Da intercontinentale a globale

Il Fußball-Club Bayern München ha dunque alzato il 21 dicembre 2013, nello Stade de Marrakech, la sua prima Coppa del mondo per club, che va a far bacheca con le due Intercontinentali vinte nel 1976 e nel 2001. E' il quinto titolo del 2013 per i Roten: un anno indimenticabile, transitato senza soluzione di continuità dal Triple con Jupp Heynckes ai trofei internazionali con Josep Guardiola. Al predominio nazionale ed europeo, la squadra, ricca di campioni, ha aggiunto anche quello mondiale. Ma che cosa ha vinto esattamente il Bayern in terra d'Africa? L'occasione è buona per qualche riflessione sul significato che ha assunto l'ennesimo torneo organizzato dalla FIFA.

19 settembre 1962, Estádio Jornalista "Mário Filho" - Maracanã (Rio)
Edson Arantes do Nascimento giocò nella finale d'andata
contro il Benfica una delle sue grandi partite da O Rei
Come è noto, la FIFA Club World Cup si propone dal 2005 come ideale prosecuzione della Intercontinental Cup, un trofeo che fu avviato autonomamente nel 1960 dalle confederazioni calcistiche europea (la UEFA) e sudamericana (la CONMEBOL) per fare incontrare le migliori squadre dei continenti che avevano generato e fatto crescere il gioco del calcio (Gianni Brera usava dire che "se l'Inghilterra è la madre del calcio, l'Uruguay è il padre"), e aggiudicare il titolo di migliore squadra intercontinentale (e, sottinteso, del mondo). A giocarselo erano la vincitrice dell'europea Coupe des clubs champions européens, che era stata avviata nel 1955 [vedi], e la vincitrice dell'equivalente sudamericana, la Copa Campeones de América, che fu invece inaugurata nel 1960 proprio per poter selezionare la squadra da contrapporre a quella campione d'Europa. Lo scambio intercontinentale fu favorito anche dal coevo boom dei voli aerei transoceanici che nei primi anni 1960s cominciò a rendere più piccolo il pianeta, sostituendo definitivamente i lunghi viaggi per nave.

La storia della Coppa intercontinentale e della sua continuazione come Coppa del mondo per club può essere distinta utilmente in quattro fasi. La prima è quella pionieristica e, per molti aspetti, mitologica perché più raccontata dai giornali che intravista dalle televisioni in bianco e nero [vedi la Cineteca]. A giocarsela furono, negli anni sessanta, un pugno di squadre incastonatesi nell'immaginario collettivo: il grande Real Madrid (che si aggiudicò la prima edizione con i gol di Puskas, Di Stefano e Gento), il Peñarol di Montevideo (2 coppe), il Santos di Pelé (2 coppe), l'Inter di Herrera (2 coppe), il Racing Club di Avellaneda, l'Estudiantes de La Plata e il Milan di Rocco e Rivera, per stare alle vincitrici. Tra le sfidanti furono anche il Benfica di Eusebio, l'Independiente di Avellaneda, il Celtic di Jock Stein e il Manchester United di Bobby Charlton. Questa fase eroica della competizione, nutrita di partite di andata e ritorno con eventuale spareggio, perse improvvisamente la sua aura il 22 ottobre 1969, alla Bombonera di Buenos Aires, quando gli argentini (non solo quelli in campo, ma le stesse forze dell'ordine) trasformarono la gara di ritorno tra Estudiantes e Milan in una caccia all'uomo, di cui il volto tumefatto di Nestor Combin è rimasto imperituro emblema.

22 ottobre 1969, La Bombonera, Buenos Aires
Il vicepresidente del Milan Federico Sordillo
consola con una carezza Nestor Combin,
massacrato in campo dagli argentini dell'Estudiantes
(frattura del naso e dello zigomo)
Fu il clima surriscaldato delle trasferte in Sudamerica a mettere in crisi la Coppa. I club europei avevano partecipato alle prime edizioni nella convinzione che vincere il nuovo trofeo valesse davvero il blasone della supremazia planetaria. Nell'atteggiamento crescentemente aggressivo dei sudamericani, e in particolare degli argentini, si esprimevano non solo ancestrali memorie - la loro coppa continentale fu dedicata ai Libertadores de América, liberatori dai domini imperiali europei, cioè - ma anche il malcelato rancore nei confronti del crescente potere economico dei club europei, che cominciavano a saccheggiare in modo sistematico i campionati sudamericani dei migliori giocatori. L'esito fu che le principali società del Vecchio continente si rifiutarono di affrontare insidiose trasferte fino alla fine del mondo col rischio di subire intimidazioni ambientali e di mettere a repentaglio la carriera dei propri campioni, spesso grazie anche ad arbitraggi scandalosi. Furono l'Ajax e il Bayern - dominatori per sei anni consecutivi della Coppa dei campioni (1971-1976) - a segnare una discontinuità: entrambe rinunciarono a due edizioni, limitandosi a partecipare e a vincere quelle del 1972 e del 1976. Sul loro esempio anche il Liverpool e il Nottingham Forrest rinunciarono del tutto a recarsi in Sud America negli anni successivi. Per l'Europa finirono col partecipare le finaliste della Coppa dei campioni: il Panathinaikos, la Juventus (che ottenne di giocare una finale secca a Roma), il Borussia M'bach e l'Atlético Madrid. Solo quest'ultimo vinse il trofeo (nel 1974, ascrivendo all'albo d'oro l'unico caso di un vincitore non campione continentale). In due occasioni (1975 e 1978) la competizione non si svolse nemmeno, con la scusa ufficiale che i club non erano riusciti ad accordarsi sulle date in cui disputare la competizione. Quando nel 1979 a presentarsi ad Asunción in Paraguay contro l'Olimpia fu il Malmö Fotbollförening fu chiaro a tutti che la competizione di Puskas, Pelé, Corso e Rivera era ormai decaduta di significato e importanza.

9 dicembre 1984, National Stadium, Tokyo
I giocatori dell'Independiente festeggiano la seconda Intercontinentale
vinta dal club. Il Liverpool è invece l'unica società di grande tradizione
a non averla mai vinta
A risollevarne le sorti fu l'incipiente trasformazione del gioco in prodotto commerciale, mercé la televisione. Nel 1980 la multinazionale giapponese Toyota rilevò da UEFA e CONMEBOL i diritti di sfruttamento economico della Coppa e impostò una formula efficace: partita secca, nel dicembre di ogni anno, al National Stadium di Tokyo, trasmessa in mondovisione in orari compatibili con entrambi i continenti interessati. Alla vecchia coppa, i nipponici affiancarono la Toyota Cup, primo esempio di sponsorizzazione del titolo di una competizione calcistica di vertice. A farne le spese furono i tifosi europei e sudamericani abituati a vedere le partite allo stadio, ma in compenso crebbe enormemente l'audience televisiva intorno alla quale cominciò a crearsi una tifoseria planetaria, in primo luogo asiatica, caratterizzata da due qualità (agli occhi dei organizzatori): non violenta come gli hooligans britannici o i barras bravas latini, e predisposta a "consumare" disciplinatamente il prodotto (televisione, magliette, presto anche videogiochi, etc.). Le edizioni degli anni 1980s divennero un appuntamento calcistico realmente mondiale, consumato davanti agli schermi, e connotato esteticamente da un campo di un colore indefinibile tra il marrone e il verde, e spesso ingrigito dai rigori invernali, dalla luce radente del sole, dall'impasto metallico del suono delle trombe e delle urla dei tifosi. Un'estetica non priva di fascino anche alla prova del tempo.

Se consideriamo nel loro insieme le 25 edizioni della terza fase della storia della Coppa intercontinentale (1980-2004) si rileva la progressiva affermazione delle squadre europee: se ancora negli anni 1980s le sudamericane furono capaci di vincere ben 7 edizioni contro 3 (prima europea la Juventus di Trapattoni e Platini nel 1985), nei 1990s la proporzione si rovesciò a favore delle rappresentanti del Vecchio continente (7 vs 3, ultimo il Vélez Sársfield nel 1994). Nelle cinque edizioni del 2000s solo il Boca Juniors di Carlos Bianchi e Martin Palermo è stato capace di battere Real Madrid e Milan. La linea di fondo tese, non per caso, a coincidere con il definitivo rafforzamento economico dei club europei nell'epoca delle dirette televisive a pagamento e di formati commercialmente vincenti come la Champions League e la Premier inglese. Tra il 1995 e il 2002, ben 7 intercontinentali su 8 sono finite in Europa, contribuendo a rendere la Coppa un trofeo agonisticamente sempre meno interessante e in progressivo calo di audience.

14 dicembre 2010, "Mohammed Bin Zayed" Stadium, Abu Dhabi
Un'altra giornata storica del calcio africano: il Tout Puissant Mazembe
festeggia la vittoria in semifinale contro i brasiliani dell'Internacional
Col nuovo secolo è entrata in scena la FIFA guidata da Sepp Blatter che ha rilevato il torneo cambiandone formula e dizione, nel solco della politica ecumenico-commerciale intesa a rafforzare il consenso e il blocco di potere multinazionale (gestionale, finanziario e commerciale – in una parola: affaristico) che fa capo al colonnello in pensione dell'esercito svizzero. Dopo un'edizione di prova nel 2000, dal 2005 la coppa si è trasformata nella FIFA Club World Cup, riservata ai club vincitori dei tornei continentali delle sei confederazioni calcistiche internazionali e a un club del paese che ospita la manifestazione secondo un tabellone a eliminazione diretta. La dimensione è, a questo punto, globale. Non solo per la dilatazione planetaria dei bacini televisivi ma anche per l'erosione in atto dei rapporti di forza tra le rappresentanti dei diversi continenti, che tende a un progressivo livellamento dei valori e a un potenziale, futuro, rimescolamento delle gerarchie e delle tradizioni calcistiche. 

Se si considerano con attenzione gli esiti delle nove edizioni finora disputate, dal 2005 al 2013, emergono infatti alcune linee di tendenza. In primo luogo, le sedi: per 8 volte asiatiche, nell'ultima edizione per la prima volta africana; il Giappone ne ha ospitate 6, ma sembrerebbe più per effetto inerziale della tradizione precedente. Con la prossima del 2014, che sarà nuovamente ospitata in Marocco, le ultime edizioni saranno state organizzate, infatti, 4 volte su 6 da paesi arabi e musulmani. Muta la geografia, in sostanza, che segue i flussi di ricchezza. Non è un caso che l'ultima volta che una finale intercontinentale è stata disputata in Sud America e in Europa fu nel 1979: 35 anni fa. E non sembrano esserci segnali, soprattutto economici, perché la competizione vi faccia ritorno a breve. Anche il mondiale per club conferma, cioè, quanto avevamo rilevato qualche tempo fa in relazione al mondiale per nazioni, per il quale l'Europa dovrà attendere perlomeno il 2034 per rivederne uno giocato nei vecchi paesi della tradizione calcistica [vedi].

