsi mai veramente pericolosi. L'assalto del Milan è continuato si può ben dire per l'intera ripresa. Il Bologna si arroccava, tenace e testardo, i rossoneri commettevano qualche errore, forse per eccessiva precipitazione. Di attimo in attimo, sembrava che il Milan potesse raggiungere quello che sarebbe stato meritevole pareggio, ma, quando gli attacchi degli uomini di Rocco si facevano più pressanti, ecco allora venire di scena Vavassori. Il numero uno bolognese ha compiuto una serie di eccellenti parate, il successo dei bolognesi è, in discreta parte, suo. In un clima di assoluta e confortante correttezza, sia sul terreno come sugli spalti, la sfida è andata verso la fine, sempre con il Milan disperatamente proteso verso la rete dei padroni di casa. Ma, nonostante numerose emozioni, sottolineate dal coro degli spettatori, il risultato più non doveva cambiare, i rossoblu lasciavano il campo festosi, dopo aver sostenuto, senza alcun dubbio, la loro miglior partita dell'attuale campionato. Il Milan è uscito sconfitto, però a testa alta. Ha esercitato nel primo tempo una discreta superiorità, ha dominato nella ripresa. Vanta al suo attivo parecchie azioni che avrebbero potuto portare al goal, ma la giornata non di vena eccezionale da parte dì qualche elemento della prima lìnea, insieme al momento di grazia di Vavassori, hanno significato una sconfitta che, comunque, i rossoneri hanno accolto senza imbastir dei drammi. Da parte del Milan, quasi a siglare la correttezza della gara, c'è stato anzi un simpatico riconoscimento delle qualità degli avversari. Da segnalare infine che entrambe le compagini si sono servite del tredicesimo uomo. Nel Bologna, l'esordiente Scala ha sostituito Pascutti (che rientrava dopo una lunga assenza) al 15' della ripresa, mentre, nelle file del Milan, Santin ha preso il posto di Trapattoni al 27' della ripresa.

"Stampa Sera", 25-26 novembre 1968, p. 7

Elogio dell'odiato football

Ai primi di settembre del 1992 iniziava il campionato, dopo la non felice esperienza olimpica degli azzurri guidati da Cesarone Maldini. Così ne salutava il ritorno Gianni Brera: l'ultimo che poté, solo parzialmente, seguire e commentare.

