Cartoline dall'estate 2007

Scritte nell'estate 2007 sono state recapitate solo in questi giorni. Un po' ingiallite, e più cattivelle, ma la loro attualità sta forse nella dissonanza e in quello che il filosofo cinico Arnaldo Forlani descriveva come l'eterno ritorno del sempre uguale
E la chiamano estate
Luciano Gaucci e Saadi Gheddafi
Diciamocelo francamente. In questa estate meno torrida delle precedenti, ci sentiamo un po’ orfani di personaggi che avevano rallegrato la commedia messa in scena dai pallonari italiani negli ultimi anni. Pensiamo alla repentina eclissi di prime donne indimenticabili come Luciano Gaucci, capaci di infiammare le piazze di varie città e di marciare su Roma sfasciando a colpi di TAR i cosiddetti “formati” dei campionati federali della Giuoco Calcio. Ma anche a memorabili scandali, come quello allo zafferano che precipitò a giocare a San lo so io la Fiorentina di Vittorione CG e di Evacuo Felice. Ora che i nuovi proprietari calzaturieri prediligono mangiare bistecche con commensali imbarazzanti tutto sembra invece più rispettabile. Più azzimato, nonostante l’adipe che occhieggia sopra la cintola di Mr. Tod o i mutandoni a stelle e strisce esibiti dall’alter ego milanista di Teo Teocoli sulle spiagge della Versilia.
Siamo entrati infatti nell’epoca perbenista di Giancarlo Abete. Una noia profonda: lunghe omelie mediatiche in cui il Presidente che ha esordito pigliandosi in faccia le trote miliardarie ucraine è capace di dire nulla e il contrario di nulla, cioè niente. E il cui unico fremito è dato dalla spasmodica attesa del responso nazionale del Pupone. Al confronto non può non giganteggiare, nel ricordo, il buon Mario Carraro, la cui vocina da sacrestia sembrava espressione di potere autorevole, e che invece abbiamo appreso che ne mascherava la stizzita impotenza di fronte alla sardonica protervia di certi designatori arbitrali. Eppure capace, l’ex tutto, di designare a sua volta con preveggenza il suo giudice “naturale”, tale Piero Sandulli, un figurante del genere del senatore De Gregorio, e di uscire con tutti gli sconti dal grande mercato della cosiddetta Giustizia sportiva. Un mattatore d’altri tempi, verrebbe da dire, di fronte all’attuale compagnia di giro dagli stanchi copioni, magari anche politicamente corretti, ma che non divertono più. Che nostalgia.
14 luglio 2007

Vot’Antonio
È ammosciato Tonino. Anche lui, in questa estate di bonaccia. Ha perso la verve. Ci eravamo illusi, alla fine dell’estate 2006, che il colpo di teatro della compagnia dei presidenti di rinominarlo, immarcescibile, alla guida Lega calcio potesse ravvivare un ambiente depresso dalla vittoria della Coppa del mondo alzata da un capitano capace di esternare in mondovisione la sua stima per gentiluomini come Luciano Moggi e Antonio Giraudo (e di confermala, anche, dopo puntigliosi distinguo su sollecitazione del Guest Director di allora, Guido Rossi). Il commento attonito di Massimo Moratti (“è un uomo di esperienza”) ci aveva fatto sperare. E le dichiarazioni invernali di Tonino dopo la tragedia di Catania sembravano confermarne la tempra camaleontica, di combattente corazzato per tutte le stagioni. Eppure.
Antonio Matarrese
Eppure anche su di lui sembra essere calata la patina di grigiore che rende irriconoscibile la nuova stagione dello Stabile pallonaro italico. Scialba e smarrita come il parto eterno del Partito democratico. La torta dei diritti televisivi da spartire collettivamente assomiglia a un piatto indigesto. Il braccetto di ferro col presidente Abete sulle date di inizio agostane del campionato non pare più che un dispettuccio. Le schermaglie mediatiche con il brizzolato Commissario Tecnico (“è tanto un bravo ragazzo, ma deve maturare imparando a stare zitto”) poco più di un lazzo. E ben altra cosa rispetto alle memorabili allusioni intimidatorie di Lucianone sul Mancio (“è giovane, si farà, potrà vincere anche lui lo scudetto tra qualche anno”). Ora è anche volato a Zurigo ad abbracciare un suo vecchio sodale: lo stesso che aveva cercato di disarcionare a colpi di dossier qualche anno fa, d’intesa con la stessa vecchia renna svedese che consegnò la Coppa al nostro capitano sotto il cielo di Berlino. Insomma, pare essersi imborghesito anche lui, il nostro Tonino. Non ci resta che imbracciare l’imbuto e incitarlo littoriamente a gran voce nello scrostato cortile del nostro calcio.
21 luglio 2007

