Il silenzio del Maracanã

Una cosa è certa: finché esisterà il calcio e di calcio si racconterà, un capitolo fondamentale di questa infinita storia resterà il “maracanaço” (neologismo português, metafora ormai consueta per evocare un disastro calcistico). Per molti motivi. Anzitutto, alla storia quel giorno è passato per via di un risultato pressoché universalmente ritenuto sorprendente, inatteso, clamoroso; poi, perché è una storia che riguarda il Brasile, e di per sé una storia che riguarda quel paese e il suo futebol è destinata a una continua rielaborazione; infine - ma non è l’ultima delle ragioni -, perché di quel match si hanno solo pochi frammenti filmati (sicché uno scrittore brasiliano poté paradossalmente affermare di aver smesso di credere in Dio non avendo mai incontrato due persone che raccontassero allo stesso modo il gol di Ghiggia: e allora come “credere alla versione di mezza dozzina di apostoli che dissero di aver visto Cristo resuscitare in un luogo deserto e oscuro?”). Troppo pochi e troppo poco per un'analisi diretta e accurata - tant’è vero che l’analisi migliore (Anatomía de uma derrota, di Paulo Perdigão) è fondata sull’ascolto, la trascrizione e lo studio della cronaca radiofonica, per fortuna salvatasi integralmente. Per tutti questi motivi, quella sconfitta “trasformò un fatto normale in una narrazione eccezionale”, ossia in “un mito favoloso che è stato preservato e persino accresciuto nella fantasia della gente”.

Fatton fa secco Barbosa:
è il momentaneo uno a uno
Col senno di poi, si può dire che quel risultato forse non fu così sorprendente. Anche tenendo conto di tutti i fattori che, in teoria, avrebbero dovuto rendere ‘imbattibile’ la Seleçao: le grandi prestazioni e le goleade contro la Svezia e la Spagna (uscite dal Maracanã con sette gol a testa sul groppone), che avevano naturalmente esaltato il paese e la critica; il teatro, la cornice immensa e paurosa del nuovo, grande stadio, destinato ad annichilire qualsiasi avversario. Tant’è vero - si dice - che (prima del match conclusivo con i rivali rioplatensi) l’unica contro-prestazione del Brasile era occorsa non a Rio, ma a São Paulo, di fronte alla Svizzera [vedi]. Tuttavia, proprio quel pareggio (un due a due sigillato quasi allo scadere da Jackie Fatton, notevole bomber elvetico) aveva dimostrato la vulnerabilità dell’assetto tattico carioca. Opposto a una compagine europea solidamente impostata sulla difesa, il Brasile si era inceppato. Armando Libotte, luganese, giornalista e storico del football elvetico, “aveva notato come qualmente i brasiliani contemplassero del calcio la sola parte offensiva”, ricorderà Brera  - che, appena arrivato in Gazzetta, al mondiale non andò. Purtroppo.

Un’occhiata retrospettiva alla stampa italiana – perlomeno ai fogli facilmente disponibili – può se non altro sgombrare il campo da eccessive suggestioni letterarie. Naturalmente a Rio, il 16 luglio 1950, c’era Vittorio Pozzo. Inviato de La Stampa, come sempre. Usciti subito gli azzurri, colui che era comunque il tecnico campione del mondo ancora in carica seguì soprattutto il Brasile e l’Uruguay. La cronaca dettata ‘a caldo’ del match decisivo rivela quanto impressionanti fossero (anche per lui) le condizioni ambientali. “Non abbiamo mai assistito a un avvenimento calcistico di tanta grandiosità”. Arrivato al Maracanã con tre ore di anticipo, lo scopre già pieno. “E’ stato un assalto”. Poi evoca le smargiassate della stampa e delle radio locali; quindi fotografa l’ingresso delle squadre in campo. “La folla sembra in preda ad un furore di esaltazione; noi europei non abbiamo idea di quello che siano più di centocinquantamila persone che urlano congestionate fra il ripetersi degli spari che stendono ad un certo punto sullo stadio un sottile velario di fumo”. Si procede con le cerimonie - una ragazza paracadutata sul campo dall’altezza di duecento metri, i saluti delle autorità, la presentazione dei giocatori. Finalmente si comincia. Monsù percepisce chiaramente lo stato d’animo del pubblico: i brasiliani hanno paura (“si teme la rivalità e la durezza di gioco dell’Uruguay”). Nel primo tempo non accade nulla. Pozzo, tuttavia, è sempre distratto dagli umori della folla. “Mentre il gioco si svolgeva, uno spettacolo a sé lo offriva il pubblico sempre più nervoso, deluso, ora tutto un’esplosione di entusiasmo ora scorato, con reazioni violente contro i proprii giocatori”. La folla accoglie in silenzio la conclusione del primo tempo, e il silenzio perdura quando i due XI tornano in campo. Ma trascorrono solo due minuti, e il Brasile va in rete. Pozzo descrive sbrigativamente l’azione del gol; torna subito a guardare il Maracanã. “Avvengono sugli spalti scene indescrivibili, episodi di parossismo, una cosa mai vista nei precedenti incontri svoltisi a Rio”. I giocatori dell’Uruguay protestano, reclamano un fuorigioco, “il fumo dei mortaretti che esplodono si alza sullo stadio, per un minuto circa ci troviamo in una vera bolgia”. E’ solo a questo punto che Monsù pare concentrarsi sulla partita. Lo colpisce, chiaramente, la reazione della Celeste. “Qui appare la solidità morale della squadra uruguayana. A differenza degli svedesi e degli spagnoli, essa non si accascia e scatta anzi all’attacco, imponendo più che il suo gioco la sua maggiore freschezza”. Schiaffino pareggia. “Ora gli uruguayani sono scatenati, essi hanno capito che l’avversario sta barcollando, che non è più in stato di grazia e dànno come dei colpi di piccone poderosi che scuotono la solidità dell’edificio brasiliano”. Ghiggia segna il gol decisivo, e inevitabile. “Il pubblico tace esterrefatto”.