Mi accingo a salutare il ritorno del campionato, e subito echeggiano in me i versi folli di Lautréamont dedicati all'antico Oceano. Non così arcana è l'arte di Eupalla, nostra musa. E' un estro umano a rivalutare le mani posteriori, diventate nei millenni umili piedi. L'armonia dei mondi si riassume nel prillare di palle sempre meno astruse, non più di cuoio greve, non gonfie di bitorzoli, di stringature coriacee, abradenti. La fantasia dell'uomo si scatena in gesti fra la danza, la lotta, l'acrobazia, il furto con destrezza: la sola coordinazione a esprimere fa eleganza: ed è la sezione muscolare a esprimere potenza: parti ignote del piede trovano impatto con la palla e il terreno: e dico ignote per pietà dell'uomo, che si trova talvolta a posare la parte superiore della punta, misteriosamente impiegata a reggerlo, mentre l'altro piede si lancia a intercettare interdire anticipare interrompere la trama che l'avversario intesse, obbedendo a geometrie o nuove o risapute, secondo capacità di ritmo e di inventiva. Cito un gesto impensato nel quale io stesso incappavo quando le difficoltà agonistiche m'impegnavano oltre la norma. E il bello è che forse non cadevo. Dalla parte superiore della punta ricevevo la spinta necessaria a recuperare equilibrio, coordinazione, ritmo! E poi solitamente ridevo quando ginnasiarchi d'accatto pretendevano di riassumere in esercizi cervellotici i gesti propri del calciatore, magari attribuendo indebita ipertrofia a muscoli non necessari nel pedatare. Quali muscoli impieghi, comparuzzo? L'istinto ti induce a calciare. Tendi il braccio e la gamba cercando coordinazione. Il piede si adegua all'impatto, così le articolazioni. Giusto perciò che s'incominci a pedatare giovanissimi. Le gambe sono elastiche, ricche di osseina. La sensibilità sulla palla si acquisisce. Poi si studia la tattica. S'impara la geometria, si supera il solipsismo del bullo che è in tutti noi. 
Il calcio è gioco collettivo. Niente entusiasma come il successo comune. Ho avuto come fratelli ineffabili dispari del sottobosco sociale. Giocavamo insieme a calcio. Il nostro allenatore era Luserta (Lucertola), detto Weiss. Aveva questo nome l'ungherese che allenava l'Inter e avrebbe allenato il Bologna (chiedetene a Giorgio Faccioli, centromediano di alta statura). Ben cinque di noi venimmo scelti per la rappresentativa di Milano, e tre di quei cinque giocarono gli incontri annuali con il Torino. Il napoletano Formicola, scartato a 13 anni dall'Inter, batteva i corner di collo esterno sinistro emulando il divino Orsi e il più pragmatico Kossovel del Milan. Lui ed io restammo con la voglia di crescere e i femori corti dei popoli più antichi. Crebbero Campatelli e Montipò, longilinei di squisita eleganza. Campatelli inventò la teoria del riposo, della quale si scandalizzò il giovane cronista che era (fu giovane, sì) mio fratello. 
Per il calcio si può delirare. Ho delirato, delirerò ("quante evve!", mi deplorerebbe Mario Soldati, che scrive in filigrana d'argento, come un bigatto che secerne seta). G.P.O., che è pure invecchiato, avendo incominciato giovane assai, non però pedatando, ha l'aria di snobbare dall'alto il fenomeno calcio. Sbaglia a non confinare nel loro vieto limbo i ragazzetti esaltati dal modulo maldiniano. Li fa insultare dagli schermitori (bon, quei!); giudica atletica il basket e il volley ball: il calcio, invece una gnagnera viziosa e viziata. In occasione dell'Olimpiade sbagliamo a favorire i ragazzetti già miracolati in Europa. Come fatalmente deludono, ce la prendiamo, da isterici, con loro. In realtà hanno fatto più di quanto non si dovesse attendere uno che capisse il calcio (veh quanti congiuntivi). Favoriti dallo jus loci gli spagnoli; sospettabili di vittoria i poderosi polacchi non ancora contaminati dal dio uno e quattrino. Gli italianuzzi, quelli sono i resti negletti d'un mercatone che li ha esclusi da tempo. Ripetiamo le penose manfrine del guardone medioevale, il mento sulle transenne della lizza: entro la lizza in fervida giostra, i grandi campioni stranieri. Il solo italiano di sangue blu che affronti volentieri quel rischio è un Cecco Gonzaga tutto fiorito di sifilomi. Quando gli daranno il comando dell'esercito (?) italiano, il Taro in piena gli smonterà le piazzole dei cannoni, e fesso lui che ha scelto quella precaria golena per metterli in batteria. Torniamo ai nostri scartini. Sono sempre disposti a rischio in riva ad un torrente che può dilatarsi a scomposta fiumara. Li abbiamo esaltati prima e poi, delusi, li abbiamo mortificati come si meritavano (perfino gli schermitori, buoni quelli!). Maldini ha raccolto gli stracci e rifatto le valigie. Verrà dannato per colpe tutte italiane, anzi italianiste. 
Ora la lizza è pronta a ospitare le giostre più cattivanti. Siamo tutti col mento sulle transenne. Aspettiamo gli eroi presi in affitto. Sono venuti con la comprensione dei loro connazionali, tutti capaci di valutare il costo del denaro. La lira vibra come quella - ahi, metaforica - dei poeti, ma non v'è limite alla nostra malizia di guardoni. I campioni presi in affitto sapranno risparmiarsi quando la Patria (loro) li chiamerà al cimento. Allora noi toglieremo gli scarti dalle nostre depauperate barriques e li affideremo a un dio pelato ma rigeneratore: il modernissimo Arrigo: non quello atteso da Dante, ma il Sacchi originario di Mandello. E fia il combatter corto, ché l'italo valor non è ancor morto. Non dimenticare, Giovanni, che l'attacco di questa canzone era "Italia mia, benché 'l parlar sia indarno". Anche a me si svuotano le mani, cercando di afferrare questa sabbia. Le dita si fanno labile clessidra. 
Com'è facile sparlare di te, Musa Eupalla! Eppure ti abbiamo venerato, ti veneriamo. Il fenomeno calcio ha sveltito un intero popolo. Quando era questione di plus-calore, a pedatare andavano i principi del sangue. Poi i ricchi si sono accorti che la pedata non qualificava socialmente e sono tornati ai loro ludi tradizionali. A giocare hanno preso i piccoli borghesi, quelli che avrebbero vinto la guerra, portando fuori dalla trincea gente sulla quale era puntata la vigile mitragliatrice dei carabinieri. Oh yes. I piccolo borghesi hanno costituito il nerbo della pedata nazionale. Pensate ai piemontesoni delle incrollabili difese azzurre: chi non era ragioniere era geometra. E da queste parti il piccolo borghese, aspirante, vendeva frutta e verdura a Porta Vittoria. In Emilia si era mobili, come il lecchese Schiavio Stoppani, ingegneri, laureati; così in Toscana e nel Lazio: Bernardini; il conte Bompiani, poi diventato editore, e quale! Il calcio italiano ha incominciato a consistere, ad avere coscienza di sé quando sono maturati al mestiere di tecnico i giocatori che avevano studiato negli anni trenta: i Bernardini, i Foni, i Frossi, i Rava, i Rosetta, i Rocco, i Lerici, gli Scopigno, e prima di questi il mancato ragionier Gipo Viani, che la madre trevigiana aveva aiutato a scappar di casa negli ultimi anni venti (prima all'Us Milanese e poi all'Inter, giusto con Weiss). 
Adesso siamo una potenza mondiale che ha il torto di farsi bella con penne non tutte sue. Spendiamo troppi quattrini, tanti - ahimè - che qualcuno pensa agli ultimi dannati giorni di Pompei. Molti che giudicano le nostre armate hanno dimenticato che dagli anni 50 abbiamo esportato il modulo via via adottato in tutto il mondo. E costì i nesci irridono alla sola gloria di cui ci possiamo vantare. E' l'ignoranza a causare l'equivoco. Ignosce illis, Eupalla: essi non sanno e vanno perdonati. Anzi, che si godano il campionato aspettandosi ogni volta il meglio. Fino a primavera, buona domenica a tutti.