21 dicembre 2013, Stade de Marrakech, Marrakech
Lo Zar del Calcio Globale premia il miglior giocatore della squadra
campione del mondo attorniato da re, delfini e belle hostess
I risultati sportivi sono forse ancora più interessanti: il predominio delle squadre europee ne esce confermato, con 6 vittorie su 9 edizioni. E' però il dato delle sudamericane il più significativo: 3 vittorie, ma anche solo 7 finali disputate su 9. Dal 2007 le squadre sudamericane non solo hanno vinto solamente nel 2012 con il Corinthias, ma sono arrivate alla finale soltanto 5 volte. La novità è rappresentata dai club africani: nelle ultime 4 finali, per ben due volte i vicecampioni del mondo sono stati loro: nel 2010 il Tout Puissant Mazembe, nel 2013 il Raja Casablanca. Se la prima volta si poteva pensare a un caso, venato di folclore, la seconda finale raggiunta sembra indicare una linea di tendenza. Se confermata, non solo avremo a breve un'altra finalista del continente nero, ma magari anche un club asiatico. In attesa che anche la distanza tra i "super club" europei [vedi] e quelli degli altri continenti si riduca.

Uno scenario plausibile per una finale nel secondo lustro di questo decennio è allora quello che vedrà contendersi il titolo mondiale, a Dubai, un club europeo di proprietà araba - Manchester City o Paris Saint Germain - e un club asiatico - coreano o giapponese, ma magari anche cinese. Allenatori plausibili un europeo per la squadra asiatica, e sudamericano per quella europea. Campioni decisivi i giocatori di origine africana e sudamericana. Arbitro nordamericano, quarto uomo australiano. Esclusiva per i canali internet e televisivi? beIN Sport, ovviamente ... Sarebbe il segno della discontinuità definitiva rispetto alla tradizione culturale del calcio novecentesco, di cui la Coppa Intercontinentale degli anni sessanta aveva rappresentato evidentemente il massimo sviluppo possibile. Piaccia o meno, ormai la direzione intrapresa è quella del calcio globale. 

Azor

Accurate schede riassuntive di ogni edizione sono in Storie di calcio

Italia-Argentina (5 dicembre 1954): prima della partita

Le cronache di Monsù
5 dicembre 1954

Con notevole lucidità, Pozzo presenta Italia-Argentina (mai affrontatesi prima), insistendo sulle incognite di due tradizioni calcistiche in difficoltà, ma preventivando l'esito del match, pressoché garantito dalla maggiore pragmaticità degli azzurri. Notevole anche lo sforzo per non evocare mai Foni (nuovo CT azzurro), e il catenaccio da lui praticato (con successo) all'Inter (mai direttamente menzionata). Beh, era pur sempre l'inviato de La Stampa, quotidiano torinese ...


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Roma, 4 dicembre.
La squadra nazionale italiana, quella di grado più elevato, affronta oggi la sua prima impresa della stagione. Avrebbe voluto, anzi dovuto, entrare in agone già qualche settimana fa, l'unità che rappresenta i nostri colori, ma ha dovuto rimanere ferma per mancanza di oppositori. Ritorna ora alla ribalta in circostanze che non possono essere definite se non col termine generico e comprensibile di speciali. 
Viene, la squadra nostra, da un rovescio riportato nel campionato del mondo dell'estate scorsa in Svizzera, un rovescio che nell'ambiente calcistico del Paese ha suscitato una mezza rivoluzione, la quale a sua volta si è risolta, secondo la consuetudine ultima, in parole, in programmi, in propositi, finora. Le compare davanti, come avversaria, una squadra che è un'incognita, forse la più grande incognita che il momento può offrire. Una squadra che viene da lontano come di più non si potrebbe. Una squadra che aveva una volta caratteristiche tecniche proprie ben definite e molto apprezzate, ma che si era da qualche tempo ritirata sotto la tenda e che al campionato del mondo era stata appunto una delle grandi assenti. 
La situazione è quindi quella di una nobile decaduta che vuole rientrare a corte, e che per farlo deve misurarsi con un'altra nobile che era andata volontariamente a riposo e che vuole rientrare nei ranghi. Una situazione che è nebulosa, pericolosa come è e insignificante come può essere per ambo i contendenti. Ognuno dei quali può dire con approssimazione che non sa quanto valga l'avversario, ma deve con sincerità riconoscere che non sa quanto di positivo ci sia in se stesso. Nessuno dei due ci può veder chiaro. Stato di incertezza massima, quindi. 
Delle condizioni in cui si presenta a noi l'undici rappresentativo dell'Argentina, già si è detto. Internamente, l'ambiente del Paese è contento di sè, sotto il punto di vista tecnico. Le società non sanno come sbarcare il lunario, economicamente, ma il campionato offre spettacoli di prim'ordine ed appaga i desideri del pubblico. Al quale piace, non diciamo la coreografia, ma certo il lato artistico estetico brillante spumeggiante del gioco. La ripresa, lo sviluppo tecnico ci sono senza alcun dubbio, nell'Argentina d'oggi. Ma per giungere dove essa è giunta, ha seguito vie proprie, vie che possono anche risultare improduttive dal lato pratico una volta messe a confronto con quelle seguite sul vecchio Continente. 
Per convincersi che si tratta di concezioni diverse, di una mentalità differente, basta pensare a quella tendenza dell'Argentina a giocare a gambe nude dal ginocchio in giù, e confrontarla con la corazzatura in uso da noi. Nell'ambiente nostro tutto è serio, positivo, quasi arcigno; vincere a qualunque costo e con qualunque mezzo bisogna. Nell'ambiente loro, quello degli argentini, pur se gli incidenti per nervosismo o irascibilità si verificano, il gioco, specialmente in chi scende in campo per praticarlo, ha conservato carattere precipuo di divertimento: tanto che non si segue certamente la via più breve per giungere al risultato, tanto che si ha l'impressione che spesso del risultato medesimo ci si dimentichi. 
Sono in parecchi coloro che, fuori del nostro Paese, ritengono che il calcio argentino attuale sia lontano dal grado di levatura tecnica di quello di una volta. Siamo un po' anche noi di questa idea. Lo eravamo già prima di andare a Lisbona domenica scorsa. Di tecnici come Pedernera, come De la Mata, per non citare che due esempi, noi non ne vediamo, fra gli uomini dell'ultima generazione argentina. E certo modo di giocare, basato non sull'efficienza ma sul virtuosismo e sull'estetica pura, si trova sempre in pericolo di svanire da un momento all'altro nell'evanescente. 
La situazione tecnica del calcio italiano è, fino a prova contraria, in campionato e in campo internazionale, quella che è stata in questi ultimi anni. Incerta, confusa, irreale quasi in alcuni casi. In campionato la squadra che è riuscita a imporsi chiaramente su tutte, la sola che possegga levatura e regolarità di contegno, non può essere assunta a indice del valore del gioco italiano, perchè composta quasi per la metà da elementi di nazionalità o di scuola straniera. La nostra competizione nazionale non ha dato di sè finora che dieci delle trentaquattro tappe che il suo programma comprende: non ci si sbaglia se si considera la sua situazione tecnica generale come stazionaria rispetto alla stagione scorsa. 
In campo internazionale è stato cambiato il comando sotto cui l'attività si svolge. Un intero ministero è stato creato per organizzare e dirigere il movimento: molte persone invece di una o di poche per selezionare e guidare i giocatori che devono scendere in campo. Di essere pratico e utile il nuovo sistema di comando non ha ancora fornito prove finora. Non ne ha ancora nemmeno avuto l'occasione. La sola prova tentata, quella relativa all'undici cosiddetto della primavera, ha avuto un esito tutt'altro che incoraggiante. 
La prima scelta degli uomini da contrapporre agli argentini aveva rivelato una specie di complesso di inferiorità che dominava l'ambiente. Convinti di non poter giocare ad armi pari, si ricorreva da parte nostra, a mezzo di uno dei tranelli soliti alle squadre deboli in campionato, a una rinuncia e al lancio di un bastone fra le ruote dell'ingranaggio dell'avversario. Ci si avvide a tempo e si cambiò piano di azione. E col piano si cambiarono anche alcuni degli uomini. E ora la squadra nostra scenderà in campo - almeno pare - senza preconcetti piani guastatori o demolitori, giocando aperto, lasciando cioè che l'avversario dica la parola che crede e tentando essa di dire la sua. E', riteniamo, la miglior politica tecnica, la più sincera, è quella che migliori indicazioni può fornirci per l'avvenire. 
La formazione nostra in sé, è nuova. Ad essa si è giunti con l'abbandono di elementi che finora non avevano mai dato un rendimento notevole in maglia azzurra, con l'inserimento in squadra di quattro nuovi giocatori, e per le rimanenti posizioni con la preferenza riservata a uomini di peso, di energia e di volontà. Quale possa essere il rendimento che l'undici sarà in grado di fornire è ben difficile prevedere, tanti sono gli aspetti sotto i quali esso pare avulso dal passato recente della nostra nazionale. 
Noi non ci meraviglieremmo affatto se gli azzurri dovessero uscire vincitori dalla prova di domani. Ne hanno la possibilità, nel caso in cui l'Argentina non sappia elevarsi al di sopra del livello di tecnica e di rendimento raggiunto a Lisbona domenica scorsa. In altre parole, la squadra nazionale argentina va considerata come superiore a quella italiana in pura linea tecnica. Ma esiste una differenza che può essere anche notevole fra le possibilità e l'efficienza reale dell'undici sudamericano. Se questo non fornirà una prova migliore di quella fornita contro il Portogallo, sta nel limite delle capacità e delle possibilità di una compagine italiana funzionante in modo normale di chiudere l'incontro con una vittoria. 
La partita trae uno dei suoi motivi principali d'interesse dall'incertezza che regna sul comportamento che terranno in campo i due contendenti, quello dell'uno potendo decisamente influire su quello dell'altro.

Tabellino e immagini qui (Cineteca); vedi anche in Calendario, sub data

The Welsh Wizard




Guardandolo, immagini trascorra le sue giornate dietro una scrivania, ai piani nobili di Old Trafford, studiando i dossier degli osservatori; oppure sui campi di allenamento: chi meglio di lui potrebbe insegnare i fondamentali del football ai ragazzini? Stempiato e ingrigito, Mister Ryan Giggs mostra persino qualche anno in più dei quaranta che da oggi ha. Invece, non di rado trascorre tuttora il sabato sul palcoscenico del Teatro dei Sogni, e certo non prenota un divano o un tavolo al pub con vista tv per le serate di midweek consacrate alla Coppa. Di tanto in tanto, il suo piede mancino estrapola ancora da un repertorio antico (e che il tempo ha via via raffinato), colpi che producono sussulti del cuore in chi sa che, presto e inevitabilmente, il vecchio ragazzo riporrà scarpe e magliette nel baule; e che a quel punto gli anni migliori dei Red Devils, l'infinita epopea che ha superato quella dei Busby Babes, saranno davvero alle spalle.