Al Pantheon
Non resta che darci anche noi al Pantheon. In un’estate pallonara senza sussulti, senza ricorsi al TAR, senza fidejussioni balcaniche, senza un Chinaglia che scala la Lazio, e dove anche il rinvio a giudizio della stimata compagnia Moggi e Associati assomiglia a un copione già visto. Nemmeno il fremito degli infradito della bella Ministra sui campi bagnati di Coverciano. Nulla. Tutto salmonato, azzimato, perbenista. Tutti che vogliono andare a giocare nell’Inter.
Carmelo Bene
E allora buttiamo giù il nostro piccolo Pantheon. Cominciamo anche noi da una Triade. Quella dei più grandi intellettuali italiani della fine del secolo scorso, autori di vere fratture epistemologiche: Righetto, Carmelo ed Enrico. Del primo ricordo una memorabile amichevole del suo Milan sul prato di Wembley (quello di Hurst, non quello di Pazzini) nell’estate del 1988: una squadra perfetta, sinfonica, senza sbavature, con là davanti un fantastico fenicottero olandese dalle fragili cartilagini. Del secondo ricordo non solo la maestosa, silente e remuneratissima (per lui) direzione della Biennale Teatro, ma anche le comparsate da Biscardi (senza canovaccio, cioè senza la spalla di Davico Bonino) a illuminarsi di Liddas, della Roma e di Falcao. Del terzo ricordo non tanto la “differenza” che ha assunto il nostro immaginario televisivo grazie anche alle sue interurbane in asincrono e in t-shirt bianca, ma l’intervista a Carmelo del 1997 (Il mezzo è l’aria) sull’“immediato” in Romario e su una sua famosa punizione ai mondiali americani del 1994 in cui calciò la palla e si presentò in un attimo a riprendersela di persona dietro alla barriera. Un capolavoro nel gesto e nell’esegesi dei suoi cultori. I tre stanno alla cultura italiana come il Mahabbarata di Peter Brook alla storia del teatro: c’è infatti un prima e un dopo il Milan di Sacchi per il calcio, Bene per il teatro di parola, Ghezzi per la cultura della visione. Con buona pace di chi crede che gli intellettuali siano solo gli Eco, i Tabucchi o chi scrive sul paginone di Repubblica.
28 luglio 2007

Tesoretti
Bernd Schuster
Ce l’hanno tutti. Il tesoretto. Ce l’ha anche Ramon Calderon, un personaggio che promette bene. In grado, se non si imborghesisce anche lui, di rallegrarci un poco nei prossimi anni. Uno capace di vincere lo scudetto dopo annate di vacche magre e di licenziare il giorno dopo l’allenatore, con una buonuscita da 6 milioni di euro. Intendiamoci, non che Mascellone sia il massimo della simpatia, ma è uno capace di vincere: anche il mondiale in Sudafrica. Chi può dimenticare le foto della cena nel dammuso nell’estate memorabile del 2006, quando la Juve era nella tempesta e da Madrid si mosse Predrag Mijatović (di cui, peraltro, ancora veneriamo il gol nella finale di Champions del 1998) per portare Capello al Real? Beh, ora siamo a Schuster, uno di quei tedeschi cui piace più il Mediterraneo delle brume tedesche: uno pertanto che ha tutti i numeri per non vincere nulla. E siamo a Kakà, a Chivu, e ai 28 milioni di euro per un normale difensore centrale portoghese, tale Pepe (ed è curiosa, e tutta nei misteri senza fine, questa epidemia lusitana di marcatori centrali, cominciata in tempi più lontani con quella testa calda di Coutho, e ora dilagante con i vari Carvalho, Andrade e compagnia).
Il tesoretto ce l’ha anche la Juve, ci mancherebbe. Solo che lo gestisce nei modi subalpini compassati e ora anche autocompiaciuti della Torino post fordista: quella del Museo del cinema alla Mole, della festa del libro al Lingotto, del badmington a Pinerolo, per intenderci. Le eredità della Triade non sono solo la serie B e la gioia diffusa di tutta la nazione non bianconera, ma anche una smodata quantità di giocatori in entrata e in uscita: 35 convocati in ritiro, per stare alle cifre. Dunque un tesoretto di famiglia che la nuova dirigenza sembra volere capitalizzare. Con orizzonti diversi rispetto a Madrid: là Pepe qui Andrade, là Kakà qui Tiago, la Chivu qui Criscito. Che poi, in entrambi i casi, tutto ciò serva a vincere lo si vedrà. Il vantaggio, al momento, è che nessuno ha Padoa Schioppa a libro paga.
4 agosto 2007