La Repubblica, 5 settembre 1992

La prima vittoria del Napoli a Torino

Un'istantanea dell'XI partenopeo nella stagione 1930-31
Le cronache di Monsù Poss
24 novembre 1930


Nel campionato 1930-31 la Juventus azzeccò un filotto di otto vittorie, dalla prima all'ottava giornata del girone di andata. Il 23 novembre ospitava tuttavia, al "Campo Juventus di Corso Marsiglia", il Napoli. Fu la prima sconfitta dei bianconeri in quel torneo, e - in assoluto - la prima vittoria dei partenopei in casa della Juve. Vittorio Pozzo così descriveva (senza alcuna particolare retorica) l'impresa.



Prima sconfitta della Juventus in Campionato. Sconfitta che desterà scalpore, per il modo, e le circostanze in cui fu subita. I bianco-neri si trovarono in svantaggio di un punto fin dai primi minuti dell'incontro. Cinque minuti di giuoco infatti non erano ancora passati, che già Ruscaglia aveva mandato la palla a finire nella rete. E non s'era giunti ancora alla mezz'ora che gli ospiti avevano segnato una seconda volta a mezzo dell'ex juventino Vojack I. Se il primo punto era stato segnato con la complicità del vento che aveva impedito a Combi di acciuffare la palla nel tuffo in cui s'era gettato, il secondo era stato frutta di una azione magistrale e di un tiro imparabile. Scombussolata e nervosa, la Juventus, pur reagendo con forza, non riusciva a diminuir nulla dello svantaggio prima che l'arbitro mandasse lo squadre negli spogliatoi per il riposo di metà lempo. 

La strenua difesa napoletana 

Alla ripresa le ostilità prendevano una fisionomia ben netta, e delineata. Era la vera fase conclusiva dell'incontro. La Juventus si lanciava all'attacco con tutte le forze di cui poteva disporre, col peso dell'intera squadra cioè. Attacchi su attacchi, avanzate su avanzate, offensive su offensive. La pressione era così costante e vigorosa che ad un certo punto anzi più non era il caso di parlare di attacchi: il giuoco aveva preso fissa dimora nella metà campo degli ospiti, con una certa tendenza anzi a soffermarsi nell'area di rigore. Chiusi nella propria metà campo, schierati davanti alla propria porta, i napoletani si difendevano a denti stretti. Tattica loro unica, la difesa; scopo loro esclusivo: giungere al termine dell'incontro senza che il punteggio o per lo meno il risultato subisse variazioni. 
E si assisteva allora ad una lotta disperata, che non aveva gran che di tecnico nel senso proprio della parola, ma che aveva una bellezza ed un interesse affatto particolari. 
Gli ospiti, abbandonato come abbiamo visto ogni proposito d'attacco, avevano richiamato in aiuto agli uomini di difesa il maggior numero di giuocatori possibile. Giuocavano con tre terzini e cinque mediani. L'area di rigore ne risultava piena, zeppa. Sul muro difensivo cosi costituito, i bianconeri sferravano e vedevano irremissibilmente infrangersi le loro avanzate. Non si passava. Di mano in mano che il tempo avanzava, attaccanti e mediani juventini diventavano più nervosi. Gli attaccanti cadevano tutti nel tranello del giuoco alto. Quando la palla giungeva nell'area di rigore, vi giungeva dall'aria: e si trovava naturalmente tutto un fascio di uomini pronti ad intercettarla od a rinviarla. Certo, come spesso avviene in simili circostanze, il caso e la fortuna contribuivano alla buona riuscita della tattica dell'unità che si difendeva. La rocca dei napoletani fu infatti quattro o cinque volte ad un nonnulla dal capitolare. Nella confusione parve anzi una volta che il pallone venisse da un difensore bellamente deviato con una mano. Ma il passare attraverso a quella barriera umana era in realtà un'impresa ben difficile. A passare riuscì ciò non di meno la Juventus, ma una volta sola, non quanto bastava per portare il risultato alla pari, nè tanto meno quanto occorreva per vincere. 