Lui, The Welsh Wizard, non dev'essere uno incline a coltivare rimpianti. Gli basterà guardare la bacheca - e ricontare i trofei che ha vinto, sono moltissimi e difficili da tenere a memoria -, oppure rivedersi nelle immagini filmate di decine e decine di dribbling vincenti, di cross magistrali, di gol entusiasmanti. Probabilmente, agli inglesi sarebbe piaciuto che fosse inglese e non gallese. Avrebbe dato all'XI albionico estri efficaci, e cioè imprevedibilità non fine a se stessa; esattamente ciò che ai Tre Leoni è sempre mancato, nel confronto con le altre nazioni del mondo. Probabilmente, ai tifosi del City sarebbe piaciuto che i dirigenti degli Sky Blues fossero più accorti, e che Ferguson non glielo soffiasse da sotto il naso, il giorno in cui Ryan compiva 14 anni. Già. Il 29 novembre 1987, mentre i boriosi capoccioni dei Citizens decidevano di attendere una visita del ragazzo in sede, il manager scozzese e Joe Brown (allora capo degli osservatori United) recapitavano personalmente gli auguri di buon compleanno al giovane e talentuoso gallese, corredati da un contratto che lo condurrà al professionismo in tre anni.

Il limpido talento di questo Benjamin Button del football fu scovato nei campi di periferia da un lattaio. La famiglia Wilson-Giggs, proveniente da Cardiff, si era appena trasferita a malincuore a Swinton (Salford), cittadina della contea della Greater Manchester, per seguire il capofamiglia Danny Wilson, rugbista del Cardiff RFC, acquistato dagli Swinton Lions. 
Ryan Wilson e Dennis Schofield
Ryan Joseph Wilson aveva otto anni, frequentava il Grosvenor Road Primary e tra calcio e rugby divideva la sua passione sportiva. Buon sangue non mente, e Ryan – che cominciava a forgiare il proprio corpo in mischie con rivali decisamente più robusti di lui – suscitò presto l'interesse delle squadre di rugby di Wigan e St Helens. Ma fu durante una partita di calcio nel campetto della scuola che Wilson junior venne notato da Dennis Schofield, milkman e osservatore part-time del Manchester City, fulminato dalle giocate del bambino: «He was like a gazelle: tall, slim, motoring up the wing». Schofield, con un discreto passato da calciatore (nel 1952, di leva nellʼEsercito Britannico, giocò la finale della Army FA Challenge Cup contro un certo John Charles), fiutò all'istante la succulenta opportunità: parcheggiato il camioncino del latte, intercettava a bordo campo Lynne Giggs, madre di Ryan, e - dopo un'opera di convincimento durata qualche minuto – il figlio era ufficialmente la stella del Deans Youth Club, allenato e gestito dallo stesso Schofield.
Il campioncino dà spettacolo in alcuni tornei estivi sull'isola di Wight, la sua fama corre veloce e gli avversari spesso, nel prepartita, si avvicinano a Schofield per sapere se Ryan giocherà, orgogliosi di poter raccontare di aver duellato con una futura star. Si avvicinava così il traguardo dei 14 anni, quando Ryan poteva essere messo sotto contratto dai grandi clubs: e se Schofield spingeva verso l'amato  City, Ryan era un vero fan dello United. 

Del contratto, si è già detto. Due anni dopo Ryan Wilson venne convocato nella rappresentativa scolastica inglese (under 16): il 10 luglio 1989 ne indossava la fascia di capitano per il match giocato e vinto contro la Repubblica Federale Tedesca, nel tempio di Wembley (foto). Tuttavia, nonostante gli sforzi di Lawrie McMenemy, guida dell'Under 21, Ryan non potrà né vorrà mai più giocare per l'Inghilterra: il suo sangue è gallese, gallesi i suoi genitori (e della Sierra Leone il  nonno paterno). Nello stesso anno Ryan Wilson, sedicenne, diventava Ryan Giggs: ripudiato il cognome del manesco padre, dopo la separazione dei coniugi il ragazzo seguiva la madre Lynne. Cominciava così la lunga carriera dell'ala sinistra che corre, dribbla, segna e preserva i suoi muscoli con lo yoga e la danza: Eric Harrison, coach delle giovanili dello United, inseriva il ballet nel programma d'allenamento di Ryan per risolverne i fastidi ai muscoli posteriori della coscia, sciolti e potenziati sulle note del "Lago dei cigni".

Ryan Giggs e David Beckham
(da giovani)
Tutto quel che accadde nei successivi vent'anni è canzone nota ai più, e non mette conto di ricantarla. Basterà un ultimo cenno. Per ovvia nemesi, Ryan giocò la sua prima partita intera di Premier, nello United, a Old Trafford e proprio contro i rivali del City, e (logico per un predestinato) fu lui a deciderla: era il 5 maggio 1991, quando il ciclo vincente di Ferguson era appena iniziato. Da allora a oggi, 953 presenze ufficiali e 168 goals avvolto da quei colori – agli inizi, sulla schiena di quelle sue prime, variopinte casacche, ancora non faceva capolino il nome di chi le portava –, e mai un cartellino rosso sventolato da un referee (negli stadi del Regno o altrove nel mondo) sotto il suo naso. 

Sempre loro, un po' meno giovani
Sua più grande conquista fu, tuttavia, la stima e il rispetto di Sir Alex, che gli ha sempre risparmiato il suo celebre hair-dryer (il trattamento di "asciugatura zazzera post-doccia" riservato, nello spogliatoio dello United, ai calciatori più indisciplinati, impartito tramite ogni sorta di contumelia abbaiata sul grugno dal temperamentale manager scozzese) e, da diversi anni, pavoneggia fieramente l'inseparabile berretto rosso portafortuna con lo stemma del Galles, scippato a Giggs in una trasferta europea. 

   Cento di questi giorni, Ryan!
Duca & Mans


Hasta siempre, Ré!

Cayetano Ré Ramírez, stella paraguaiana che trionfò nella Liga spagnola, è spesso ricordato dai più per la manchevole diplomazia e un carattere energico, spigoloso, tonificato da un'infanzia modesta. Debutta nel calcio nazionale con la prestigiosa casacca del Cerro Porteño ("Club del Pueblo"), del Barrio Obrero di Asunción, sua città natale, e fa sfoggio, molto presto, del suo talento: la bassa statura, le gambe arcuate e il fisico tozzo nascondono un attaccante esplosivo, scaltro e dal temperamento strabordante. L'ottimo rendimento nella squadra cerrista porta Caye alla convocazione al Mondiale di Svezia del 1958; l'11 giugno mette a segno il suo unico gol con i Guaraníes, nel match vinto contro la Scozia.

Cayetano Ré Ramírez nell'Elche FC
La rassegna mondiale di Ré impressiona gli osservatori dell'Elche FC, appena promosso in prima divisione, e 1.5 milioni di pesetas nei languidi forzieri del Cerro lo dislocano sull'altra sponda dell'Oceano, nella Liga signoreggiata dal Real Madrid. Tre anni nel club ilicitano confermano il giudizio sullo smaliziato attaccante paraguayano, che anche sui campi europei morde, segna e guadagna l'apprezzamento generale per quei 163 centimetri di grinta e opportunismo: i movimenti rapidi in spazi ridotti, l'aggiramento dei marcatori, un senso dell'inserimento in area invidiabile lo convertono in un goleador spietato e lo spingono al grande salto. Nell'aprile del 1962 Cayetano firma per il Barça, vestendosi di azulgrana per quattro stagioni: anni in cui i culé, pur non potendo ambire a infrangere l'incontrastato dominio blanco-franchista, conquistano una Copa del Generalísimo (1963) e una Coppa delle Fiere (1966), e Ré conquista il prestigioso titolo di Pichichi (capocannoniere) nella stagione 1964-1965, con 25 gol in 30 presenze. Idolo della tifoseria per spirito, garra, fame di vittoria e funzionalità, conclude catastroficamente la sua tappa nel Barça, lamentando con la dirigenza una scarsa valutazione economica delle sue prestazioni e finendo per essere accantonato in rosa dall'allenatore argentino Roque Olsen.

Ré capocannoniere con la camiseta del Barça (temporada 1964-65)

Concluso il rapporto con il Barcellona, il Delfín goleador sfiora la maglia delle merengues, ma alla fine sposa l'offerta dell'Espanyol e consacra il resto della sua carriera sportiva – indubbiamente limitata da un carattere spigoloso – al calcio catalano, tra Terrassa e Badalona. Di animo buono e facile alla conversazione, in campo si trasforma in un demonio, un picaro dell'area di rigore: è il primo a esercitare pressione sul portatore di palla, a trarre vantaggi dove nessun altro li scorge, a segnare i migliori gol con la massima semplicità e praticità, ottenendo il massimo rendimento da una tecnica individuale fuori dal comune per i centravanti della sua epoca. Qualcuno lo ha definito, recentemente, come una miscela tra Gerd Müller, Hugo Sánchez e Romário.

Don Cayetano allenatore del Club Guaraní
La seconda vita di Caye inizia dopo il ritiro dal calcio giocato (1973), con la lunga carriera di allenatore-globetrotter in Spagna (Eldense, Almería, Ontinyent, Córdoba, Elche, Betis), Paraguay (Club Guaraní, Cerro Porteño), Cile (Deportes Temuco ), Perù (Deportivo Sipesa), Messico (América, Necaxa). Nel 1984 si laurea campione con il Club Guaraní, dopo 15 anni di astinenza, in un drammatico scontro diretto con gli acerrimi rivali dell'Olimpia, interrompendone la serie trionfale di 6 campionati consecutivi (1978-1983): chiuso il primo tempo con un passivo di 0-2, il Guaraní chiude il match con un incredibile 4-2. Ma il maggior traguardo raggiunto da don Cayetano è sicuramente la qualificazione, da CT del Paraguay, alla fase finale del Mondiale nel 1986: dopo quasi trent'anni di esilio dalla massima competizione – l'ultima apparizione nell'edizione del 1958, cui partecipò il ventenne Ré – l'Albirroja stacca il biglietto per Messico '86 vincendo il play-off contro il Cile. In seguito riuscirà a guadagnarsi il passaggio del girone e la qualificazione agli ottavi (sarà poi sconfitta dall'Inghilterra di Gary Lineker), forte dell'introduzione del sistema "europeo" della marcatura a uomo e della linea difensiva a tre, sino a quel momento sconosciuto al calcio paraguaiano.

Ré, travolgente commissario tecnico del Paraguay (Mexico '86)

Ré ottiene un altro primato nella partita Paraguay-Belgio: le sue continue proteste esasperano l'arbitro bulgaro Bogdan Dotschev, al punto da convertirsi nel primo commissario tecnico espulso nella storia della Coppa del Mondo. Forse, al ricordo di quei momenti, un sorriso avrà reso meno amari gli ultimi due anni di vita, trascorsi in un gerontocomio di Elche nella stretta dell'Alzheimer, confortato dalle visite dell'amico ed ex-calciatore, dai tempi di Asunción, Juan Carlos Lezcano López.

