Da intercontinentale a globale

Il Fußball-Club Bayern München ha dunque alzato il 21 dicembre 2013, nello Stade de Marrakech, la sua prima Coppa del mondo per club, che va a far bacheca con le due Intercontinentali vinte nel 1976 e nel 2001. E' il quinto titolo del 2013 per i Roten: un anno indimenticabile, transitato senza soluzione di continuità dal Triple con Jupp Heynckes ai trofei internazionali con Josep Guardiola. Al predominio nazionale ed europeo, la squadra, ricca di campioni, ha aggiunto anche quello mondiale. Ma che cosa ha vinto esattamente il Bayern in terra d'Africa? L'occasione è buona per qualche riflessione sul significato che ha assunto l'ennesimo torneo organizzato dalla FIFA.

19 settembre 1962, Estádio Jornalista "Mário Filho" - Maracanã (Rio)
Edson Arantes do Nascimento giocò nella finale d'andata
contro il Benfica una delle sue grandi partite da O Rei
Come è noto, la FIFA Club World Cup si propone dal 2005 come ideale prosecuzione della Intercontinental Cup, un trofeo che fu avviato autonomamente nel 1960 dalle confederazioni calcistiche europea (la UEFA) e sudamericana (la CONMEBOL) per fare incontrare le migliori squadre dei continenti che avevano generato e fatto crescere il gioco del calcio (Gianni Brera usava dire che "se l'Inghilterra è la madre del calcio, l'Uruguay è il padre"), e aggiudicare il titolo di migliore squadra intercontinentale (e, sottinteso, del mondo). A giocarselo erano la vincitrice dell'europea Coupe des clubs champions européens, che era stata avviata nel 1955 [vedi], e la vincitrice dell'equivalente sudamericana, la Copa Campeones de América, che fu invece inaugurata nel 1960 proprio per poter selezionare la squadra da contrapporre a quella campione d'Europa. Lo scambio intercontinentale fu favorito anche dal coevo boom dei voli aerei transoceanici che nei primi anni 1960s cominciò a rendere più piccolo il pianeta, sostituendo definitivamente i lunghi viaggi per nave.

La storia della Coppa intercontinentale e della sua continuazione come Coppa del mondo per club può essere distinta utilmente in quattro fasi. La prima è quella pionieristica e, per molti aspetti, mitologica perché più raccontata dai giornali che intravista dalle televisioni in bianco e nero [vedi la Cineteca]. A giocarsela furono, negli anni sessanta, un pugno di squadre incastonatesi nell'immaginario collettivo: il grande Real Madrid (che si aggiudicò la prima edizione con i gol di Puskas, Di Stefano e Gento), il Peñarol di Montevideo (2 coppe), il Santos di Pelé (2 coppe), l'Inter di Herrera (2 coppe), il Racing Club di Avellaneda, l'Estudiantes de La Plata e il Milan di Rocco e Rivera, per stare alle vincitrici. Tra le sfidanti furono anche il Benfica di Eusebio, l'Independiente di Avellaneda, il Celtic di Jock Stein e il Manchester United di Bobby Charlton. Questa fase eroica della competizione, nutrita di partite di andata e ritorno con eventuale spareggio, perse improvvisamente la sua aura il 22 ottobre 1969, alla Bombonera di Buenos Aires, quando gli argentini (non solo quelli in campo, ma le stesse forze dell'ordine) trasformarono la gara di ritorno tra Estudiantes e Milan in una caccia all'uomo, di cui il volto tumefatto di Nestor Combin è rimasto imperituro emblema.

22 ottobre 1969, La Bombonera, Buenos Aires
Il vicepresidente del Milan Federico Sordillo
consola con una carezza Nestor Combin,
massacrato in campo dagli argentini dell'Estudiantes
(frattura del naso e dello zigomo)
Fu il clima surriscaldato delle trasferte in Sudamerica a mettere in crisi la Coppa. I club europei avevano partecipato alle prime edizioni nella convinzione che vincere il nuovo trofeo valesse davvero il blasone della supremazia planetaria. Nell'atteggiamento crescentemente aggressivo dei sudamericani, e in particolare degli argentini, si esprimevano non solo ancestrali memorie - la loro coppa continentale fu dedicata ai Libertadores de América, liberatori dai domini imperiali europei, cioè - ma anche il malcelato rancore nei confronti del crescente potere economico dei club europei, che cominciavano a saccheggiare in modo sistematico i campionati sudamericani dei migliori giocatori. L'esito fu che le principali società del Vecchio continente si rifiutarono di affrontare insidiose trasferte fino alla fine del mondo col rischio di subire intimidazioni ambientali e di mettere a repentaglio la carriera dei propri campioni, spesso grazie anche ad arbitraggi scandalosi. Furono l'Ajax e il Bayern - dominatori per sei anni consecutivi della Coppa dei campioni (1971-1976) - a segnare una discontinuità: entrambe rinunciarono a due edizioni, limitandosi a partecipare e a vincere quelle del 1972 e del 1976. Sul loro esempio anche il Liverpool e il Nottingham Forrest rinunciarono del tutto a recarsi in Sud America negli anni successivi. Per l'Europa finirono col partecipare le finaliste della Coppa dei campioni: il Panathinaikos, la Juventus (che ottenne di giocare una finale secca a Roma), il Borussia M'bach e l'Atlético Madrid. Solo quest'ultimo vinse il trofeo (nel 1974, ascrivendo all'albo d'oro l'unico caso di un vincitore non campione continentale). In due occasioni (1975 e 1978) la competizione non si svolse nemmeno, con la scusa ufficiale che i club non erano riusciti ad accordarsi sulle date in cui disputare la competizione. Quando nel 1979 a presentarsi ad Asunción in Paraguay contro l'Olimpia fu il Malmö Fotbollförening fu chiaro a tutti che la competizione di Puskas, Pelé, Corso e Rivera era ormai decaduta di significato e importanza.