Un'azione d'attacco del Brasile.
Sullo sfondo, l'immane folla del Maracanã
Questa la sua cronaca a caldo. Nei giorni successivi, prima di ripartire da Rio, Pozzo torna ad analizzare con maggiore serenità la partita. La ‘rivede’ con gli occhi di un ex-conduttore di uomini, e riconosce con lucidità le ragioni (psicologiche e tecniche) che hanno orientato la contesa. Anzitutto quelle psicologiche. A squadre schierate, ricorda Monsù, il Governatore di Rio “si rivolse alla squadra brasiliana, e disse che fra poco le duecentomila persone presenti sarebbero scoppiate in una ovazione delirante per celebrare il suo eroismo, che cinquanta milioni di brasiliani sparsi in tutto il paese erano certi del suo successo e avrebbero dato luogo ad una manifestazione patriottica dalle proporzioni e dal significato incredibili: la squadra, la proclamò lui, massima fra le autorità politiche presenti, come vincitrice prima che prendesse a giuocare”. In piedi e sull’attenti, i giocatori dell’Uruguay ascoltavano a testa bassa. Sapevano già come avrebbe dovuto essere la loro partita; la pressione era tutta e solo sul Brasile, e il loro orgoglio (considerati sconfitti ancor prima di giocare) ulteriormente stuzzicato. Pozzo, a questo punto, coglie in pieno il ‘senso’ della partita. “Cominciò la battaglia e si vide subito con che razza di avversari i brasiliani avessero a che fare. Marcatura stretta, con uno schieramento che l’ultimo sbarramento non lo prevedeva mai: ve n’era sempre un altro, dietro all’ultimo”. Così, gli avanti brasiliani “prendevano a cincischiare, come davanti ad analoga situazione difensiva e distruttiva creata dalla Svizzera avevano già fatto giorni prima”. La Seleçao non conosce soluzioni tattiche adatte a scardinare le difese ermeticamente chiuse: “non amano la marcatura stretta”, “hanno bisogno di spazio in cui muoversi, per sbizzarrirsi ed essere quello che sono”. Inoltre, non appena riuscirono a passare in vantaggio, i carioca si crogiolarono nella propria presunzione di superiorità. Erano sicuri che, a quel punto, il match fosse in discesa, e molti altri gol sarebbero arrivati. “E si proiettarono in avanti, spinti dal loro ideale, ma giocando allo scoperto”. E, come si sa, furono infilati due volte negli ultimi venti minuti circa. “Senza chiudersi in difesa disperata, v’era da controllare deliberatamente ed inesorabilmente il giuoco a metà campo, lontani di qualche po’ dalla sempre pericolosa propria area di rigore; ed aspettare che la vittoria fossero i minuti che passavano, a portarla alla squadra ed al pubblico. V’era da rinunciare al sogno della larga marcatura dalla luminosità accecante. Meglio vincere di misura, che non vincere affatto”. Ma il Brasile, “tatticamente cieco”, perse.

Sul Corriere dello Sport, un corsivo di Leone Boccali ha il pregio di sottolineare – rievocando le vittorie olimpiche del ’24 e del ’28, nonché la Coppa del mondo del 1930 - come l’Uruguay vantasse una tradizione e un palmarès più che rispettabili. E dunque, chi non si fosse lasciato coinvolgere dall’atmosfera di Rio, avrebbe ben potuto prevedere come lo scontro fosse - quanto meno - alla pari. “E il Brasile? Superato in linea agonistica, si è confermato professore di tecnica calcistica. Ma stavolta i brasiliani avevano di fronte rivali non inediti, che conoscevano a meraviglia le ‘finte’ prodigiose di Ademir, i funambolismi di Jair, il ‘dribbling’ ubriacante di Zizinho, le ‘serpentine’ velocissime di Bauer”. Nelle maglie difensive della Celeste si incagliò il “temuto e dinamitardo quintetto avanzato del Brasile”. Come scriverà Brera, i rioplatensi “difendono la sconfitta e invitano i brasiliani a illuminarsi d’immenso. Su ogni palla riconquistata imprimono battute efficacissime, e tutte rigorosamente verticali. I brasiliani hanno sempre metà campo da vendere: la loro pretenziosa accademia continua. Poi, immancabile, il misfatto”.