Qui, a Elche, Ré si è spento il 26 novembre 2013.

Duca

Inghilterra - Ungheria (25 novembre 1953)

Le cronache di Monsù
26-27 novembre 1953

Con emozione nell'immediato dopo partita, non senza ironia a mente fredda, Pozzo racconta il match del secolo e riflette sul crollo (non solo di immagine) del calcio inglese, sull'arretratezza della sua cultura, sull'inadeguatezza del 'sistema' di fronte alla più evoluta delle esperienze continentali.

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Londra, 25 novembre.
Gli appassionati di quel gran gioco che è il calcio, gli sportivi tutti possono prendere nota della data del 25 novembre 1953, debbono sottolinearla, hanno il dovere di non dimenticarla. Anche se, per loro disavventura, non sono stati presenti allo stadio di Wembley. Si tratta di una data che è destinata a fare epoca nello sport della palla rotonda. I maestri, gli inventori del moderno gioco del calcio, sono caduti, dopo mezzo secolo, per mano di uno dei loro allievi, di quello fra essi che è il più evoluto del momento.

Tecnica e velocità
Sono caduti in modo che non ammette discussioni, in modo anzi che più convincente di così non potrebbe essere. Sono stati battuti nel risultato e nel gioco, nel secondo più ancora che nel primo. Sono stati battuti in velocità, in resistenza fisica, in tecnica, in tattica, colla palla a terra e colla palla in aria, in senso di smarcamento, in arte di tiro, in lavoro costruttivo, in lavoro difensivo, anche in classe dei singoli uomini: in tutto, insomma.
L'ambiente e il riguardo verso chi aveva offerto ospitalità non permettevano esplosioni di gioia rumorose o clamorose, ma certi sorrisi e le strette di mano innumerevoli, dicevano tutto. L'Ungheria, riuscendo dove avevano fallito una decina e mezzo di altre nazioni, aveva giocato per il continente; lo aveva quasi vendicato, diremmo, se non temessimo di esagerare. Non era la gioia per la disgrazia altrui, era la soddisfazione per il raggiungimento di un traguardo a cui tutti assieme da tanto tempo si aspirava.
La squadra nazionale inglese non ha ceduto senza opporre resistenza. Ha combattuto secondo la sua tradizione. Ma, malgrado tutto, l'evento ha avuto svolgimento normale e regolare. Si è capito subito quale era la squadra migliore, si è visto immediatamente da quale parte stava l'efficienza, si è intuito fin dalle prime battute, senza possibilità di errori, a chi sarebbe spettata la vittoria finale. La resistenza dell'Inghilterra non ha fatto che gettare un gran fascio di luce sulle virtù dell'Ungheria. A tracciare In stile tennistico la strada che ha percorso il risultato per giungere dove è giunto bisogna ricostruire nel seguente modo le vicissitudini della gara: 1-0 per l'Ungheria, poi 1-1; 2-1; 3-1; 4-1; 4-2 a metà tempo; quindi 5-2; 6-2; 6-3 per un rigore. Finale che taglia la testa al toro, finale davanti al quale non c'è che da inchinarsi.Erano presenti più di cento mila persone, di cui più di 98 mila paganti. C'era sole, non nebbia, e la visibilità era buona e il campo ottimo. Come per dichiarare perentoriamente e immediatamente quali fossero le sue intenzioni, l'Ungheria ha segnato subito, fin dal primo minuto. Un'avanzata sulla sinistra, una breve schermaglia quasi sul limite centrale dell'area di rigore inglese, e di colpo il centravanti Hidegkuti rompeva gl'indugi, tagliava corto e sparava. Il tiro era un capolavoro di precisione. Alto, preciso, forte, leggermente tagliato, puntava diritto verso il lontano angolo della rete sulla destra del portiere e quell'angolo infilava inesorabilmente. La facilità del tiro è stata impressionante. E subito, a conferma che non si tratta di cosa casuale, la mezz'ala destra Kocsis, quello che passava per gravemente invalido, manca per pochi centimetri una splendida occasione e Hidegkuti segna e l'arbitro annulla per fuori gioco.
Il silenzio del pubblico
Allora l'Inghilterra, come se avesse capito con chi ha da fare, come se avesse compreso quale è la musica che si suona nella giornata, si risveglia, prende a lottare, cerca di portare il combattimento sul piano della robustezza fisica e dà per qualche poco l'impressione di poter ristabilire l'equilibrio della situazione. Riesce a colmare lo svantaggio del punteggio e nulla più. Al 16', Mortensen lancia Sewell con un bel passaggio in profondità, la mezz'ala sinistra avanza, tira In corsa e spedisce nell'angolo basso della rete sulla sinistra del portiere.
Non passano cinque minuti che i magiari vanno nuovamente In vantaggio. Su una nuova avanzata del settore sinistro del loro attacco, sono due gli avanti che piombano decisamente e contemporaneamente sulla palla per ricevere il centro. Kocsis precede il compagno suo di una frazione di secondo e segna da pochi passi. Cinque minuti più tardi Puskas avanza sulla destra, punta diritto davanti a sé, sfonda tutto, arriva a due passi dal portiere, finge di tirare di destro, gira invece su se stesso e infila di sinistro: 3-1. Passano altri tre minuti scarsi e l'Ungheria beneficia di un calcio di punizione poco fuori dell'area di rigore inglese. Tira Kocsis, la palla colpisce involontariamente il piede di Puskas e devia imparabilmente in rete. Qui, In questo ultimo episodio cioè, la fortuna ci ha messo lo zampino e ha dato agli ospiti un aiuto di cui essi dimostrano di non avere affatto bisogno.
Si profila una catastrofe dei padroni di casa. Il pubblico è piombato nel silenzio assoluto. Il linguaggio dei fatti ha parlato a questa folla d'intenditori in modo cosi chiaro e convincente da farla ammutolire. Accenna appena, questo pubblico, a un movimento di risveglio, quando, a cinque minuti dal riposo di metà tempo, Mortensen, approfittando di uno scivolone casuale di Buzanski, riesce a diminuire la distanza: 4-2 all'intervallo. E' l'atteso evento che sta per verificarsi. I centomila presenti lo hanno capito.
Si passa al secondo tempo e si ha subito la conferma che l'evento stesso può considerarsi come già giunto alla scadenza. All'8° minuto un energico attacco ungherese ingenera un attimo di confusione nell'area di rigore inglese. Mentre quattro o cinque uomini si guardano attorno alla ricerca della palla che pare scomparsa, questa rimbalza fuori area, capita nei piedi dell'accorrente Bozsik; questi ferma, prende la mira e spedisce nell'angolo lontano. Come nel tiro a segno. E Budai II completa l'opera quattro minuti più tardi. Il lavoro e l'intelligenza dell'azione che porta a questo conclusivo successo dei magiari sono tutti di Puskas: l'ala destra non ha che da intervenire in corsa, colpire al volo e segnare. Il gioco è fatto. Non lo varia il punto che il terzino Ramsey ottiene su calcio di rigore al quarto d'ora, quando il portiere ungherese, gettatosi in tuffo, trattiene per le gambe l'ala sinistra Robb. 
L'ultima mezz'ora più non avrà storia. Dal 6 a 3 non ci si muoverà. E particolari di nessuna importanza paiono il cambio del portiere che i magiari effettuano a dieci minuti dal termine, sostituendo Grosics con Geller, e la magnifica parata che Merrick eseguisce su uno splendido tiro di Hidegkuti. L'importante è che quello che doveva avvenire è avvenuto. L'emozione è giustificata.Il crollo è stato Impressionante. La narrazione Indispensabile di quegli episodi capitali che sono i punti segnati - la bellezza di nove in totale, su 90 minuti di gioco - toglie per questa sera e spazio e tempo a considerazioni di carattere tecnico e generico. La squadra nazionale ungherese, quella stessa che ci aveva Inflitto la lezione di Roma verso il termine della stagione scorsa, ha compiuto il suo capolavoro con una partita che non verrà dimenticata da coloro che hanno avuto la fortuna di assistervi. Quel complesso di uomini che da quattro anni gira i campi d'Europa nella stessa formazione, che gioca ad occhi chiusi, che funziona come una macchina ben congegnata e ben oleata, non poteva ottenere premio migliore e più risonante per le sue prodezze. 
Filosoficamente, diplomaticamente, gl'inglesi hanno accettato la sconfitta. Il che non vuol dire che la digeriscano con facilità. L'avvenimento avrà come conseguenza una piccola rivoluzione nel mondo tecnico del calcio britannico. E' cosa facile da prevedere per chi ha visto gli umori dei presenti. Ha fatto aprire gli occhi. I maestri avevano da tempo dimenticato gli insegnamenti che essi avevano impartito ai loro allievi. Questi hanno rinfrescato loro la memoria. "Ne avevamo bisogno", ha detto un tecnico dalla mente aperta come Wittaker, il direttore dell'Arsenal di Londra, scuotendo il capo che ha visto tante tempeste. Dopo mezzo secolo, è caduto il gigante, è crollato il primato più famoso del mondo. Tributiamo i dovuti onori a chi ha vinto; mettiamoci, da buoni sportivi, sull'attenti di fronte a chi è caduto.


* * *

Londra, 26 novembre

Tutti i proverbi relativi alla caducità nelle umane cose, tornavano alla memoria ieri notte nel viaggio di ritorno da Wembley al centro di Londra, viaggio diventato lungo, eterno per la nebbia che era scesa fitta e improvvisa poco dopo l'incontro e che costringeva l'automobile che ci portava a camminare a passo d'uomo. Non c'è nulla di immortale nella vita, non c'è nessuno imbattibile nello sport. Anche la nebbia cessò nelle vicinanze di Regent Street e di Piccadilly: aveva raggiunto essa pure il suo limite.
E' andato a terra un titano. E' andato a terra perché, pur nelle proporzioni smisurate che il suo fisico aveva preso, pur con il passato immenso su cui si reggeva, era un uomo, come gli altri.