Il goal di Cesarini

Ad un quarto d'ora circa dalla fine dell'incontro, Orsi, stretto fra i due o tre avversari che gli facevano vigile e costante guardia, centrava alto proprio davanti alla porta. Due juventini e tre o quattro napoletani saltavano assieme. Cesarini toccava di testa la palla. Marietti, ingannato dal vento e disorientato dal groviglio che gli si era formato davanti, sbagliava il tempo nel suo salto. Mentre egli scendeva dal salto stesso, la palla gli andava a finire nella rete, dietro la schiena. Con un solo punto di svantaggio, la Juventus prese a dominare più energicamente di prima. Ad un dato punto i terzini bianco-neri stessi si portavano nella metà campo degli ospiti: Combi medesimo abbandonò la sua porta ed avanzò rinviando col piede i palloni che gli pervenivano. Nessun scopo pratico venne raggiunto. Palloni alti, passaggi a traiettoria, centri spioventi, tutto veniva intercettato. E d'altra parte, nessun allettamento riusciva ad allontanare gli ospiti dalla loro tattica puramente ed esclusivamente difensiva. Sallustro solo tentò di far qualche cosa da solo in linea di controffensiva, giungendo anche una volta a chiamare al lavoro Combi per una parata ben difficile. Il resto della squadra napoletana, con rinvii lunghi a destra ed a sinistra, portò l'incontro al suo termine, senza che la Juventus avesse potuto raggiungere il pareggio. 
Il primo punto a favore del Napoli, giungendo a pochi minuti dall'inizio ebbe una influenza diretta e preponderante sull'andamento dell'incontro. La Juventus sentì subito che la vittoria le sfuggiva, e fu fin dalle prime battute costretta a lottare per risalire uno svantaggio. Lottò con ogni buona volontà ed energia, bisogna riconoscerlo. Nella scorsa stagione i bianco-neri perdettero più di un incontro per quella specie di apatia di cui parevano cader vittima gli uomini suoi al momento in cui si trovarono di fronte a situazioni imbarazzanti. Ieri no. La squadra non fece economia di forze né di volontà. Più il suo comportamento tattico — assieme, beninteso, alla difesa chiusa e salda degli ospiti — che non permise questa volta ai suoi avanti di raccogliere il successo. Al momento in cui i napoletani si rannicchiarono nella propria area di rigore a tutto pensando fuorché ad attaccare ancora, l'intera squadra juventina si lasciò come assorbire dal vuoto che le si parava davanti. Quelle che dovevano essere raffiche partenti da lontano e rapide ed improvvise per poter aver ragione della difesa napoletana, divennero una .pressione costante e priva di forza di propulsione. Ogni possibilità di penetrazione venne per questo solo fatto compromessa. Il giuoco alto fece il rimanente. L'attacco fece una partita ben sconclusionata, con Ferrari nettamente fuori forma. Meglio per la Juventus che questa sconfitta sia giunta mentre la squadra ha tempo, senza esser pressata dagli eventi, di pensare ai casi suoi, e di porre rimedio agli inconvenienti oggi palesati. 
Ben difficile torna il giudicare il Napoli sulla prova di ieri. Ché la squadra dopo un vantaggio fulmineamente conquistato, rinunciò apertamente ad ogni giuoco costruttivo ad un certo punto. E' brutto per coloro che osservano senza interessi, né passioni e non é rallegrante per coloro che dal giuoco voglion trarre deduzioni tecniche; ma il campionato, con le sue ferree necessità, genera un tipo di egoismo che è comprensibile ed in certo qual modo anche giustificabile. Il Napoli vide ad un certo punto la possibilità di vincere vivendo sul vantaggio acquisito: e non fece complimenti, mandò a farsi benedire le esigenze di tecnica e di bellezza del giuoco, o converti l'intera squadra sua in un reparto difensivo. E riuscì nell'intento. 

Il giuoco del Napoli 

In questo giuoco, che fu un sacrificio dell'attacco, emerse il lavoro tutta energia e sicurezza di Marietti, Vincenzo e Castello. La seconda linea è composta di lavoratori duri, resistenti e coscienziosi. Nessuno degli uomini dell'attacco, a giudicare da quella parte del primo tempo in cui il giuoco fu aperto, ha raggiunto ancora il grado di forma della prima metà della stagione scorsa, per quanto Sallustro paia migliorato in combattività e Mihalic, l'uomo migliore della linea, in fatto di tecnica dia segni di avviarsi nuovamente verso la buona via. L'attacco, nella prima mezz'ora di giuoco,  portò una mezza dozzina di attacchi in stile eccellente. Il primo punto degli ospiti venne segnato da Buscaglia su centro di Sailustro che si era portato verso l'ala destra. Il vento impedì a Combi. gettatosi in avanti, di toccare la palla, e l'ala sinistra napoletana poté sospingere la palla nella rete da pochi passi senza difficoltà, Il secondo punto venne originato da un passaggio trasversale di Mihalic che tagliò fuori metà della difesa juventina. Sallustro, con abile finta, lasciò in possesso Vojack che con un violento tiro di sinistro mandò la palla a finire alta nella rete, Nel primo tempo, la Juventus mancò parecchie occasioni facili da segnare. Cesarini, fra altro, si lasciò sfuggire un pallone di grande facilità a pochi passi dalla porta.

'54 e dintorni


Football Miscellany

Parole a galleggiare nell'aria, a riempire lo spazio stretto racchiuso tra le quattro mura dello spogliatoio. Berna 1954, Wankdorfstadion. Ferenc sente di non dover dare altre spiegazioni, ha appena finito di bere il suo the, ha gettato la maglia rosso cremisi nella cesta di vimini sul tavolo e si è alzato in piedi accendendosi una sigaretta e infilandosi la giacca.
“Vado.”
Il tempo della verità era già finito?
Gustav vorrebbe fermarlo, ribattere che non può andarsene così, ma lui risponderebbe che è venuto al mondiale non per lui, ma solo perché quello è il suo lavoro. Gustav vorrebbe chiedergli qualcosa ma il tempo della verità era davvero finito e Gustav guardò Ferenc scomparire dietro la porta, poi si voltò, appoggiò la testa al vetro dell’unica finestra e ascoltò il rumore della pancia dello stadio spegnersi poco alla volta, restando immobile, con quelle orecchie troppo grandi e la fronte calva, provando a rimettere in ordine i pensieri.

