Italia-Cecoslovacchia (15 novembre 1931)

Le cronache di Monsù
16 novembre 1931

Terzo match per l'Italia nella Coppa Internazionale 1931-32, a Roma contro la Cecoslovacchia (Cineteca). Molto interessante è, qui, la lucida esposizione dei vantaggi di un gioco che si basi sul contropiede ("contrattacco") piuttosto che su dominio territoriale e offensiva costante.


Roma, 16 mattino.
Come risultato, fu uno degli incontri più disgraziati che abbia giocato la squadra nazionale italiana da qualche anno a questa parte. Con media fortuna, la gara avrebbe dovuto segnare un netto, chiaro e facile successo degli azzurri. Si guardi all'andamento del gioco. In tutto il primo tempo i boemi non riescono ad entrare una sola volta, non una volta a mezzo di un attacco, nell'area di rigore italiana. Nella ripresa essi portano un attacco solo - uno spunto individuale dell'ala sinistra - che possa venir definito come pericoloso: e questo attacco viene neutralizzato con sicurezza dalla difesa nostra. In tutti i novanta minuti di gioco, due palloni soli vengono indirizzati verso la rete di Combi: il primo, su una inesplicabile esitazione della difesa nostra; il secondo su calcio d'angolo e col netto concorso del caso, chè l'avversario che toccò la palla fu su di essa proiettato dalla carica di un difensore nostro. Ambedue i palloni andarono a finire in rete a fil di palo, quasi in angolo.

Disdetta

Per tre quarti dell'incontro le ostilità hanno per teatro la metà campo avversaria. In tutta la partita il portiere italiano tocca sì e no una mezza dozzina di palloni: il suo collega cecoslovacco viene chiamato all'opera con tanta continuità ed urgenza, da comparire a tratti come l'uomo più occupato in campo. Gli azzurri tengono la vittoria in pugno a tre minuti dalla fine: e il successo sfugge loro per un calcio d'angolo provocato da un duro colpo ad un difensore, e mentre un altro dei loro, un mediano, è impossibilitato a muoversi per ferita ad una gamba. Non è fuori luogo, in simile circostanze, parlare di disdetta. 
Ma, detto ciò, occorre con identica sincerità ed immediatezza riconoscere che la squadra nazionale italiana giocò al di sotto del proprio valore e delle proprie possibilità. Una buona metà della squadra giocò in tono privo di grande combattività, come se l'efficienza ne fosse da inspiegabile soggezione velata. Si può dire che, poche eccezioni a parte, nessuno dei nostri uomini sia apparso in condizioni fisiche e tecniche risplendenti. Ma essenzialmente fu l'impostazione del gioco quella che lasciò a desiderare. La giornata e l'avversario erano per il gioco largo, per gli spostamenti d'azione, per le avanzate in profondità. Tutto quanto era gioco minuto, stretto, tutto quanto necessitava duelli e piccole prodezze individuali, era opportuno venisse evitato o posto esclusivamente a servizio del piano prestabilito. In questo preciso ed inequivocabile senso erano stati presi gli accordi e impartite le disposizioni tattiche per l'incontro. E in questo senso ci si comportò per i minuti iniziali della partita, quando, cioè, la gara parve aperta a più di una possibilità. 
Non appena, però, la superiorità italiana si delineò chiara e l'avversario venne stretto, inchiodato nella sua metà campo e gli attacchi dei nostri presero carattere di continuità, allora il gioco cambiò tono. Come su una china fatale, si scivolò verso il gioco sterile dei movimenti centrali e a breve respiro. E come conseguenza naturale, quando le migliori occasioni di segnare si presentarono - occasioni d'oro che avrebbero dovuto dar senz'altro ai nostri il vantaggio sostanziale di un paio di punti almeno - due o tre attaccanti azzurri si trovarono regolarmente addossati gli uni agli altri, con nessun spazio per realizzare, l'uno impacciando e innervosendo i movimenti dell'altro, e facili tutti insieme ad essere marcati e scombussolati dall'energica e null'affatto complimentosa difesa avversaria. Psicologia del giocatore. Al più disciplinato, intelligente e volenteroso fra essi succede di andare sul campo con un ordine da eseguire e una idea da seguire e di sentirsi a un dato punto irresistibilmente trascinato a fare l'opposto di quanto intende. Ieri il centro-attacco italiano, dopo alcuni magistrali tocchi d'inizio, fu come preso nella pania tesa dalla superiorità che la sua squadra esercitava sull'avversario. Passava alle ali nell'area di rigore, invece che a metà campo, cercava insistentemente il contatto con le mezze ali, rallentava l'azione con ritorni su se stesso e movimenti in linea quando essa era lanciata e essenzialmente non ricorreva a nessuno di quei tentativi individuali che potevano risolvere situazioni ingarbugliate. Meazza fece, cioè, esattamente il contrario di quello che è il portato delle sue caratteristiche e delle sue doti naturali. 