Il colosso caduto

Il colosso si è portato bene al cospetto di quella sconfitta, di quell'aspetto negativo e increscevole delle competizioni sportive che fino ad allora non conosceva che di vista. Si è alzato, ha stretto la mano a chi lo aveva buttato giù, lo ha complimentato — nelle dichiarazioni ufficiali come sui giornali —, poi si è ritirato nei suoi reali appartamenti, palpandosi le costole ammaccate e la spina dorsale indolenzita. L'inglese è troppo sportivo per non comportarsi in simile modo, tiene troppo alla forma: vuole dimostrare che sa perdere come sa vincere. Il che non vuol dire che non pensi ai casi suoi. Ha cominciato subito a pensarci e, per trovare i motivi del rovescio, ha rifatto e sta rifacendo l'analisi della partita. Questione che questa analisi è tanto semplice e rapida nei suoi elementi, quanto è greve e complessa nelle risultanze. Gli elementi, da qualunque parte li si prenda, dicono tutti la stessa cosa, gli inglesi essendo stati superati dai magiari in ogni aspetto e in ogni sostanza del gioco.
La somma delle risultanze dice invece che il problema è vasto e comprensivo e che esso coinvolge certo modo di vivere del calcio britannico tutto. Non c'è nulla di più esatto e significativo della qualifica di "rappresentativa" che si attribuisce alla squadra nazionale di un Paese. Essa, salvo casi speciali e ben determinati, riflette sempre la situazione da cui deriva. E' una esperienza che hanno fatto un po' tutti i Paesi.
C'è un aspetto dell'avvenimento che avrebbe potuto avere un carattere politico, e che invece non lo ha avuto, un aspetto di cui la situazione va sfrondata subito. Che sia stata per la prima volta proprio la nazionale di un Paese d'oltre cortina ad umiliarli in campo calcistico, è cosa che certamente non ha fatto piacere agli inglesi. Ma nessuno ne ha fatto cenno. Ognuno ha tenuto per sè la gioia o il disappunto che anche per questo lato la cosa ha potuto provocare. L'interesse della questione è quindi tutto ed esclusivamente sportivo. Ed esso riguarda gli inglesi più che gli ungheresi, concerne le deduzioni dell'incontro più che l'incontro stesso. 
Degli ungheresi e della levatura a cui il loro calcio era assurta, noi continentali già sapevamo tutto. Non per nulla si era corsi in tanti fin quassù. Qui si parrà la loro "nobilitate", si era detto conoscendo che erano in grado di affrontare apertamente, francamente l'impresa. A Wembley essi si sono portati come noi li abbiamo visti portarsi altre volte, forse un po' meglio, certo ancora con un margine da far supporre, che un po' più in alto ancora essi possano, sotto il pungolo delle circostanze, salire. La clamorosa vittoria riportata ha un nesso diretto e logico con il loro passato recente. E' una tappa di una lunga marcia. Ha il valore di una conferma.
Questo per noi, naturalmente. Per gli inglesi, no. L'inglese è nello sport in genere, nel calcio in ispecie, un po' quello che è nella vita civile, normale. Non ama le lingue estere, non le capisce, non vi si dedica. E' questo un concetto che già altre volte abbiamo espresso. Di fronte a chi parla sul campo la lingua sua, ragiona, davanti a chi escogita nel gioco idee e ritrovati nuovi, al cospetto di chi dice cose inedite o non consacrate dalla storia o dalla pratica, aggrotta le ciglia e ha bisogno di spiegazione. Wembley, l'altro giorno, glie ne ha appunto data una, di queste spiegazioni. Appunto per le tendenze tradizionali, ataviche diremmo quasi, di chi lo pratica, il calcio inglese è cosa stereotipata, meccanica. Nelle linee direttive e nei particolari del gioco le sue squadre di calcio si rassomigliano tutte, pronte tutte a copiare su uno stesso stampo. Si gioca a Manchester come a Londra, a Portsmouth come a Newcastle. Non appena un argomento nuovo compare all'orizzonte, tutte lo copiano, tutte lo adottano. Tutti ragionano così sulla stessa falsariga, per cui, quando ognuno di essi incontra qualcuno che segue altra linea, si ferma interdetto. A consolazione dei latini si potrebbe dire che si tratta degli inconvenienti della vita troppo ordinata, del rovescio della medaglia della disciplina. 
A noi italiani non succederebbe mai di cadere dalle nuvole perché ci imbattiamo in qualcuno che fa l'opposto di quello che dovrebbe fare. Il 'sistema', portando concetti di matematica nel gioco, ha recato il suo contributo alla creazione di questo stato di cose nel calcio inglese. Abbiamo sentito con le nostre orecchie una autorità del calcio britannico ripetere ieri sera che l'assenza di un uomo come Herbert Chapman, il direttore dell'Arsenal e inventore del 'sistema', la si sente in modo grave ora nell'ambiente. "Perché?", gli è stato domandato. "Perchè con la sua intelligenza egli avrebbe capito gli inconvenienti della via su cui ci siamo messi, e con la sua inventiva avrebbe escogitato e lanciato qualche cosa di nuovo che ci avrebbe indirizzati diversamente".

Studiare le lingue

Effettivamente è successo a Wembley che nel lavoro della squadra inglese si leggesse come in un libro aperto. Quando un mediano od un attaccante aveva la palla, l'impostazione dell'azione era chiara, palese, ovvia. In campo opposto, invece, quando Puskas o Hidegkuti prendevano l'iniziativa, mai si poteva capire in precedenza cosa diavolo potesse succedere: le possibilità erano sempre diverse, e le idee che non aveva chi avanzava con la palla erano i compagni liberi a suggerirle. Cosi avvenne per l'ultima rete della giornata, quando Hidegkuti partì come una freccia, all'ala destra e ognuno, noi compresi, credette che fosse stato non lui ma il suo compagno Budai a segnare. Nel primo tempo, quando Puskas, mezz'ala sinistra, segnò dalla posizione di mezz'ala destra, dopo di aver ricevuto la palla dall'ala sinistra Csibor, che si era portato all'ala destra, la confusione regnava sovrana nella difesa inglese. La confusione, assieme al disappunto e allo stupore. Mancava soltanto più che uno dei giocatori inglesi reclamasse gridando: "Non vale, non è conforme ai dogmi. In Inghilterra la circolazione deve avvenire a sinistra". Questione di psicologia. 
Era la situazione che si era verificata un mese prima, sullo stesso terreno, nell'incontro dell'Inghilterra col resto d'Europa, al momento in cui Boniperti e compagni avevano preso ad eseguire la danza dei cambiamenti di posizione, e la difesa inglese, messa di fronte ad un compito opposto a quello che aveva imparato a scuola, aveva cominciato a "ballare" come una nave in tempesta. Poteva, doveva già crollare allora, il grande titolo di imbattibilità. Come il fatto è avvenuto ora, è più clamoroso e convincente. Non dà luogo alla minima discussione. 
Il calcio inglese si risolleverà dal duro colpo che ha subito. Ha i mezzi a disposizione. Ma ci vorrà qualche tempo. Per farlo dovrà cambiare strada, ammettere che c'è del buono e dell'utile anche in temperamenti diversi dal suo. Dovrà studiare le lingue.

Inghilterra-Ungheria (25 novembre 1953): prima della partita

Le cronache di Monsù
25 novembre 1953

"The match of the Century", la partita del secolo. L'attesa è enorme. A Wembley arriva l'Aranycsapat, la squadra del decennio. Pozzo delinea il momento delle due nazionali, e preconizza (quasi auspica, si direbbe) la sconfitta inglese, che costituirebbe anche la sconfitta del (da lui non amato) sistema, il WM che si è imposto anche in Italia.

Londra, 24 novembre.
Esiste in Inghilterra un primato che supera quelli che ogni altro Paese del mondo, in qualunque disciplina sportiva si voglia, possa vantare. Questo primato è la squadra nazionale che ne rappresenta i colori che lo detiene. Non è mai stata battuta in casa propria, dalla rappresentativa di Paesi d'oltre Manica. Mai dacché esiste come squadra professionista. Ha aperto questo settore della sua carriera agli albori del secolo presente, nel lontano 1901, infliggendo alla squadra della Germania una sconfitta dalle proporzioni di un 12 a 0. E da allora, dalla sua uscita quindi, non ha piegato il ginocchio davanti a nessuno. Uno stato di servizio che le cifre illuminano di per se. Ha disputato sul proprio suolo 27 incontri di cui 24 contro squadre nazionali europee, una contro una squadra nazionale sudamericana, due contro l'Europa coalizzata. Ne ha chiuse vittoriosamente 23, ne ha finite 4 in pareggio, non ne ha persa una sola. Ha segnato complessivamente 122 reti, ne ha subite solo 32 in tutto. Più di mezzo secolo, esattamente 52 anni, di imbattibilità.

Il gesto di Mortensen

Gli inglesi hanno forgiato la parola "record" per indicare queste prodezze contro il tempo, contro lo spazio, contro gli uomini, per consacrare questi limiti raggiunti dalle prestazioni umane. Nel senso inglese del termine, nessun collegamento, nessun riferimento esiste con la parola italiana "ricordo". Nell'occasione però si può dire che si tratta di un fatto da ricordare. Anche perché il fenomeno a cui ci riferiamo sta per giungere al termine della sua esistenza. Almeno così sperano tutti i non inglesi. Non per nulla è convenuta qui gente da ogni parte d'Europa. Abbiamo incontrato in aereo, all'aeroporto, alla Federazioni inglese, giornalisti di quindici Paesi diversi. Hanno dirottato su Londra, prima di tornare a casa, i dirigenti dei Paesi dell'America settentrionale, centrale e meridionale che hanno preso parte pochi giorni or sono al congresso della Federazione internazionale tenutosi a Parigi.
Il crollo di questo primato del calcio inglese è un po' nell'aria. Da tempo grava nell'atmosfera, ma ora lo si sente, lo si subodora. C'è andata tante tolte vicino a cadere, l'Inghilterra, in questi ultimi tempi, che quasi lo si augura. E' cosa che è umano avvenga. Tanto vale non si faccia aspettare oltre. E' come una necessità sentita, per chi vive dalla parte continentale del Canale, s'intende.
C'è andata già molto vicino a cadere, la squadra nazionale inglese, si diceva. Due anni fa, nel 1951, la Francia prima, l'Austria poi e la Jugoslavia infine erano arrivate a chiudere sul 2 a 2 a Highbury e a Wembley, ma proprio all'orlo del cedimento, come un mese fa, non si era mai giunti. Trenta secondi, cioè la metà di un minuto primo, è un limite che è difficile superare senza precipitare, e in quel modo ancora: a mezzo d'un rigore, cioè. Il Mortensen di buona memoria torinese, che compie il gesto di uno di quei disperati che si fanno sfiorare e buttare a terra da un'automobile nella speranza di farsi pagare per nuovi. Il nostro Lorenzi lo ha fatto tre volle questo gesto nelle recente partita Internazionale-Milan. L'arbitro non gli diede retta e gli rispose che non contasse storie. A Mortensen, qui a Londra, un mese fa, forse perché un fallo vero nel frattempo era sopravvenuto, l'arbitro ha creduto e gli fece dono della massima punizione. E la nazionale inglese fu così salva. Altrimenti non saremmo qui in tanti ad aspettare che avvenga un fatto clamoroso che già sarebbe avvenuto.