A proposito di tattica. Com’era schierata la Seleçao? E come l’Uruguay? A distanza di anni, Zizinho disse che la ragione della sconfitta andava individuata nell’adozione da parte di Flavio Costa del WM. Un modulo inedito a quelle latitudini, e che il Brasile sperimentò solo nelle ultime quattro partite della Coppa del mondo, abbandonando la diagonal dopo il pareggio con la Svizzera. Vincendo contro Jugoslavia, Svezia e Spagna, che adoperavano un identico assetto. Ma l’Uruguay no, non giocava così. “L’Uurguay giocò con una linea retrocessa e l’altra avanzatissima”, lo stesso modulo che il celebre asso “aveva visto utilizzare in precedenza dal Carioca, una squadretta di periferia che suo padre dirigeva a Sao Gonçalo, vicino a Niteròi”. Figuriamoci. “Il loro era un sistema folle, ma il WM era ancora peggio, faceva schifo. Ecco perché abbiamo perso la Coppa del mondo”. L’Uruguay, invece, aveva disposto i giocatori “in un modulo che si avvicinava moltissimo all’1-3-3-3 di Rappan” (Wilson), variando dunque l’impostazione delle partite precedenti, nelle quali Juan Lopez (l’allenatore della Celeste) aveva proposto una versione del metodo brevettato da Vittorio Pozzo. Passando al verrou, e disponendo di giocatori di maggior classe rispetto alla Svizzera, mise il Brasile in difficoltà palesemente ancora più insormontabili di quanto non fosse riuscito agli elvetici. In sostanza, sostiene Jonathan Wilson, sotto l’aspetto tattico i brasiliani “erano nettamente più avanti rispetto all’Uruguay”, la cui cultura era sempre quella dell’anteguerra. Ma la virata sul WM rese ancora più vulnerabile il fianco sinistro della Seleçao, poiché costringeva Bigode a giocare da vero e proprio terzino sinistro, in posizione più arretrata rispetto a quella cui era abituato. In quello spazio, si infilava a più riprese Ghiggia, e da lì arrivarono entrambe le giocate decisive.


Costa, col senno di poi, ritenne letale il gol del pareggio, sebbene un esito così fissato significasse comunque per il Brasile la conquista della coppa. Il silenzio del Maracanã dopo la marcatura di Schiaffino “raggelò letteralmente i miei giocatori”. Alcuni, dunque, non giudicarono responsabili della sconfitta i soliti noti – Barbosa, Bigode, Juvenal. Alcuni puntarono l’indice contro il Maracanã  “Nel momento in cui i giocatori avrebbero avuto maggiormente bisogno del Maracanã  il Maracanã rimase in silenzio. Non si può affidare se stessi ad uno stadio di calcio”, disse 'Chico' Buarque de Hollanda. Quello stadio e la sua folla, probabilmente e negli stessi momenti, si erano affidati al Redentor del Corcovado.
2013
Mans

p.s.: virgolettati tratti da La Stampa (17 e 20 luglio 1950) e Il corriere dello sport (17 luglio 1950); da Jonathan Wilson, La piramide rovesciata; Alex Bello, Futebol; Jorge Valdano, Il sogno di Futbolandia. Immagini della partita in Cineteca.

Germania - Ungheria (4 luglio 1954)

Le cronache di Monsù
3, 5 luglio 1954

Come tutti, Pozzo riteneva che l'Ungheria fosse predestinata. Era certamente la squadra più forte del mondo. Ma in Svizzera il suo cammino fu complicato: dalla forza degli avversari incontrati nei quarti e in semifinali (e furono partite dure e dispendiose), dall'infortunio che limitò il contributo di Puskas; da un assetto difensivo 'a zona' la cui permeabilità era considerata da Monsù un fattore (l'unico) di debolezza strutturale dell'XI guidato da Sebes. Presentazione, resoconto e riflessioni a freddo sulla finale - soprattutto qui, dove fa capolino un paragone con il maracanaço -, risaltano nella 'letteratura' del vecchio alpino per totale assenza di retorica e lucidità di analisi.