La difesa dei cechi

Il giocatore è un uomo come gli altri. Dopo una gran prova ne fa una scialba: salvo riprendersi il giorno dopo. Ma il riferimento al tono e all'impostazione del gioco riguarda l'intera linea, non il solo centro-attacco, che venne menzionato per la sola peculiarità dell'esempio. Il male autentico ed originale dell'attacco italiano fu quello di essere troppo continuato. Quando l'attacco diventa pressione e la predominanza prende quasi il carattere di assedio, le avanzate perdono di forza penetrativa negli incontri in cui il risultato è tutto. L'offensiva più penetrante e pericolosa è quella del contrattacco che parte da lontano e passa come un cuneo lacerante attraverso le maglie della difesa avversaria; la pressione continuata ha caratteri e conseguenze opposte al contrattacco. La difesa avversaria si chiude e si rafforza a mezzo di elementi attinti dall'attacco, l'intera squadra degli oppositori si rannicchia e forma un fronte chiuso come una parete. 
La superiorità degli azzurri, netta, continuata e indisturbata, fu in certo qual modo causa o per lo meno concausa prevalente della mancata efficienza d'attacco e quindi del mancato successo. 
Quanto di buono si vide nell'incontro fu essenzialmente di marca italiana. Tanto di cappello alla difesa dei boemi. Planika <sic, qui e in seguito: recte Plánička> è un baluardo. Egli salvò ieri la sua squadra dalla sconfitta. Nel primo tempo, quando i nostri pareva dovessero sfondare e travolgere, il portiere boemo si erse di colpo fra gli azzurri e la vittoria. Fu Planika che, col suo contegno fermo e sicuro, diede sicurezza alla difesa, e un secondo animo a tutta la squadra degli ospiti. I due terzini, particolarmente Burger <recte Burgr> , hanno sicurezza notevole sulla palla, e posseggono un'energia di intervento e tocco che spesso varca i confini della mancanza di scrupoli. I due terzini ebbero ieri il grande vantaggio di poter giocare in assoluta libertà, mai stretti da vicino né preoccupati dall'irruenza di attaccanti nostri. I mediani boemi furono essenzialmente dei difensori. Non si mossero dalla metà campo, non pensarono ad altro che a disfare il lavoro degli attaccanti nostri. Appena se si vide qualche spunto costruttivo di Simpersky; Madelon <sic, forse in luogo di Knobloch>  dedicò se stesso esclusivamente a fermare Orsi. 
L'attacco è descritto quando si ricorda che in tutti i novanta minuti non riuscì a portare una sola offensiva, non una sola ripetiamo, mostrante scienza, avente forza penetrativa e denotante coesione. Svoboda fu il migliore degli avanti. L'intesa fra gli uomini della prima linea, che posseggono tutti una notevole padronanza sulla palla, fu riservala tutta a passaggi in linea e a combinazioni di poco effetto. In complesso, la rappresentanza inviata dalla Cecoslovacchia a Roma è lontana dal possedere quell'intrinseco valore tecnico e quel marcato carattere scientifico che aveva anni or sono. Ciò, portiere a parte. Che nei tempi in cui il calcio boemo dava lezioni e impartiva sentenze in Europa, un guardiano della rete come Planika la Cecoslovacchia non lo ebbe mai a disposizione. 

La nostra squadra 

Gli italiani erano alla loro prima prova della stagione e, come il primo passo fatto in ognuna delle due ultime stagioni, la prova mise in luce difetti di impostazione di gioco e di coesione tecnica che hanno bisogno di essere curati. La distribuzione dei compiti nella difesa e la tattica da seguire praticamente nell'attacco hanno necessità di cure. Con giocatori intelligenti e volonterosi come sono gli azzurri dell'attuale leva, i difetti ieri comparsi hanno ogni possibilità e probabilità di venir curati. Chè l'incontro, a ricostruirlo così nella memoria, ha un po' il sapore di una beffa della sorte come risultato. Un primo tempo in cui gli azzurri mancano occasioni per segnare di una facilità addirittura bambinesca: tre uomini soli davanti alla porta con la palla che attraversa tutta l'area ed il portiere spiazzato, rappresentano la situazione tipica fra quelle che si presentarono ai nostri uomini in questo periodo. E' una ripresa che vede gli ospiti pareggiare con due soli palloni da essi indirizzati verso la nostra porta. 
Gli uomini nostri han preso questo colpo della sorte nello spirito dovuto. Come un brusco e sgradevole, ma dopo tutto utile e non inopportuno richiamo alle necessità del momento: necessità che si riassumono nel non dormire sugli allori del passato e nel lavorare. Non vi è che l'incontro internazionale vero e proprio, con tutti i suoi rischi e pericoli che possa istradare al giusto uno squadra, per quanto preparata ed attrezzata, per la stessa ragione per cui non vi è che la guerra autentica che possa far l'animo del soldato. 
L'anno scorso l'esperienza del primo incontro della stagione venne utilizzata come un tesoro: la squadra ebbe il coraggio e la chiarezza di vedute necessari per distinguere il bene dal male. Perseverò in quanto di bene aveva prodotto ed eliminò quanto di male aveva fatto. Certe lezioni insegnano, tanto che nei corsi e ricorsi della vita dello sportivo hanno bisogno di essere ripetute una volta ogni tanto. Gli azzurri si sono smobilitati a Roma con un po' di amaro in bocca, ma con uno spirito che non può non portarli ad un miglioramento.