Memorabile
Il Vecio e Gaetano, tra gli altri
Rileggo le pallonate tirate in precedenza, e colgo una ricorrenza: l’aggettivazione “memorabile”. Provo a capirne i motivi. D’istinto direi che è sintomo di una carenza e di una paura. Ci sembra sempre che alle emozioni attuali manchi qualcosa di comparabile al passato, e abbiamo timore che quelle che abbiamo provato (più numerose forse solo perché accumulate nella memoria) non si ripetano in futuro. Con un amico di comune fede eupallica e di comprovata sapienza calcistica (Mans), il 10 luglio 2006 discettavamo su quale Italia fosse migliore per qualità morali e tecniche: se quella dell’Ottantadue o quella di un quarto di secolo dopo. La mia istintiva propensione andava a quella pilotata dal Vecio: Zoff, Gentile, Cabrini, Oriali, Collovati, Scirea, Conti, Tardelli, Rossi, Antognoni e Graziani. Nomi ormai scolpiti, nella memoria, come quelli dell’Inter di Herrera. Ma è difficile dire, mi si faceva giustamente notare, se Buffon, Zambrotta, Cannavaro, Materazzi, Grosso, Gattuso, Pirlo, De Rossi, Camoranesi, Totti e Toni, e lo stesso Lippi, siano davvero tanto più scarsi. Chi come noi ha la sfortuna di avere ormai l’età per averle viste entrambe, e la fortuna di avere visto vincere la nazionale per due volte nella vita, potrà dire la sua.
Il rifugio nella memoria è però forse anche un segno di poca fiducia in quello che avverrà. E forse è vero. Ma bisognerebbe essere ottimisti sul fatto che il Gran Teatro del Pallone continui a darci in futuro altri Maradona e altri Beckenbauer, altri Cecchi Gori e altri Biscardi. I primi si intravedono da giovani e si seguono con tremore, paventando che sfioriscano: si chiamino Messi o Casiraghi. I secondi, invece, in genere non sono avvistabili a distanza ed erompono all’improvviso. I primi ci deliziano ed esaltano per le gesta, i secondi ci rallegrano per la loro improbabilità da veri freaks che solo il circo del pallone sa accogliere. I primi sono eroi da tragedia, i secondi guitti da commedia. Tutti, però, li portiamo con noi nella memoria.
11 agosto 2007

Gentlemen
Ha cominciato sparato. “Gli altri devono vincere lo scudetto, noi daremo fastidio a tutti”, “essere alla Juve è già essere nella storia, ma non mi accontento, voglio scriverla”, “questa è una grossa Ferrari: essere competitivi è il sogno di tutti”, “lavoreremo senza illusioni, ma sognando”, “la società ha fatto non bene, ma benissimo”. Insomma, il personaggio promette di infarcire di altri bei luoghi comuni anche le settimane pallonare della prossima stagione. Che poi riesca a finalmente a vincere qualcosa in carriera, Claudio Ranieri, è solo una possibilità, non una probabilità. Finalmente però si è alzata un po’ di brezza dai ritiri alpini.
Antonio Giarudo e Riccardo Agricola.
In tribunale
Rimaniamo alle dichiarazioni del raduno festante in cui i Bianconeri si sono presentati sfoggiando il soprannome cromatico su delle belle magliette rosse. I giornali l’hanno chiamata “cordiale nonchalance”: piuttosto, è sembrato anche questo un bel segnale contraddittorio. Come quello lanciato dal nuovo AD savoiardo che ha esternato anche lui che la “nuova” Juventus vuole “prevalere sugli avversari nel rispetto della sua storia: vincere da gentleman”. Difficile credere, però, che si riferisse a gentiluomini come il dottor Agricola, il mago merlino dei tre scudetti farmaceutici della Juve di Lippi, certificati dalle sentenze (si noti, non da mere indagini) dei tribunali della Repubblica. O a milord come il dottor Giraudo e l’ex capostazione Moggi, scelti personalmente dall’Avvocato buonanima per assicurare continuità allo stile della vecchia signora, e ai quali la Juve deve alcuni altri tricolori “vinti" - come si dice - "sul campo”. Nonostante non fossero “smart”, come invece avrebbe voluto il rampollo scapestrato di casa FIAT.
E poi ci si stracciano le vesti perché Massimo Moratti, il presidente della Beneamata, ha valutato miliardi degli onesti ronzini o ha taroccato qualche passaporto: anche così facendo ha continuato a non vincere un tubo per anni, il galantuomo. Altro gentleman, altri risultati. 
18 agosto 2007
Azor