Zurigo, 3 luglio.
[Precede il resoconto di Austria-Uruguay, finale per il 3° posto, che omettiamo]
Siamo così arrivati all'ultimo episodio del torneo che avrà luogo domani a Berna con la grande e attesa partita decisiva fra Ungheria e Germania. La finale di un torneo di lunga durata è sempre un grande avvenimento, chiunque vi partecipi. 
Uno sguardo critico alle prestazioni fornite dai sedici contendenti convenuti in Svizzera va riservato al momento in cui il torneo sia effettivamente giunto al suo termine. Qui siamo all'ultimo atto della rappresentazione. 
Innanzitutto, i protagonisti. Uno di essi è quello che proprio tutti si attendevano: l'Ungheria. Si pronosticava che avrebbe vinto il torneo ed è giusto che sia andata in finale: per vincerlo, doveva passare di lì. E' nel senso tecnico e tattico, in quello dell'intelligenza di gioco la miglior squadra presente al torneo. 
Nel campionato attuale comunque i magiari non hanno ancora detto la parola che sono in grado di dire, non hanno mai giocato come sanno effettivamente giocare. Essi dispongono di una dozzina o poco più di uomini di classe. Quando vengono a mancare certi elementi, è l'intero rendimento della squadra che risulta compromesso, è il gioco che cessa di svolgersi con quella fluidità, quella potenza, quella irresistibilità che sono altrimenti una sua inconfondibile caratteristica. L'undici va visto al completo, per entusiasmare. La stroncatura di Puskas subito fin dal primo incontro sostenuto ha costretto la compagine a camminare zoppicando per tutto il rimanente della competizione. Le ultime notizie danno per certa la presenza di Puskas. Se cosi sarà e se l'uomo si troverà davvero in possesso dei grandi mezzi tecnici suoi, l'undici dell'Ungheria avrà domani l'occasione di dimostrare chi sia, davanti ad un pubblico che comprende i competenti di tutto il mondo. 
La presenza della Germania nella finale costituisce la vera sorpresa del torneo. Nessuno le aveva concesso mai credito. Non era nemmeno stata considerata come 'testa di serie' negli ottavi di finale. Aveva fatto il primo passo avanti grazie alla mossa strategica di evitare la battaglia grossa coi magiari. Perché il fatto strano di questa finale è che essa riunisce due unità che, appartenendo allo stesso gruppo iniziale del torneo, già si sono incontrate. Ma allora, nella prima occasione, si trattava, dicono i tedeschi, di un'Ungheria-Germania riserve, ora si tratta di un'Ungheria-Germania vera. I due successi riportati dai germanici sugli jugoslavi e sugli austriaci nei quarti di finale e in semifinale hanno stupito tutti. Ora, viene per gli interessati la prova del fuoco. 
Le due finaliste hanno la loro forza maggiore nei settori d'attacco. Se quello dell'Ungheria è noto al mondo intero, quello della Germania, è guidato Fritz Walter, un rappresentante della generazione antica. un classico del gioco. Si dovrebbe assistere ad un incontro tutto di costruzione, colle due squadre protese a turno in avanti, a dimostrare chi meglio sappia fare, non chi meglio sappia disfare.


Berna, lunedì mattina [5 luglio].
Incredibile ma vero. Nella finale del campionato del mondo l'Ungheria ha piegato il ginocchio davanti alla Germania. E il risultato non è stato viziato da alcuna irregolarità. Si può dire quello che si vuole: che l'undici perdente ha fatto maturare maggiori e migliori occasioni da rete di quello vincente, che Kocsis e compagni sono stati più brillanti dei loro avversari individualmente, che il maltempo non ha favorito lo sviluppo della migliore tecnica. Ma da una constatazione non si scappa: la vittoria dei tedeschi ha in se tutti i crismi della regolarità e può essere considerata senz'altro come meritata. Esseri umani come tutti gli altri, i magiari hanno ceduto alla fatica degli ostacoli che hanno dovuto superare per giungere fino alla finale. 
Come possono fare i calciatori di ogni altro Paese, essi hanno commesso errori, e nel formare la squadra che hanno mandato in campo e nel condurre il gioco come lo hanno condotto. Un errore si è dimostrato alla prova pratica l'inclusione di Puskas, non completamente guarito e a corto di fiato e di energia, un errore della formazione; e un errore è stato quello schieramento difensivo per cui nessuno degli attaccanti tedeschi era mai marcato con precisione e severità. 
La squadra nazionale della Germania ha sorpreso il mondo calcistico prima ancora che col risultato che ha realizzato, col comportamento che ha tenuto. Una squadra sana, positiva, seria, una squadra dove ognuno dei componenti fa il suo dovere severamente e adempie al suo compito alla militare, si può dire. Un undici molto più fresco e molto più in forze — e questo è stato uno dei fattori dominanti — di quello ungherese. Un'unità dove la fantasia non fa molto notare la sua presenza, ma dove ogni cosa che avvenga pare seguire un binario. 
Una compagine che nel suo funzionamento pare un apparecchio meccanico. Sotto parecchi e svariati punti di vista, la più convincente, la migliore rappresentanza calcistica del suoi colori che la Germania abbia mandato in campo nei 54 anni della sua storia. 
L'acqua cadeva fitta e insistente fin dalle prime ore del pomeriggio. Non v'è da meravigliarsi: la pioggia rappresenta il fenomeno più costante dei volubili tempi in cui viviamo. Non doveva concedere tregua ai giocatori e agli spettatori nemmeno un istante in tutta la partita. Poca meraviglia che qualche spazio vuoto si notasse nel vasto recinto. I presenti si possono calcolare in circa 60 mila. La metà circa di essi erano tedeschi, che non dovevano cessare in nessun momento di incitare la loro squadra. La quale era in tutto uguale, in quanto a formazione, a quella che aveva eliminato gli austriaci nelle semifinali. Stupiva invece nell'undici ungherese la inversione di posizione delle due ali, Czibor a destra e Toth I a sinistra. Da grandi applausi veniva accolto l'annuncio della presenza di Puskas. 