A Budapest, quartiere Lipótváros, c’è una piazza piena di gente. C’è la musica di una fisarmonica all’angolo e quella più netta di un pianoforte che entra e esce dalla porta di un caffè. Le note inconfondibili del “sogno d’amore” di Franz Lizst, mentre il sole scompare lentamente dietro l’orizzonte sagomato dai palazzi sul Danubio. È aprile. Gustav se ne sta nel suo vestito di buona sartoria, nell’andatura goffa, dondolante, eppure tiene lo sguardo dritto davanti a sé, gli occhi a catturare quel pezzo di mondo che gli sta di fronte, a cercare qualcosa che inizia e finisce dentro un nome: “Arancycsapat”.
I ragazzini lo riconoscono, è quello del calcio. Se ne stanno in disparte, ai lati della scalinata di un alto edificio in laterizio. Le risate cedono alla bolla del grande maestro, solo la musica del pianoforte arriva, a sprazzi, a rompere il silenzio dell’ammirazione.
Alfréd, occhi azzurri e profondi come un lago d’estate, vorrebbe parlargli ma ha il timore che quell’uomo non risponda lasciandolo deluso su quei gradini di cemento. Per questo aspetta, sperando che sia lui, se vuole, ad avvicinarsi al gruppo. Gustav Sebes, l’allenatore dell’Ungheria ha capito, soppesa la frase, pescando nel suo credo, rincorrendo il futuro, finché la visione non diventa quella giusta, stemperata dalla luce giallastra dei lampioni in ghisa che se ne stanno, simmetrici, ai margini della piazza. Il giallo oro che assomiglia tanto a quello della coppa Rimet.


Gustav Sebes, uomo di impeccabili credenziali politiche, formatosi come agitatore sindacale negli stabilimenti Renault in Francia, riteneva che lo scontro fra capitalismo e socialismo si combattesse anche sui campi di calcio e il suo contributo alla causa fu l’applicazione di una concezione di gioco in cui ai giocatori veniva chiesto di operare in tutti i ruoli per il bene dell’intera squadra.“Bisogna giocare per il piacere di farlo, per buttare la palla in rete, sempre e comunque, cercando il risultato con naturalezza, impegnandosi e correndo fino all’ultimo respiro senza pensarci più di tanto ma tutti insieme, collettivamente, in concerto".
Bernát, l’unico ragazzino in piedi, pantalone corto e capello mosso da una leggera brezza chiese:
“Vincerete la Coppa?”.



Mesi dopo. Le nuvole sul cielo di Berna.
Puskas è ancora claudicante alla vigilia della finale, Sebes gli chiede chi avrebbe preferito vedere schierato al suo posto. Puskas fa ricorso a uno di quei monosillabi perentori che aveva appreso nella sua brevissima carriera militare e rispose aspramente: “Io! Signor Sebes, per battere i tedeschi mi basta una gamba sola, io la gamba posso appoggiarla, quindi il problema non si pone”.
Veniva dalla Puszta, Puskas, dalla pianura magiara, l’uomo che segnò più di tutti in nazionale, Ferenc Puskas da Kispest, imbronciato, tracagnotto, indolente, le mani assiduamente in tasca, l’unguento nei capelli separati dal pettine, cresciuto sulla strada, come i ragazzi della via Pal, come i ragazzi intorno a Sebes quel giorno di primavera. Puskas aveva 17 anni nel 1945 quando i tedeschi si arroccarono nella cittadella di Buda. Pochi mesi dopo, a guerra conclusa, esordì in nazionale contro l’Austria finendo subito nel tabellino dei marcatori.

“Potevo sentire la palla come un violinista sente il suo strumento, giocavo con la leggerezza di un uccello in volo”, scrisse Puskas nella sua autobiografia a proposito dello stato di grazia che lo visitava.

Sei anni più tardi si sposa con Ersebeth, giocatrice di pallamano e vicina di casa. Grosics in porta poi Puskas, Hidegkuti, Czibor, Kocsis, Bozsik … Campioni Olimpici, poi il 25 novembre 1953 a Wembley umiliano gli inglesi con un sensazionale 6-3.

Il mondiale svizzero per il cinquantenario della FIFA per l’Ungheria è una sinfonia con una nota distorta che comprometterà la composizione. Il tecnico tedesco Sepp Herberger capisce l’antifona e schiera le riserve nella partita del girone. Si, le riserve e un killer: Werner Liebrich. I magiari vincono 8-3, Puskas viene randellato a dovere e deve star fuori contro il Brasile e contro l’Uruguay. Partite tirate, sofferte, gli ungheresi arrivano all’atto conclusivo malconci, stremati; Puskas vuole ad ogni costo giocare la finale dove l’Ungheria ritrova la Germania, la Germania quella vera, e chissà perché così fresca, in forma. L’Ungheria cede 3-2 dopo essere stata in vantaggio 2-0 dopo appena otto minuti, dopo che sembrava fatta, dopo che sembrava fosse un Gulasch perfetto, di quelli cucinati su un fuoco di legna all’aperto. Invece no. Al ventesimo i tedeschi hanno già pareggiato e verso lo scadere Helmut Rahn chiude la faccenda. A Puskas fu annullata una rete in dubbio fuorigioco. Per la squadra d’oro si trattava della prima sconfitta in sei anni. La più cocente.

Gustav Sebes osservò l’orologio dello stadio, in alto sulla tribuna, capì che il tempo era scaduto, che qualcuno aveva commesso un errore di valutazione o di presunzione, sperò che i dubbi e i sospetti venissero chiariti e non depurati. Ci pensò, poi abbassò la testa e pianse per i ragazzi di Buda. Avrebbe potuto riprovarci ma l’arrivo dei cingolati sovietici spezzò in due il novecento e l’Ungheria.