Fortissimi gli ungheresi

L'assalto alla rocca, che molto per merito e anche un po' per caso si è salvata finora dalla capitolazione, è l'Ungheria che lo porta questa volta. La compagine più titolata per portarlo in questo momento. La migliore squadra dell'annata presente, dell'annata scorsa, delle ultime tre o quattro stagioni. Ha vinto il torneo delle Olimpiadi a Helsinki nel '52; sono, con quello dell'altro giorno contro la Svezia chiusosi in modo non molto glorioso, venticinque incontri consecutivi su campi di ogni Paese che l'Ungheria gioca e non perde. Si è preparata in modo specialissimo per l'avvenimento. Non ha fatto mistero delle sue intenzioni di essere la prima a compiere il gran fatto. Invitata a contribuire con diversi uomini suoi alla formazione dell'undici del resto d'Europa, poco più di un mese fa, rispose recisamente di no. Rispose che l'Inghilterra la voleva battere da sola, a Londra, con tutti uomini suoi. Si è chiusa in isolamento, proprio come il suo grande avversario, e ha atteso il giorno della prova. II quale è arrivato. E' quello di oggi. E trova gli occhi di tutto il mondo sportivo su di essa concentrati - e naturalmente lo stadio dei 120 mila di Wembley tutto venduto. Non è forse nel suo momento migliore, la squadra nazionale ungherese, proprio ora, non ha più un funzionamento così regolare e ritmico. Il suo motore ogni tanto manca qualche colpo. Ha avuto i suoi grattacapi interni, come avviene in tutto il mondo, li ha affrontati di petto, senza tergiversazioni né complimenti. Non li ha però, malgrado tutta la buona volontà, risolti appieno. I grattacapi coi quali ha da lottare riguardano comunque il problema di tutti, il problema dell'epoca moderna, quello delle mezze-ali. Lì i magiari erano particolarmente forti, lì se la mezz'ala destra Kocsic <sic> è veramente cosi fuori forma da non poter giocare o da dover giocare male, essi si troverebbero seriamente danneggiati, perché verrebbe tratta in sofferenza anche l'altra mezz'ala Puskas, che è una delle chiavi di volta del loro gioco. Più forte all'attacco che in difesa, l'Ungheria dovrebbe essere comunque in grado di trattare gli inglesi in casa loro come nessuno li ha trattati finora.

Cadrà finalmente l'Inghilterra? Questo il grande interrogativo dell'incontro. Non si parla d'altro. Se il fatto dovesse avverarsi, le ripercussioni giungeranno senza dubbio fino alla lontana Italia.

Italia-Cecoslovacchia (15 novembre 1931)

Le cronache di Monsù
16 novembre 1931

Terzo match per l'Italia nella Coppa Internazionale 1931-32, a Roma contro la Cecoslovacchia (Cineteca). Molto interessante è, qui, la lucida esposizione dei vantaggi di un gioco che si basi sul contropiede ("contrattacco") piuttosto che su dominio territoriale e offensiva costante.


Roma, 16 mattino.
Come risultato, fu uno degli incontri più disgraziati che abbia giocato la squadra nazionale italiana da qualche anno a questa parte. Con media fortuna, la gara avrebbe dovuto segnare un netto, chiaro e facile successo degli azzurri. Si guardi all'andamento del gioco. In tutto il primo tempo i boemi non riescono ad entrare una sola volta, non una volta a mezzo di un attacco, nell'area di rigore italiana. Nella ripresa essi portano un attacco solo - uno spunto individuale dell'ala sinistra - che possa venir definito come pericoloso: e questo attacco viene neutralizzato con sicurezza dalla difesa nostra. In tutti i novanta minuti di gioco, due palloni soli vengono indirizzati verso la rete di Combi: il primo, su una inesplicabile esitazione della difesa nostra; il secondo su calcio d'angolo e col netto concorso del caso, chè l'avversario che toccò la palla fu su di essa proiettato dalla carica di un difensore nostro. Ambedue i palloni andarono a finire in rete a fil di palo, quasi in angolo.

Disdetta

Per tre quarti dell'incontro le ostilità hanno per teatro la metà campo avversaria. In tutta la partita il portiere italiano tocca sì e no una mezza dozzina di palloni: il suo collega cecoslovacco viene chiamato all'opera con tanta continuità ed urgenza, da comparire a tratti come l'uomo più occupato in campo. Gli azzurri tengono la vittoria in pugno a tre minuti dalla fine: e il successo sfugge loro per un calcio d'angolo provocato da un duro colpo ad un difensore, e mentre un altro dei loro, un mediano, è impossibilitato a muoversi per ferita ad una gamba. Non è fuori luogo, in simile circostanze, parlare di disdetta. 
Ma, detto ciò, occorre con identica sincerità ed immediatezza riconoscere che la squadra nazionale italiana giocò al di sotto del proprio valore e delle proprie possibilità. Una buona metà della squadra giocò in tono privo di grande combattività, come se l'efficienza ne fosse da inspiegabile soggezione velata. Si può dire che, poche eccezioni a parte, nessuno dei nostri uomini sia apparso in condizioni fisiche e tecniche risplendenti. Ma essenzialmente fu l'impostazione del gioco quella che lasciò a desiderare. La giornata e l'avversario erano per il gioco largo, per gli spostamenti d'azione, per le avanzate in profondità. Tutto quanto era gioco minuto, stretto, tutto quanto necessitava duelli e piccole prodezze individuali, era opportuno venisse evitato o posto esclusivamente a servizio del piano prestabilito. In questo preciso ed inequivocabile senso erano stati presi gli accordi e impartite le disposizioni tattiche per l'incontro. E in questo senso ci si comportò per i minuti iniziali della partita, quando, cioè, la gara parve aperta a più di una possibilità. 
Non appena, però, la superiorità italiana si delineò chiara e l'avversario venne stretto, inchiodato nella sua metà campo e gli attacchi dei nostri presero carattere di continuità, allora il gioco cambiò tono. Come su una china fatale, si scivolò verso il gioco sterile dei movimenti centrali e a breve respiro. E come conseguenza naturale, quando le migliori occasioni di segnare si presentarono - occasioni d'oro che avrebbero dovuto dar senz'altro ai nostri il vantaggio sostanziale di un paio di punti almeno - due o tre attaccanti azzurri si trovarono regolarmente addossati gli uni agli altri, con nessun spazio per realizzare, l'uno impacciando e innervosendo i movimenti dell'altro, e facili tutti insieme ad essere marcati e scombussolati dall'energica e null'affatto complimentosa difesa avversaria. Psicologia del giocatore. Al più disciplinato, intelligente e volenteroso fra essi succede di andare sul campo con un ordine da eseguire e una idea da seguire e di sentirsi a un dato punto irresistibilmente trascinato a fare l'opposto di quanto intende. Ieri il centro-attacco italiano, dopo alcuni magistrali tocchi d'inizio, fu come preso nella pania tesa dalla superiorità che la sua squadra esercitava sull'avversario. Passava alle ali nell'area di rigore, invece che a metà campo, cercava insistentemente il contatto con le mezze ali, rallentava l'azione con ritorni su se stesso e movimenti in linea quando essa era lanciata e essenzialmente non ricorreva a nessuno di quei tentativi individuali che potevano risolvere situazioni ingarbugliate. Meazza fece, cioè, esattamente il contrario di quello che è il portato delle sue caratteristiche e delle sue doti naturali. 

La difesa dei cechi

Il giocatore è un uomo come gli altri. Dopo una gran prova ne fa una scialba: salvo riprendersi il giorno dopo. Ma il riferimento al tono e all'impostazione del gioco riguarda l'intera linea, non il solo centro-attacco, che venne menzionato per la sola peculiarità dell'esempio. Il male autentico ed originale dell'attacco italiano fu quello di essere troppo continuato. Quando l'attacco diventa pressione e la predominanza prende quasi il carattere di assedio, le avanzate perdono di forza penetrativa negli incontri in cui il risultato è tutto. L'offensiva più penetrante e pericolosa è quella del contrattacco che parte da lontano e passa come un cuneo lacerante attraverso le maglie della difesa avversaria; la pressione continuata ha caratteri e conseguenze opposte al contrattacco. La difesa avversaria si chiude e si rafforza a mezzo di elementi attinti dall'attacco, l'intera squadra degli oppositori si rannicchia e forma un fronte chiuso come una parete. 
La superiorità degli azzurri, netta, continuata e indisturbata, fu in certo qual modo causa o per lo meno concausa prevalente della mancata efficienza d'attacco e quindi del mancato successo. 
Quanto di buono si vide nell'incontro fu essenzialmente di marca italiana. Tanto di cappello alla difesa dei boemi. Planika <sic, qui e in seguito: recte Plánička> è un baluardo. Egli salvò ieri la sua squadra dalla sconfitta. Nel primo tempo, quando i nostri pareva dovessero sfondare e travolgere, il portiere boemo si erse di colpo fra gli azzurri e la vittoria. Fu Planika che, col suo contegno fermo e sicuro, diede sicurezza alla difesa, e un secondo animo a tutta la squadra degli ospiti. I due terzini, particolarmente Burger <recte Burgr> , hanno sicurezza notevole sulla palla, e posseggono un'energia di intervento e tocco che spesso varca i confini della mancanza di scrupoli. I due terzini ebbero ieri il grande vantaggio di poter giocare in assoluta libertà, mai stretti da vicino né preoccupati dall'irruenza di attaccanti nostri. I mediani boemi furono essenzialmente dei difensori. Non si mossero dalla metà campo, non pensarono ad altro che a disfare il lavoro degli attaccanti nostri. Appena se si vide qualche spunto costruttivo di Simpersky; Madelon <sic, forse in luogo di Knobloch>  dedicò se stesso esclusivamente a fermare Orsi. 
L'attacco è descritto quando si ricorda che in tutti i novanta minuti non riuscì a portare una sola offensiva, non una sola ripetiamo, mostrante scienza, avente forza penetrativa e denotante coesione. Svoboda fu il migliore degli avanti. L'intesa fra gli uomini della prima linea, che posseggono tutti una notevole padronanza sulla palla, fu riservala tutta a passaggi in linea e a combinazioni di poco effetto. In complesso, la rappresentanza inviata dalla Cecoslovacchia a Roma è lontana dal possedere quell'intrinseco valore tecnico e quel marcato carattere scientifico che aveva anni or sono. Ciò, portiere a parte. Che nei tempi in cui il calcio boemo dava lezioni e impartiva sentenze in Europa, un guardiano della rete come Planika la Cecoslovacchia non lo ebbe mai a disposizione. 