Il vantaggio magiaro, siglato da Puskas
Le battute iniziali della partita parvero preannunciare la ripetizione di quanto gtà avvenuto in precedenti occasioni. Dopo appena otto minuti di gioco, gli ungheresi già si trovavano in vantaggio per due reti a zero. Al sesto minuto la mezz'ala destra Kocsis, ben lanciato da Lorant, avanza e spara: il tiro colpisce un difensore, e sul terreno slittante la palla viene deviata verso sinistra, dove Puskas interviene e sospinge in rete senza incontrare resistenza. Due minuti dopo il terzino sinistro Kohlmeyer non riesce a fermare Kocsis nuovamente entrato in area. Il portiere Turek esce, scivola e respinge malamente: arriva Czibor e sospinge in rete. 
E' qui che emerge subito il modo pratico di operare dei tedeschi. Lungi dallo scoraggiarsi per lo svantaggio iniziale, essi prendono a condurre offensive su offensive, smarcandosi e non tenendosi la palla un istante più del necessario. Nello spazio di due minuti essi riducono la distanza. L'ala sinistra Schaefer giunge fin sulla linea di fondo e poi centra forte e basso. La palla slitta sull'erba bagnata e uomini dell'una e dell'altra parte scivolano e la mancano. Il solo a non sbagliare è la mezz'ala destra Morlock, che da due passi la devia in rete. Tre palloni messi a segno nello spazio di quattro minuti, due da una parte e uno dall'altra. Ma non è finito. Al 18° minuto, sul secondo di due consecutivi calci d'angolo che i tedeschi hanno ottenuto, la scena si ripete identica. 

Rahn annulla la partenza ad handicap: da 0:2 a 2:2
Provenendo da sinistra, la palla traversa l'intera area della porta magiara senza trovare un piede che la devii o che la respinga: finché giunge l'ala destra Rahn che tira basso diagonalmente e tra la confusione generale infila il lontano angolo della rete. Due a due. Tutto quello che è stato fatto fino a quel momento risulta annullato. Dopo tutto, delle quattro reti segnate la colpa principale può essere attribuita alle condizioni del clima e del terreno. Occorre ricominciare. E si ricomincia in modo da far salire notevolmente il tono del gioco, in modo da entusiasmare gli spettatori, senza concludere nulla però. Alla metà tempo si è ancora sul due a due. 

Nella ripresa Czibor ritorna al suo posto sulla sinistra e Toth al suo sulla destra e i magiari producono il loro sforzo più notevole. Se non segnano in quel periodo è proprio perché manca loro la freschezza fisica. Prima Puskas, poi Kocsis sfondano e da pochi passi sparano direttamente sul portiere. Quindi la mezz'ala destra Kocsis, con uno dei suoi colpi di testa eccezionali, colpisce per mera sfortuna la traversa. Infine Czibor mette a lato da ottima posizione 
Si avvicina la fine e già ai giuocatori si presenta lo spettro dei tempi supplementari e agli spettatori si profila in lontananza la possibilità che l'incontro si ripeta sullo stesso campo mercoledì prossimo. Mancano cinque minuti al termine regolamentare e gli ungheresi, come per prendere flato — pare proprio che non ne abbiano più tanto a disposizione — rallentano lo sforzo. E' in quel momento che piomba loro fra capo e collo la botta che li abbatte. Gli attaccanti germanici manovrano come un piccolo plotone in piazza d'armi, ripetendo gli stessi temi e mettendo sempre in grande imbarazzo i difensori avversari. 
A un dato punto si fa avanti l'ala sinistra Shaefer e centra forte. Il terzino sinistro Lantos respinge corto. Entra in possesso la mezz'ala Morlock e passa indietro all'ala destra Rahn, il quale si è portato esattamente in posizione di centro e se ne sta tutto libero ad attendere. Rahn ha l'orizzonte chiuso, si sposta e manovra per trovare uno spiraglio. E lo trova, e così da lontano com'è lo infila con un tiro basso a filo del montante sulla destra del portiere Grosics. Il quale, con la visuale coperta da due avversari, non ha veduto la palla in partenza e non può che accennare a un gesto che più che di parata è di dispetto. Una rete storica, una rete che regala un campionato del mondo. 
I magiari restano come intontiti. Si scagliano rabbiosi in avanti e subito Puskas con un tiro basso e diagonale dalla sinistra verso la destra batte il portiere Turek. Il grido di gioia dei danubiani si trasforma in gesto di rassegnazione, nel vedere l'arbitro che punta il dito e annulla per fuori giuoco del suo autore. Ancora Czibor travolge tutto sulla destra e si presenta solo davanti al portiere. Potrebbe segnare con un tocco leggero — e allora tutto sarebbe stato nuovamente da rifare — e invece spara forte e alto e il portiere respinge lontano a pugni chiusi. E cosi tutto è finito. Perché nei due ultimi minuti i germanici menano il can per l'aia e giocherellano in attesa del fischio finale, precisamente come avevano fatto, quando erano in buone condizioni fisiche e in serenità d'animo, i loro avversari d'oggi contro il Brasile prima e contro l'Uruguay dopo. 