Simone Galeotti

Risultato umiliante


L'ultima coppa del mondo

Quella di Middlesbrough è l'ultima partita degli azzurri in un campionato del mondo che Vittorio Pozzo potè vedere e commentare. Una "clamorosa sorpresa"; anzi, "il crollo più impressionante mai verificatosi nella storia del calcio italiano". Un resoconto breve, lucido e amaro. Del resto, Monsù aveva capito immediatamente l'antifona, già dalla prima partita, pur vinta contro il modestissimo Cile ... 

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Middlesbrough, 19 luglio.
Clamorosa sorpresa, stasera, sul campo di Middlesbrough, la Corea del Nord ha battuto per 1 a 0 la squadra italiana, i calciatori azzurri tornano a casa, schiacciati sotto il peso di una umiliante eliminazione. Fabbri, per il confronto che doveva decidere, ha dato retta alle critiche sorte dopo la sconfitta con l'Unione Sovietica. Il nostro commissario tecnico ha mutato radicalmente formazione, e, sostituito l'infortunato Burgnich con il giovane Landini, ha lasciato a riposo Salvadore, Rosato, Lodetti e Pascutti, facendo posto a Janich, a Guarneri, a Fogli, e, in certo modo, tornando all'antico per l'attacco schierato con Perani, Bulgarelli, Mazzola, Rivera e Barison. 
Neppure le sostituzioni sono riuscite a cambiare volto alla nostra compagine e, a giustificare la nuova batosta - una batosta purtroppo irrimediabile che ci toglie dal giro dei «mondiali» -, non basta sottolineare l'indubbia importanza dell'incidente che stasera è toccato a Bulgarelli verso la fine del primo tempo. L'incidente che ci ha privati del bolognese ha concorso a sguarnire il gioco di centro campo, ma bisogna pur riconoscere che, fino all'attimo del malaugurato episodio, l'Italia non aveva per niente convinto, spesso lasciandosi prendere in contropiede dai coreani, atleti più veloci, più mobili, più scattanti, spesso più abili nei confronti diretti. 
Ed è avvenuto così il crollo più impressionante mai verificatosi nella storia del calcio italiano. Ed il fatto prende la forma e la sostanza di un autentico disastro sportivo. Lo si era avvertito fin dalle battute iniziali del torneo che le cose andavano male, ma che si dovesse scadere in siffatto modo nella scala dei valori mondiali, nessuno l'avrebbe mai e poi mai creduto. Le impressioni che sentiamo attorno a noi sono tutte severe. Qualcuno accenna, qualche altro grida ad altissima voce che si tratta di un «tradimento» da parte di alcuni giocatori. E' meglio non trinciare giudizi avventati, comunque la realtà amara dice che siamo definitivamente eliminati da un campionato del mondo che si sperava addirittura di vincere. E, per carità, non parliamo di sfortuna o di disgrazia, per quanto la sorte non ci abbia davvero favoriti. 
Già alla vigilia si temeva una delusione. La delusione si è realizzata, e nel modo più brusco possibile. Nell'ambiente degli azzurri è mancata la serenità, molte polemiche sono piombate a rendere ancora più difficile e delicato il compito di un tecnico che avrebbe dovuto, invece, operare a mente fredda. In tre successive partite, ha messo in campo formazioni profondamente diverse, e accomunate in un solo malinconico particolare, l'incertezza e la scarsità di rendimento. Al successo contro il Cile, ottenuto piuttosto a stento, con una prova scialba ed opaca, sono seguite due sconfitte con l'uguale punteggio: 0 a 1 di fronte all'Urss, 0 a 1 di fronte alla Corea. Risultati squallidi, subiti da compagini senza nerbo, senza slancio, persino - all'apparenza - senza quell'indispensabile voglia di combattere.

"La Stampa", 20 luglio 1966, p. 8

La partita
Il documentario

Addio alla Seleçao

Il 18 luglio 1971, all'ora in cui in Italia tutti sono a tavola per la cena, molti si sintonizzarono sul secondo programma della RAI. Era la sera di una domenica d'estate, non c'era da aspettare la Domenica Sportiva per vedere le immagini e i campioni della Serie A. Sul primo canale trasmettevano la quarta puntata de La saga dei Forsyte, ma vuoi mettere con Brasile-Jugoslavia? Sì, era soltanto un'amichevole. Ma era l'ultima partita di Pelé. Non l'ultima in assoluto. L'ultima con la Seleçao. Ne scrisse per Stampa Sera, non credendoci davvero, Giovanni Arpino.