La nostra squadra 

Gli italiani erano alla loro prima prova della stagione e, come il primo passo fatto in ognuna delle due ultime stagioni, la prova mise in luce difetti di impostazione di gioco e di coesione tecnica che hanno bisogno di essere curati. La distribuzione dei compiti nella difesa e la tattica da seguire praticamente nell'attacco hanno necessità di cure. Con giocatori intelligenti e volonterosi come sono gli azzurri dell'attuale leva, i difetti ieri comparsi hanno ogni possibilità e probabilità di venir curati. Chè l'incontro, a ricostruirlo così nella memoria, ha un po' il sapore di una beffa della sorte come risultato. Un primo tempo in cui gli azzurri mancano occasioni per segnare di una facilità addirittura bambinesca: tre uomini soli davanti alla porta con la palla che attraversa tutta l'area ed il portiere spiazzato, rappresentano la situazione tipica fra quelle che si presentarono ai nostri uomini in questo periodo. E' una ripresa che vede gli ospiti pareggiare con due soli palloni da essi indirizzati verso la nostra porta. 
Gli uomini nostri han preso questo colpo della sorte nello spirito dovuto. Come un brusco e sgradevole, ma dopo tutto utile e non inopportuno richiamo alle necessità del momento: necessità che si riassumono nel non dormire sugli allori del passato e nel lavorare. Non vi è che l'incontro internazionale vero e proprio, con tutti i suoi rischi e pericoli che possa istradare al giusto uno squadra, per quanto preparata ed attrezzata, per la stessa ragione per cui non vi è che la guerra autentica che possa far l'animo del soldato. 
L'anno scorso l'esperienza del primo incontro della stagione venne utilizzata come un tesoro: la squadra ebbe il coraggio e la chiarezza di vedute necessari per distinguere il bene dal male. Perseverò in quanto di bene aveva prodotto ed eliminò quanto di male aveva fatto. Certe lezioni insegnano, tanto che nei corsi e ricorsi della vita dello sportivo hanno bisogno di essere ripetute una volta ogni tanto. Gli azzurri si sono smobilitati a Roma con un po' di amaro in bocca, ma con uno spirito che non può non portarli ad un miglioramento.

Per il compleanno del Bonimba, centravanti


Credo l’abbia sentenziato il Mago, che il ruolo più difficile e più importante è, nel calcio, il centravanti – e il più facile il libero, come allora si diceva: un centrale arretrato e di contenuta mobilità, che se ne stava apparentemente rintanato fra lo stopper, altro centrale (ma più avanzato), e il portiere. Il centravanti, per l’appunto – fino agli anni Sessanta s’era detto (e lo cantava il Quartetto Cetra): il centrattacco –, finalizzatore estremo del gioco, come l’espada che viene, mortalmente magro e attillatissimo, a estinguere l’angoscia schiumante del toro col ricamo di una compassionevole trafittura. Ma quaranta o cinquant’anni fa non era né magro né attillato e nulla aveva del torero, il Bonimba: salvo – s’intende – quei gesti senza remissione.

Era Bonimba di baricentro basso – al modo d’altri venerabili pedatori, da Pelé a Capello a Gerd Müller a Maradona –, con piedi da hobbit che percuotevano le zolle di San Siro quasi a cavarne, dal di sotto, qualche riposta energia: come nessuno reggeva il contrasto, ringhiando e sgomitando, e sapeva scattare nel breve, efficacemente inelegante, cercando subito, appena s’aprisse un varco, il tiro potente di sinistro, secco, rasoterra, nell’angolo, o la semirovesciata diagonale; e, quando arrivava il cross buono, s’alzava in volo affidandosi al suo ineguagliabile testone, incorniciato da due orecchie ragguardevoli, che l’aiutavano a veleggiare al momento dello stacco.
 
Per me che sedevo sui gradini freddi dei popolari, col sedere accomodato sopra un cuscinetto di gommapiuma foderato di nerazzurro, e succhiavo intanto, nella lunga attesa del fischio, la bottiglietta dell’amaro diciottoisolabella, Bonimba si chiamava così per via del cognome, era ovvio, Boninsegna – nomen numen: non poteva non segnare uno che si chiamava così –, e per via delle bombe che, domenica dopo domenica, depositava nelle reti avversarie: Bonin-bomba, da cui, per una specie di crasi, Bonimba. E invece no, la mia doveva essere una pseudoetimologia, come la chiamano i glottologi; perché il creatore del nomignolo, il Vate sublime di Eupalla, aveva pensato al Bagonghi del circo equestre: a quel tipo di clown pezzente e tarchiato, ma simpatico, che litiga con quell’altro spilungone un po’ floscio, vestito d’argento, con la faccia antipatica ed esangue di Pierrot. Bonin-bagonghi, appunto – da cui non so, però, come fosse venuto fuori quel Bonimba … anziché un Bononghi …

A quel tempo i centravanti c’erano per davvero: centravanti come il Bonimba – ma il Bonimba era il meglio di tutti (salvo il Gigirriva, detto Rombodituono) –, che non tornavano indietro, ciondolando qua e là senza costrutto, per far salire la squadra (si dice) o (peggio) per far la fase difensiva … No, i centravanti di quel tempo se ne stavano nell’altra metà campo, ingrugnati, in perenne agguato, con perfidia di killer: aspettavano l’imbeccata di qualche fino dicitore – che so, nel caso suo, di un Mazzandro, oppure del Mandrake di San Michele Extra – o il cross succulento, o il traversone intorbidato da un rimpallo imprevisto, che percorreva l’area zeppa di gente, offrendosi allo stop, alla capocciata, alla volée.


A quel tempo, si giocava spesso (anche in nazionale) coi due centravanti: gli allenatori italiani, incluso il Macrochiappico (cioè Ferruccio Valcareggi), preferivano infatti contare su due tosti marcantoni a centro area e rinunciare alle ali, giacché nei lunghi corridoi delle fasce, infine, ci si potevano infilare anche i terzini – che poi sarebbero i laterali d’oggidì. Così, nel Cagliari e in azzurro furoreggiò quella coppia incredibile di Dioscuri tanto difformi e tanto temibili: il Riva, bellissimo nei gesti e nel profilo ch’era degno d’un conio traianeo, e il Bonimba, che pareva sgraziato e non lo era, instancabile e sempre cattivissimo. Pare non s’amassero – come non s’amarono mai, lo sappiamo, Mazzola e Corso –, e il Bonimba ritornò poi all’Inter, dov’era cresciuto ragazzino.


Nel giorno del settantesimo compleanno, non ne ricorderò la tarda (e dannatamente fortunata) stagione bianconera – il Bonimba mio personale è giocoforza solo quello in maglia nerazzurra, non c’è posto per altri –, ma rivedo nuovamente le sgroppate a perdifiato sugli altopiani del Messico, il servizio graziosamente reso al soave Abatino (che ne fu con inverecondia eroizzato) e il vano ma pur simbolico gollasso del pareggio momentaneo con Tostao, Pelé e lor degnissimi compagni; e (perché no?) la testolona offesa dalla lattina di Moenchengladbach, quella celeberrima che diede spunto al Peppin Prisco per la sua più strepitosa performance di avvocato e di tifoso.

Ararat

Ambrosiana-Juventus (12 novembre 1933)

Le cronache di Monsù
13 novembre 1933

Per la decima di andata del campionato di Serie A la Juventus è attesa dall'Ambrosiana-Inter all'Arena. I milanesi sono imbattuti, in cima alla classifica con due punti di vantaggio sui rivali. E' il match-clou della giornata e, forse, della stagione.


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Milano, 13 mattino.
L'incontro fra i campioni d'Italia ed i loro più diretti rivali non ha tradito l'attesa. La gara è stata una delle più belle a cui abbia dato luogo il campionato di quest'anno. Un pubblico immenso ha assistito alla prova. Milano è una delle città d'Italia che meglio risponde all'invito degli spettacoli del calcio. La folla che gremiva ieri gli spalti dell'Arena era degna di un incontro internazionale. Ressa in tribuna, nei posti distinti, sulle gradinate popolari, ressa perfino sugli alberi e sugli impianti pubblicitari che circondano l'anello della costruzione napoleonica; uno spettacolo offerto dalla sola imponenza del pubblico. Anche l'incasso fu d'eccezione: 388.000 lire!


Superbo concorso di folla

Per Milano calcistica era quello di ieri l'avvenimento di campionato più importante di tutta la stagione. Ma non la sola Milano rispose all'appello. La lunga, interminabile carovana di automobili - qualche centinaio di macchine - che nel mattino e nel pomeriggio gremì la strada fra Torino e Milano, era una testimonianza dell'interesse che anche in Piemonte aveva destato la gara. Pareva la migrazione di un popolo. Quando si pensa che un raduno organizzato appositamente per gli automobilisti riesce nella maggioranza dei casi a muovere a mala pena qualche diecina di macchine, l'imponenza del movimento a cui danno luogo i grandi incontri calcistici non può non colpire l'attenzione anche per l'importanza economica che essa riveste.
La giornata era fredda coperta e brumosa e la visibilità certo non ideale. Il terreno si presentava, al solito, in ottime condizioni. La gara ebbe inizio con circa un quarto d'ora di ritardo sull'orario prestabilito, e le due squadre si allineano in campo nella seguente formazione:
Juventus: Combi; Rosetta e Caligaris; Varglien I, Monti e Bertolini; Varglien II, Cesarmi, Borel II, Ferrari ed Orsi.
Ambrosiana: Ceresoli; Agosteo ed Allemandi; Pitto, Faccio e Castellazzi; Frione, De Manzano, Meazza, De Maria e Levratto.
Dalla composizione solita delle due unità mancava, quindi, un elemento in ognuno dei due casi: Sernagiotto, tutt'ora indisposto, per i torinesi, era sostituito da Varglien secondo, e Serantoni, in quarantena per squalifica per i milanesi, era rimpiazzato da De Manzano.
La direzione della partita era affidata all'arbitro Dattilo, di Roma. Le prime schermaglie furono di iniziativa milanese, ma la prima offensiva venne portata dai torinesi. Giuoco vivace, sciolto e, cosa molto simpatica, privo di rudezze o di scorrettezze. Il paio di occasioni favorevoli che l'Ambrosiana doveva veder maturare nel corso del primo tempo, si presentarono subito dopo qualche minuto di giuoco, ed ambedue ebbero Meazza per protagonista. Nella prima, il «Balilla» sparò direttamente nelle braccia di Combi; nella seconda egli esitò di quel tanto che bastò per non poter più sgusciare fra i terzini e per vedersi bloccar la via da Caligaris.
Verso il quarto d'ora, la Juventus aveva snodato il suo giuoco. Giuoco fluido, scorrevole, che portava ad un predominio tattico. La squadra pareva in vena ed effettivamente si portava bene. Teneva l'attacco con prevalenza, ma non si scopriva affatto in difesa. Si muoveva come un tutto unico, come un blocco compatto. Particolarmente Meazza era fatto oggetto di assidua e continuata vigilanza.