E' finita. E' caduta, stroncata dallo sforzo di tre durissime gare consecutive — tre vere finali — una grande squadra, una squadra che non conosceva sconfitte da 36 partite e da quattro anni. Ha perso, questa squadra, un incontro che in condizioni normali non avrebbe perduto mai. In una gara in cui la parte di protagonisti l'hanno fatta i due attacchi, a decidere definitivamente del risultato è stata una difesa che giuoca sciolta, che pratica una marcatura a 'zona'.

Desterà scalpore questa finale del campionato. 


Berna, 5 luglio.
La storia ama ripetersi. Anche nelle vicende del gioco del calcio. E' successo, qui a Berna, lo stesso fatto ch'era avvenuto a Rio de Janeiro quattro anni fa. In quell'occasione l'undici migliore di tutti era quello del Brasile. Qui la squadra superiore all'intero lotto dei presenti era quella dell'Ungheria. L'uno e l'altra sono giunti fino a un passo, un soffio dalla vittoria: e proprio sul traguardo sono crollati. Le due finali hanno avuto uguali vicissitudini a distanza d'anni, identico andamento, medesimo risultato. La unica differenza consiste nei motivi del crollo di chi doveva vincere. A Rio la causa è stata di natura profondamente psicologica. A Berna la ragione è stata invece del tipo fisico. Le grandi competizioni sportive — particolarmente quelle della palla rotonda — sono irte di aspetti e di motivi umani. Appunto perché i protagonisti sono uomini di carne ed ossa, non degli esseri superiori come certe esagerazioni vorrebbero far credere. La risposta al divismo la danno i fatti. 
Anche la situazione tecnica e morale delle due grandi competizioni è stata la medesima. Il Brasile in casa propria nel 1950, l'Ungheria in Svizzera quest'anno hanno perso un'occasione d'oro per assicurarsi il titolo di campione del mondo. Un'occasione che forse non si ripresenterà loro mai più.
Quattro anni fa i brasiliani disponevano di una compagine d'eccezione, specialmente per quanto riguarda l'attacco. Mancava di organizzazione, ma era grande. Nessuno si avvicinava al suo livello, nessuno era capace di fare quello che essa con naturalezza e facilità faceva. Perse per non avere avuto dalla sua la modestia, commise lo errore psicologico di credere di avere vinto prima che lo sforzo fosse finito e il traguardo raggiunto. 
Qui in Svizzera l'undici ungherese superava — e supera tuttora — della testa e delle spalle ogni altro contendente. Anch'essa una squadra d'attacco, non temeva confronti con nessuno in campo tecnico e in fatto di versatilità. Ma era un undici, non un quindici, né un quattordici e forse nemmeno un tredici. La sorte la toccò nel suo punto debole, proprio all'inizio della tenzone, privandola di una delle sue pedine più valide. Non disponendo di sostituti di uguale levatura dei titolari, rimediò come poté alla disavventura occorsale, e per garantirsi da sorprese, esaurì ogni altro elemento con la continuità dello sforzo. Nel corso del quale non ebbe la fortuna dalla sua. Perché la sorte si sbizzarrì a disseminare sulla sua strada i concorrenti più temibili. Giunse alla tappa conclusiva che era spossata, nervosa, rotta dalla fatica. 
E al cospetto d'un avversario che era l'immagine stessa dell'efficienza fisica, anche perché di sforzi immani fino a quel momento non ne aveva sostenuti, crollò. Lo sportivo che debba veder incespicare e cadere proprio a un passo dalla agognata meta l'atleta o il gruppo di atleti che si sia dimostrato il migliore nel corso di una lunga tenzone, non può non riportarne un senso di ingiustizia, non può non dolersi in cuor suo. Sono le piccole tragedie dello sport. 
In questo senso è stato accolto dal pubblico neutrale l'esito della finale di Berna. Un senso di rispetto e quasi di solidarietà morale con chi per vincere aveva dato tutto e non tutto ottenuto. Lo si vide subito fin dalle prime battute che l'undici magiaro non rispondeva fisicamente alle necessità e alle sollecitazioni dell'evento. A pochi minuti dall'inizio Czibor, la cui presenza alla destra invece che alla sinistra dell'attacco non si spiegava che come un accorgimento temporaneo, impegnò una schermaglia col suo diretto avversario e poi tentò una fuga isolata: risultò battuto in velocità, lui, il velocista della compagnia. Poco dopo Kocsis, saltando fra un groviglio di uomini, non riusci a salire più alto degli altri, come se facesse fatica a staccarsi da terra: proprio lui, lo specialista del gioco di testa. Era un indice delle condizioni fisiche degli uomini. Il massimo degli sforzi loro non otteneva che un risultato modesto. L'undici aveva nelle gambe le conseguenze dei duri tempi supplementari del mercoledì precedente. Il preciso effetto di cui aveva dimostrato di risentire l'Uruguay il giorno prima. Per entrare in finale, sud-americani e magiari si erano ridotti tutti e due sulle ginocchia. E finirono per perdere gli uni il terzo e gli altri il primo posto. 
Fu in simili condizioni che vennero alla luce, come mai fino a quel momento, i difetti di impostazione tattica del lavoro della difesa ungherese. Praticavano la 'difesa di zona', gli uomini delle linee arretrate, e pareva di vedere all'opera i difensori della Juventus nelle giornate in cui avversari di qualità inferiore gli procacciavano grattacapi su grattacapi. Aspettavano che gli oppositori fossero in possesso della palla e prendessero l'iniziativa, e poi, in condizioni di netta inferiorità, li affrontavano. 
E questi avversari erano tutt'altro che di qualità inferiore nell'occasione. Nello stile di corsa, nel trattamento della palla, nei duelli con gli ungheresi essi dimostravano una scuola. Parevano tutti modellati sullo stesso stampo. La loro divisa era in difesa quella della marcatura stretta e severa e in attacco quella del non tenere la palla un istante più del necessario, e dello smarcarsi continuo e immediato. Questo unito a una vigoria fisica eccezionale e a una ripartizione dei compiti esemplare. Quella tedesca è una squadra che è cresciuta di statura cammin facendo. Entrata nel torneo senza grandi pretese, due inattesi successi le hanno messo le ali ai piedi. La sua presenza in finale è la condanna degli originali sistemi di selezione della F.I.F.A., il suo comportamento tecnico è la prova dei risultati che si possono ottenere con la serietà e la costanza, la sua vittoria è un premio al valore tecnico espresso in linee semplici ed efficaci.