Speriamo che l'addio di Pelé al calcio assomigli ad uno dei tanti «brindisi» di famosi toreri (vedi, a proposito, il ritorno del quasi cinquantenne Dominguin nelle arene) e di celebri tenori, che ogni sei mesi recitano davanti a pubblici diversi e commossi una romanza eternamente penultima. A trent'anni esatti, Pelé è un «re» che può ancora tenere in pugno lo scettro. Le sue gambe sono un museo degli orrori e delle cicatrici che il football professionistico regala ai grandi eroi della «pelota», ma la saggezza è intatta, forse accresciuta, come si vide ai campionati mondiali di Messico nell'estate scorsa. 
Allora Pelé, allenato come un astronauta di Capo Kennedy, dimostrò di saper rinunciare ad un «tocco in più» tutto personalistico per far correre la palla a vantaggio di Tostao o Rivellino, suoi scudieri nella crociata del football. Allora Pelé «o rey», dovendo disputare una palla alta ad un difensore che mezzo mondo ci invidia, e cioè Burgnich, balzò come un giaguaro allungando magicamente il suo metro e sessantasette di statura, e fece gol. Allora, avendo acquisito l'ennesima libera docenza in football, Pelé, sempre contro i nostri azzurri, e benché il Brasile fosse largamente in vantaggio, seppe appostarsi al limite della propria area di rigore, rompere e ammininistrare il gioco come un vecchio leone. 
Pelé, cioè il calcio moderno: è un assioma che tutti ripetono, che milioni di persone venerano. Pelé e la «pelota» sono due sposi che non possono divorziare davanti agli occhi del mondo. Se tra cinque anni - ammesso che si ritiri davvero - il negretto tornasse su una sedia a rotelle in un campo di football, lo stadio verrebbe riempito non da migliaia di curiosi, ma da un pubblico di intenditori che tutto ricordano, tutto sanno valutare nella memoria, e che da Pelé seduto attenderebbe ancora un «numero» specialissimo. 
Gli hanno dedicato una via, un monumento, uno stadio. E' raffigurato sui francobolli, ha inciso dischi e scritto un libro. Ha girato film e patrocinato sottoscrizioni benefiche. Ciò che tocca è oro. Perché dovrebbe ritirarsi? Il suo declino fisico è indubbio, ma non così appariscente. Una squadra impostata su di lui potrebbe ancora dominare le grandi competizioni sportive. Pelé è stanco? Pelé dice e fa sapere di essere stato troppo sfruttato e che i tecnici della federazione brasiliana lo usano da anni come un'etichetta per richiamare gente intorno alla Nazionale «carioca». E afferma di essere disposto a giocare per la squadra, il Santos, fino al '74 (l'anno dei prossimi mondiali, guarda un po'), ma non più con la maglia gialloverde del suo paese. Gli eroi pagano un prezzo salato nel professionismo sportivo contemporaneo: Pelé, miliardario e bonaccione, si dice stufo delle speculazioni politico-agonistiche che lo coinvolgono. 
Forse riuscirà a mantenere la propria parola, forse cederà ad ennesime pressioni. A un bel momento, nel cuore di un campione, la ragione segreta del gioco vince. E Pelé giocherà ancora, per mezzo tempo o per pochi minuti, secondo quanto comanda non solo un contratto ma anche l'istinto. 
E' stato davvero il più forte? Da Rivera a Charlton, da Facchetti a Liedholm, le testimonianze sono indubitabili: nessuno, dal centrocampo fino all'area avversaria, ha mai dimostrato a memoria d'uomo la sua capacità di dribblare, di toccare coi due piedi, di inventare un'azione o una «finta», di fuggire in gol, di far secchi decine di portieri avversari. A tutto campo, il suo gioco forse cede qualcosa al grande Di Stefano: ma nei 40 metri non ha avuto rivali, per fantasia e coordinazione, per genio creativo e lucidità manovriera. In Italia fu fermato da Trapattoni. Era il '63, un anno di crisi per il grande «rey». Eppure proprio con Trapattoni appiccicato alle costole, eseguì a San Siro un «numero» incredibile: in elevazione per accogliere un pallone alto lo fermò con la fronte, lo fece scivolare fino alla caviglia e ripartì lasciando di sale il suo controllore giù per le terre. Un miracolo di armonia muscolare e di talento in football
Per questo speriamo che Pelé non s'arrenda, malgrado tanta fatica, tanta schiavitù contrattuale, tanto denaro messo in cassaforte. E' stato detto: dopo Pelé non sarebbe più football. Non è vero: lo si affermò in Inghilterra ai tempi di Matthews, in Italia ai tempi di Meazza, in Spagna dopo gli anni di Di Stefano. Il football rimarrebbe tale anche dopo Pelé. Sarebbe soltanto un peccato non rivedere «o rey»: anche acciaccato, anche prudente, ma così felino nel tocco, così sobrio nell'amministrare un pezzo rotondo di cuoio, cosi incredibile nella fucilata verso la porta. E così naturale nel commentare se stesso e tutte le questioni che riguardano una palla. In Messico, l'estate scorsa, gli si chiedeva che cosa pensasse dei suoi successivi marcatori diretti. Nel suo italiano composto di otto parole (di cui quattro oscene) rispondeva ridendo allegramente: «Mi picchieranno come al solito». 
E come al solito, lui andava in gol. Perché, pur condizionato e sfruttato, si divertiva, si diverte. E' in questa luce che noi non vogliamo credere, per ora, ai suoi addii.