Nulla di fatto nel primo tempo

Nel confronto l'Ambrosiana non scapitava affatto per quanto riguarda estrema difesa e seconda linea. Questi due settori della compagine, pur lavorando in modo più sconnesso di quanto avveniva presso i bianconeri, si mostravano pienamente all'altezza della situazione. Arginavano, bloccavano, difendevano a dovere. L'attacco, viceversa, risultava a lunghi tratti tagliato fuori d'azione, e quando in azione poteva entrare, non aveva legame, né era incisivo. Come conseguenza di questo andamento delle cose, i milanesi più non giungevano in tutti i quarantacinque minuti ad esser pericolosi che due volte a mezzo di un'azione tipo catapulta che veniva respinta da Rosetta sul limite della porta dapprima, ed a mezzo di una fuga dell'ala destra Frione in seguito. Viceversa, i juventini giungevano con qualche frequenza a minacciar la rete difesa da Ceresoli. Ma sia per precipitazione nel tiro, sia per virtù dell'energia avversaria, sia per la tendenza ad elaborare lo stadio conclusivo delle avanzate, nessun risultato concreto veniva raggiunto. Era Orsi che, trovatosi solo davanti a Ceresoli, con tre quarti della porta a sua disposizione, tirava proprio nelle mani del portiere; era Borel che teneva la palla più del necessario; erano Varglien II o Cesarini che sparavano alto. Così si giungeva al riposo di metà tempo senza nulla di fatto.
Tanto fa avaro di punti il primo tempo, come ne fu prodigo il secondo. Tre minuti dall'inizio della ripresa ancora non erano passati che già la serie era aperta. Pallone spiovente dall'alto sul limite dell'area di rigore torinese, Meazza sta in attesa, a stretto contatto con Caligaris. Il terzino vuol arrestare la palla col petto per poi rinviare. La traiettoria lo inganna: Meazza gli sguscia a lato e, stretto da vicino come è, non può se non deviare il pallone verso il lontano angolo della rete, sulla sinistra del portiere. Pare che la palla debba uscire a lato: invece il taglio la fa deviare, rimbalzar sul montante e cader in rete, fra la sorpresa dei difensori che marcarono tutti un tempo d'aspetto nella fiducia che la situazione si risolvesse senza danno. Uno a zero per l'Ambrosiana.


Il pareggio juventino

Passano due minuti, e di colpo la Juventus va al controattacco. Su una azione inscenata sulla sinistra, Borel fila via da solo. V'è nel suo scatto quella decisione di rimetter le cose a posto che non inganna. E Borel riesce. Pesca Agosteo a contropiede, lo scavalca, si gira ed ha la porta a disposizione. Il pallone viene spedito basso, in rete, quattro metri o più fuori della portata del braccio sinistro di Ceresoli. Uno a uno. Le due squadre ed i due centri attacco sono alla pari.
Dieci minuti di giuoco tecnico, ma meno ordinato che nel primo tempo, ed il movimento di botta e risposta dei palloni in rete si ripete. Al 16' minuto un centro alto giunge dall'ala sinistra ambrosiana. Combi, assediato da una piccola folla di giuocatori, non può far la presa e salta per deviare a lato. La palla schizza dal palo trasversale verso la destra. Frione giunge in corsa, colpisce al volo ed infila l'angolo lontano della rete. Nulla da fare contro tale tiro. Due ad uno per l'Ambrosiana.
Forte reazione juventina, che dà subito i suoi frutti. Al 21' minuto, mentre i bianconeri dominano, Monti serve Varglien I. Questi avanzai di qualche passo, accenna a passare ad un compagno ed invece spara improvvisamente in porta di sinistro. Il tiro, eseguito da qualche metro fuori dell'area di rigore, ha successo: la palla va a finire esattamente nell'angolo alto della rete, sulla destra di Ceresoli. Fin lassù il portiere, che aveva la visuale coperta per quanto riguarda l'avversario che eseguiva il tiro, non poteva arrivare. Due a due. Ancora una volta tutto da rifare.
Il giuoco perde ora in bellezza tecnica per acquistare in accanimento. Un milanese spara in porta uno splendido tiro, che Combi para magistralmente; Borel riceve un duro colpo da Faccio; Varglien II è già da tempo ridotto a far la parte della comparsa per una ginocchiata ricevuta da Castellazzi; Castellazzi stesso viene atterrato da Cesarini. Pare che l'incontro debba chiudersi così su quel risultato pari a cui l'andamento delle ostilità conferirebbe cararattere di precisione e di giustezza.


Combi battuto per la terza volta

Ma, a cinque minuti dal termine regolamentare, interviene la decisione. I milanesi hanno da poco cambiato formazione al proprio attacco: De Manzano è passato all'ala sinistra, Levratto al centro. Meazza alla mezz'ala destra. De Manzano fugge improvvisamente e poi centra con precisione. Levratto, comandante della prima linea improvvisato, si trova ben piazzato, riprende e spara. Il tiro non è di gran violenza, ma Combi, còlto alla sprovvista o forse impedito di vedere l'avversario, si getta in tuffo in ritardo, e non può impedire alla palla di varcare la linea della porta. Questo il punto che decide delle sorti della giornata.
Da questo momento, l'Ambrosiana, galvanizzata dal successo, giuoca con maggiore franchezza e domina. Abbiamo detto che il punto della vittoria fu segnato a cinque minuti dal termine regolamentare della partita. Cioè perchè la partita stessa ebbe il suo termine ufficiale tre o più minuti dopo lo scadere del tempo, per il prolungamento concesso dall'arbitro a seguito delle interruzioni per ferite ai giuocatori.
Fu una bella partita disputata fra due belle squadre. Un risultato pari avrebbe certamente meglio corrisposto all'andamento del giuoco. La Juventus ebbe il predominio tecnico e tattico nel primo tempo, l'Ambrosiana sfruttò le situazioni che le si presentarono nella ripresa: i torinesi giuocarono con maggior ordine e miglior stile, ed i milanesi diedero prova di energia, di coraggio ed in certi momenti anche di spirito pratico superiore. I due avversari si sono equivalsi.
Il primo tempo della Juventus destò una grande impressione. La squadra seppe attaccare a fondo senza lasciarsi mai cogliere scoperta in difesa. Mobilità, prontezza di smarcamento e continuità di contatti fra linea e linea dell'unità risolvevano il problema. Meazza non fu abbandonato a sè un solo momento; se Monti partiva in avanti per lavoro costruttivo, o Caligaris o Rosetta prendevano immediatamente il posto di sentinella vicino al centro avanti milanese. Colla palla a terra, i juventini potevano sgranar le loro azioni con frequenza e continuità. Solo neo, quello del tocco finale agli attacchi. Giunta all'area di rigore, pareva che la squadra non forzasse le cose o non avesse estrema cura della precisione. Borel solo tentava di tanto in tanto la via del successo colla caparbietà dovuta. Orsi, per citare un esempio, non avrebbe dovuto mancare l'occasione che gli si presentò nel primo tempo: il suo stile di una volta lo avrebbe portato a prender di mira il lontano angolo della rete invece che a sparare, come ipnotizzato, nelle mani del portiere che stava in attesa a due passi.
Alla ripresa, i bianco-neri si lasciarono trascinare al giuoco alto, ed allora lo stile e l'efficacia della loro attività si modificarono subito in peggio. Varglien II scomparve presto dall'agone, e le azioni più non potendosi appoggiare che ad un'ala sola divennero di carattere più stretto e, quindi, più facili da controllare da parte dell'avversario. Ottimo il contegno della seconda linea da cima in fondo all'incontro. Degno di particolare segnalazione il primo tempo di Monti: il suo modo di servir la palla ai compagni con un colpo di testa dall'alto in basso fu una delle cose tecnicamente più pregevoli a cui abbia dato luogo l'incontro.
La squadra campione è caduta in piedi. In giornata sfortunata essa ha combattuto e ha ceduto da forte.


La prova dell'Ambrosiana

L'Ambrosiana ha cambiato un po' fisionomia in fatto di giuoco dalla scorsa stagione. I suoi atteggiamenti son meno tecnici di quello che erano una volta; sono però, in compenso, più efficaci. La prova di ieri non può, ad esempio, venir classificata tra le migliori che i nero-azzurri abbiano disputato o possano disputare in fatto di coesione, di legame e di armonia di azioni. Eppure l'unità non diede mai l'impressione di vacillare, nemmeno nei momenti in cui la macchina avversaria raggiungeva il suo ritmo più intenso di funzionamento. Essa tenne il campo con bella fermezza e serenità dal primo all'ultimo minuto della gara, studiandosi di sfondar gli ostacoli che l'oppositore elevava sulla stia via, invece che premere su di essi.
La squadra si basa su di una difesa che sa l'affar suo. Ceresoli è uno dei migliori portieri di cui si possa disporre in Italia al momento attuale. Ieri non fu particolarmente impegnato - contro il tiro di Borel non poteva far nulla e fino al pallone di Varglien I non poteva arrivare — ma il suo contegno generale ispira fiducia. Ha il fisico del ruolo: e alto, elastico, pronto nello scatto, sicuro nella presa.
I due terzini possono anche offrire il fianco a critiche per quanto riguarda alcuni particolari tecnici della loro condotta - vedasi, ad esempio, il tocco della palla di Allemandi - ma sono ben difficili da superare quando giuocano con la convinzione di ieri. Questi due terzini sono nel corso della partita ben sovente ... tre, tanto continuativo ed efficace è l'aiuto che loro dà Faccio. Il nuovo centro mediano nero-azzurro non è certo un magistrale costruttore od iniziatore di avanzate, né possiede la virtù di trovar con uno sguardo od un tocco solo il compagno smarcato, vicino o lontano. Ma un bel difensore, un distruttore di prima forza dell'opera altrui. E Pitto e Castellazzi completano a modo il blocco che dà garanzia di fermezza e solidità alla compagine: il ritorno in forma di Castellazzi, dopo la scialba stagione fatta lo scorso anno è, detto tra parentesi, uno degli aspetti più simpatici di questa edizione di squadra dell'Ambrosiana.
La prima linea era una volta quella che conferiva carattere a tutto il giuoco dei nero-azzurri. Il cambiamento sopravvenuto nella condotta tattica della squadra ha, forse, modificato un po' le cose. Ieri la prima linea non brillò di viva luce. Meazza era fatto oggetto di una speciale vigilanza da parte di avversari che lo conoscono, e mancava Serantoni, l'uomo che sa dare calore alla linea. Ma, anche tenendo conto di ciò, l'attacco non seppe mai elevarsi al livello tecnico che sarebbe nelle possibilità sue, dato il valore dei singoli componenti.
Nei confronti con la scorsa stagione, Levratto appare in non smaglianti condizioni di forma. Frione, viceversa, è migliorato ancora sulla palla: non avrà il temperamento del combattente, ma è un ottimo tecnico. Il ritorno in forma degli uomini che sono in ritardo in fatto di condizioni fisiche e nello stesso tempo il ritorno alla completezza dei ranghi della linea, dovrebbero dare all'Ambrosiana un settore di avanguardia tale da render la squadra ben difficile da battere. Finora, battuta essa non lo è stata, pur non avendo potuto disporre, in più di una difficile competizione, di tutti i suoi mezzi.
Come accennato, se si eccettua qualche rudezza del secondo tempo, l'incontro ebbe uno svolgimento regolare dal punto di vista della correttezza. Erano in campo diciassette nazionali e venti selezionati per rappresentative in genere, su ventidue giuocatori. Lo spettacolo di forza, di tecnica e di fermo volere che essi diedero, fu degno del calcio italiano.