"Grazie Müller e Maier"

di Giovanni Arpino

A Dortmund e a Francoforte, la formula del mondiale tedesco (1974) ha fortunatamente messo in calendario, tra le ultime partite della seconda fase a gironi, due autentiche semifinali: Olanda-Brasile e Germania (Ovest)-Polonia. Riproduciamo il racconto delle partite offerto da "La Stampa" ai propri lettori, firmato da Giovanni Arpino.

Monaco, 4 luglio

Il sole di Monaco è pronto a suggellare il decimo mondiale di calcio, consumatosi nel freddo e tra i nubifragi. I più forti tra i Quattro Moschettieri, cioè l'Olanda e la Germania federale, sono riusciti ad assicurarsi l'ingresso alla finalissima dell'Olimpiastadion battendo polacchi e brasiliani mercoledì scorso. La sconfitta dei «cariocas» non ha commosso nessuno, anzi ha fatto registrare un indice di gradimento imprevedibile. Incattiviti, decaduti come maestri del pallone, sorretti da notevole fortuna oltreché dalle formule prudentissime di Zagalo, gli ex-campioni del mondo hanno disputato la gara contro i «tulipani» al di là del codice sportivo.
Rosso a Luis Pereira:
 Rivelino e Jairzinho (mani sui fianch) osservano rassegnati
Botte da k.o., falciate assassine, atteggiamenti provocatori sono riusciti a porgere al «teleglobo» intero e alla critica presente il grado a cui sono scesi gli antichi maestri. Inutilmente Pelè va in giro a propagandare se stesso, determinate bibite e il superbo concetto che i brasiliani hanno di sè: nella partita contro Cruyff, i vari bianchi o neri o meticci o indios «cariocas» si sono rivelati come uomini drogati dal proprio mito, e che concepiscono il pallone quale «totem» di loro esclusivo possesso.
Pur sapendosi inferiori non volevano arrendersi, ma trasformare la gara in una rissa. Forse, al posto di un arbitro tedesco, non gradito agli olandesi (ed è ovvio), troppo tollerante malgrado le ammonizioni e un'espulsione, avrebbe dovuto scendere in campo il sottosegretario americano Kissinger, presente in tribuna e amante di football, oltreché esperto di pianificazioni diplomatiche.