Giovanni Arpino
"Stampa Sera", 19 luglio 1971, p. 3

Per la partita: qui

Il grande campione dalla tragica morte

Le cronache di Monsù
'Stampa Sera', 26 gennaio 1939
Vittorio Pozzo ricorda Matthias Sindelar


"Sindi", oppure "der Papierene" - traduzione libera italiana: carta velina - lo chiamavano a Vienna. Aveva, sì, struttura atletica, nel senso che era alto, slanciato e che i suoi lineamenti esprimevano energia e decisione. Ma era magro, secco, asciutto in modo impressionante. Di muscoli non ne aveva, di consistenza non ne mostrava. Di profilo pareva piatto, sottile, trasparente, come se - scusate la frase alpina un po’ irriverente che viene in mente – la madre ci si fosse, per errore, seduta su appena nato.
A vederlo giuocare, si trasformava. Era il padrone della palla, l’artista della finta. Quando esordì nella nazionale austriaca non trovò buona stampa: troppo leggero per il combattimento, troppo etereo per l'infuocata atmosfera degli incontri dove l'Austria era la squadra da battere, allora. Durò poco la diffidenza: nello spazio di pochi mesi si trasformò in entusiasmo. "Sindi" aveva capito quello che si voleva da lui. Alla mancanza di fisico sopperì subito con l’intelligenza. Aveva appreso a smarcarsi in modo magistrale. Lasciato libero, distribuiva, smistava, dettava temi di attacco, diventava la vera intelligenza della prima linea. Toccato duramente piativa, assumeva quell’atteggiamento da vittima a cui il viso color cartapecora ed il fisico di tipo fragile così ben si prestavano. E, pur vivendo in una città che i suoi campioni li idolatrava, fu amato come pochi. Uridil, il famoso “tank” del Rapid, ebbe l’onore di una delle più popolari canzoni di Vienna; Siegl ricevette il nomignolo di "Burgmeister", = Podestà, ma Sindelar divenne un idolo.


7 dicembre 1932, Stamford Bridge, London
Una fase di Inghilterra-Austria
Aveva nel suo giuoco davvero di che entusiasmare. Il suo repertorio era il più schiettamente viennese che si possa immaginare. Maestro della finta, si è detto. La sua non era una finta scomposta, plateale, marcata. Era un accenno, una sfumatura, il tocco di un artista. Fingeva di andare a destra e poi convergeva a sinistra con la facilità, la leggerezza, l'eleganza di un passo di danza alla Strauss, mentre l'avversario, ingannato e nemmeno sfiorato, finiva a terra nel suo vano tentativo di carica. Allora, quando questo suo giuoco gli riusciva, "Sindi" si ispirava: come il vero artista. Non v'era più modo di tenerlo a freno. Sgusciava via, prendeva finezze di tocco impensate, ridicolizzava l'avversario, finiva per fare, lui così evanescente, la figura di un gigante. Chi non lo ha visto a Vienna, al tempo in cui noi prendevamo lezioni, o nella primavera del 1931 contro la Scozia, od a Londra, a Stamford Bridge, sul finire dell'incontro con l'Inghilterra, non ha visto niente. 

Luisito Monti
Toccarlo, toccarlo duro, ecco, erano guai. Ne sa qualche cosa il nostro Monti, della Juventus. Non si volevano un ben dell'anima, i due. Una di quelle antipatie, naturali, istintive, irresistibili. Al viennese non piaceva il tono maschio, positivo, deciso di Luisito. L'italiano non gradiva quella danza da ballerina che gli si faceva davanti, come una beffa, non gradiva soprattutto l'atteggiamento da defunto che l'avversario, previa invocazione agli Dei per un "rigore", assumeva quando caricato. Sindelar non era come il corinthiano ed evangelico S. S. Harris. Sindelar credeva nel "rigore" e lo cercava. Lo cercava anche negli sgradevoli contatti con Monti. Sindelar a terra che fa il morente colla mano tesa in un ultimo gesto implorante all'arbitro vendicatore, e Monti che con uno sguardo che definisce di farsa la intera scena, torna indietro, pacifico, ecco l'episodio ricorrente degli incontri Italia-Austria di lunghi anni. Tre quarti della impopolarità di cui fu vittima Monti sui campi oltre confine fu dovuta alla campagna inscenatagli perché aveva osato e continuava a osare toccare tecnicamente ed abbattere materialmente un idolo.

Hugo Meisl, "il defunto commissario
tecnico austriaco"
Come molti che hanno onorato il nome della defunta Austria in campo calcistico - a volersi soffermare a questo solo - Sindelar era di origine boema. Un giorno, non molti anni fa, uno dei dirigenti austriaci più in vista, il dirigente responsabile per eccellenza, a conclusione della presentazione a un'alta autorità straniera della "squadra dei miracoli" - Zischek, Szesta, Adamek, Kaburek, Sindelar, Bican - tutti nomi lontanissimi dalle radici o dalle caratteristiche teutoni, si volse ad un amico, ed aggiunse sottovoce: 'lauter Tachechen': ceki tutti quanti. Era di origine ceka anche lui, il defunto commissario tecnico austriaco. 

Non è morto da eroe questo idolo delle folle danubiane. Pare che strida, che urti col senso morale, il fatto che un uomo ammirato, idolatrato per le sue virtù atletiche ed artistiche, muoia nelle braccia di una donna o, o per le meno, per mano od in compagnia con una donna. Eppure la cosa è così umana, che la folla che lo ha tanto amato gli perdonerà anche questo suo modo di allontanarsi dalla vita. E’ stata l’ultima sua “finta”…
Gli sportivi italiani, che lo hanno a suo tempo ammirato e temuto, i calciatori nostri, che nella conquista del primato mondiale considerarono lo studio per neutralizzare l’opera di “carta velina” come una delle più difficili tappe della loro marcia, si inchinano davanti alla scomparsa dell’uomo in cui non vedono più l’avversario, ma il collega, l’artista, il supremo esponente di una scuola. Lo salutano commossi.