Se il calcio brasiliano ha inferto un duro colpo al prestigio sudamericano, se gli schemi e la condizione olandesi sono apparsi frementi di salute malgrado gli scontri che i «tulipani» reggevano con la loro ben nota corazzatura atletica, quello dei vari Beckenbauer ha patito fior di stranguglioni a Francoforte, in una partita svoltasi nella cornice del diluvio universale.
Per poterla effettuare, la tecnica tedesca ha dovuto spendere tutti i suoi tesori e le sue risorse: pompe aspiranti di ogni tipo, idrovore, vigili del fuoco, rulli che raccolgono acqua, decine di ometti che guazzano nell'erba fradicia per rendere praticabili le zolle a furia di scucchiaiare quanto vi aveva scaraventato un cielo corrucciatissimo. Una autentica orgia tecnologica, che le telecamere e gli spettatori seguivano via via più preoccupati. Ma l'arbitro, l'esigenza dello spettacolo, il «già venduto» per i video del mondo hanno fatto sì che i 90 minuti trascorressero, seppure con iniziale ritardo, e anche se il campo era assolutamente inagibile. Il calcio dorato dei mondiali non può concedersi sosta: rispetta più i circuiti e i contratti televisivi che non i regolamenti.
I polacchi, benché handicappati dal pantano proprio perché più classici e dotati di schemi puntuali, hanno dato battaglia senza soggezione alcuna. Privi di quello Szarmach «faccia di faina» che è punta indispensabile negli attacchi dei rossi, hanno tuttavia agito quasi umiliando il kaiser Beckenbauer. Il divino Franz si è ben guardato dall'avanzare, timoroso di cadere in qualcuno dei suoi famosi «buchi». Davanti alle triangolazioni polacche, la difesa tedesca ha ballato per tutto il primo tempo. Sette le conclusioni dei rossi e due sole, per nulla pericolose, quelle dei tedeschi nei primi 45 minuti.
Il penalty ciccato da Hoeness
La Germania federale è atleticamente forte, si sa: punta su «bestie» implacabili che partono dalle retrovie a dar manforte all'attacco, ha un Overath in crescendo e un Bonhof che lavora come un folle nel centrocampo. Ma è priva di sapienza tattica, e i polacchi, astuti, sono riusciti ad imbrigliarla, anche se le armoniose triangolazioni tra Lato e Gadocha venivano irrimediabilmente costrette a naufragare nelle pozzanghere.
«Bravo Mueller, grazie Maier», dicevano i giornali tedeschi d'oggi, e hanno perfettamente ragione. Per lunghissimi tratti il migliore dei bianchi è apparso il portiere Maier, «recuperato» con gran fortuna dagli psicologi e chiamato a un lavoro continuo dai tiri di Deyna, degli esterni Lato e Gadocha. Due gol alla fine del primo tempo, a favore dei polacchi, non avrebbero scandalizzato nessuno, anche se la regìa di Deyna risultava affannata rispetto alle prove precedenti per la morsa in cui lo stringevano Overath e Bonhof.
Nella ripresa la Germania sfodera la cosiddetta marcia in più. Precisiamo: non aumenta affatto il ritmo e non infittisce o migliora gli schemi, semplicemente approfitta del calo dei rossi, affaticati da quel terreno che non li ha lasciati «produrre» reti apparse quasi inevitabili. Il centrocampo governato da Deyna patisce ormai l'arrembaggio tedesco, Lato e Gadocha si perdono (ogni buon giocatore è vittima di atteggiamenti divistici, non importa se arrivi da un Paese dell'Est o dell'Ovest: il palcoscenico mondiale contagia tutti, quando non sorregge l'intelligenza) in qualche leziosaggine. Neppure si danno pena per l'arbitro austriaco Linemayr che non è solo casalingo ma addirittura casareccio, spregia la regola del vantaggio (polacco) e lascia correre qualche botta (tedesca) con cerimoniosa acquiescenza verso il pubblico deutsche ringalluzzito.
Finisce che i bianchi passano, dopo aver messo in crisi il pacchetto arretrato degli avversari, dove Gorgon, impantanato nel fango come un pescatore, ricorda ormai il nostro Ferrante dopo una cura di anabolizzanti. Un penalty al 52': Overath stecchisce in dribbling stretto due difensori, è abbattuto da Zmuda. Dagli 11 metri il balordo tedesco Hoeness imita quel Tapper svedese che già non riuscì ad infilare il colossale portiere polacco. Un tiretto a mezz'altezza che «Tom» devia senza difficoltà.
Ma la Germania ormai vuole la posta piena, avendo avvertito la fatica che appesantisce i rossi. La raggiunge al 76', è Bonhof a saltare due polacchi al limite dell'area, pesca Mueller (mobile ma troppo confusionario in questi mondiali) liberissimo tra Gorgon e lo stopper: il destro rapido del centravanti non spreca la botta. Uno a zero e tutti cantano, bevono mentre la partita si sbriciola, mentre altre nubi trasformano il cielo di Francoforte in una bolgia alla Daumier. Fuggiamo tutti sotto scariche che affogherebbero un branco di elefanti.
E' Monaco, ormai. I due definitivi appuntamenti del calcio mondiale stanno per concludere quello che i vecchi segugi della critica definiscono il torneo più triste degli ultimi vent'anni: per motivi di organizzazione, di clima, di ambiente, per le deficienze già fin troppo denunciate, ma anche per la scarsa lezione di calcio riversata da tanti stadi. Non ci fosse stata questa Olanda, fosse mancato questo Cruyff, qualcuno parlerebbe di fallimento totale.
L'esempio degli arancioni e del loro meraviglioso «falchetto», capace di rapinare gol e di suggerire azioni a tutti i compagni, non possono però illuminare gli angoli bui di un mondiale che sarà definito di «trapasso». Gli sforzi dinamici vengono già pagati, da polacchi e tedeschi, il «collettivo» rispettabile ma arido di alcuni Paesi dell'Est si è fermato alle premesse iniziali, il declino di brasiliani, argentini, italiani ha tolto troppo pepe.
Rimangono le ultime sfide: con i cariocas opposti sabato ai vari Gorgon e Gadocha, che certo non partono sconfitti, e il gran gala di domenica, tra bianchi e arancioni. Sarà davvero una «bellissima»? Dipende da Cruyff e dal fenomenale Neeskens: per la prima volta in vita loro, anche i presuntuosi tedeschi hanno una fifa diabolica.

(La Stampa, 5 luglio 1974, p. 17)