9 dicembre 1984, National Stadium, Tokyo
I giocatori dell'Independiente festeggiano la seconda Intercontinentale
vinta dal club. Il Liverpool è invece l'unica società di grande tradizione
a non averla mai vinta
A risollevarne le sorti fu l'incipiente trasformazione del gioco in prodotto commerciale, mercé la televisione. Nel 1980 la multinazionale giapponese Toyota rilevò da UEFA e CONMEBOL i diritti di sfruttamento economico della Coppa e impostò una formula efficace: partita secca, nel dicembre di ogni anno, al National Stadium di Tokyo, trasmessa in mondovisione in orari compatibili con entrambi i continenti interessati. Alla vecchia coppa, i nipponici affiancarono la Toyota Cup, primo esempio di sponsorizzazione del titolo di una competizione calcistica di vertice. A farne le spese furono i tifosi europei e sudamericani abituati a vedere le partite allo stadio, ma in compenso crebbe enormemente l'audience televisiva intorno alla quale cominciò a crearsi una tifoseria planetaria, in primo luogo asiatica, caratterizzata da due qualità (agli occhi dei organizzatori): non violenta come gli hooligans britannici o i barras bravas latini, e predisposta a "consumare" disciplinatamente il prodotto (televisione, magliette, presto anche videogiochi, etc.). Le edizioni degli anni 1980s divennero un appuntamento calcistico realmente mondiale, consumato davanti agli schermi, e connotato esteticamente da un campo di un colore indefinibile tra il marrone e il verde, e spesso ingrigito dai rigori invernali, dalla luce radente del sole, dall'impasto metallico del suono delle trombe e delle urla dei tifosi. Un'estetica non priva di fascino anche alla prova del tempo.

Se consideriamo nel loro insieme le 25 edizioni della terza fase della storia della Coppa intercontinentale (1980-2004) si rileva la progressiva affermazione delle squadre europee: se ancora negli anni 1980s le sudamericane furono capaci di vincere ben 7 edizioni contro 3 (prima europea la Juventus di Trapattoni e Platini nel 1985), nei 1990s la proporzione si rovesciò a favore delle rappresentanti del Vecchio continente (7 vs 3, ultimo il Vélez Sársfield nel 1994). Nelle cinque edizioni del 2000s solo il Boca Juniors di Carlos Bianchi e Martin Palermo è stato capace di battere Real Madrid e Milan. La linea di fondo tese, non per caso, a coincidere con il definitivo rafforzamento economico dei club europei nell'epoca delle dirette televisive a pagamento e di formati commercialmente vincenti come la Champions League e la Premier inglese. Tra il 1995 e il 2002, ben 7 intercontinentali su 8 sono finite in Europa, contribuendo a rendere la Coppa un trofeo agonisticamente sempre meno interessante e in progressivo calo di audience.

14 dicembre 2010, "Mohammed Bin Zayed" Stadium, Abu Dhabi
Un'altra giornata storica del calcio africano: il Tout Puissant Mazembe
festeggia la vittoria in semifinale contro i brasiliani dell'Internacional
Col nuovo secolo è entrata in scena la FIFA guidata da Sepp Blatter che ha rilevato il torneo cambiandone formula e dizione, nel solco della politica ecumenico-commerciale intesa a rafforzare il consenso e il blocco di potere multinazionale (gestionale, finanziario e commerciale – in una parola: affaristico) che fa capo al colonnello in pensione dell'esercito svizzero. Dopo un'edizione di prova nel 2000, dal 2005 la coppa si è trasformata nella FIFA Club World Cup, riservata ai club vincitori dei tornei continentali delle sei confederazioni calcistiche internazionali e a un club del paese che ospita la manifestazione secondo un tabellone a eliminazione diretta. La dimensione è, a questo punto, globale. Non solo per la dilatazione planetaria dei bacini televisivi ma anche per l'erosione in atto dei rapporti di forza tra le rappresentanti dei diversi continenti, che tende a un progressivo livellamento dei valori e a un potenziale, futuro, rimescolamento delle gerarchie e delle tradizioni calcistiche. 

Se si considerano con attenzione gli esiti delle nove edizioni finora disputate, dal 2005 al 2013, emergono infatti alcune linee di tendenza. In primo luogo, le sedi: per 8 volte asiatiche, nell'ultima edizione per la prima volta africana; il Giappone ne ha ospitate 6, ma sembrerebbe più per effetto inerziale della tradizione precedente. Con la prossima del 2014, che sarà nuovamente ospitata in Marocco, le ultime edizioni saranno state organizzate, infatti, 4 volte su 6 da paesi arabi e musulmani. Muta la geografia, in sostanza, che segue i flussi di ricchezza. Non è un caso che l'ultima volta che una finale intercontinentale è stata disputata in Sud America e in Europa fu nel 1979: 35 anni fa. E non sembrano esserci segnali, soprattutto economici, perché la competizione vi faccia ritorno a breve. Anche il mondiale per club conferma, cioè, quanto avevamo rilevato qualche tempo fa in relazione al mondiale per nazioni, per il quale l'Europa dovrà attendere perlomeno il 2034 per rivederne uno giocato nei vecchi paesi della tradizione calcistica [vedi].

21 dicembre 2013, Stade de Marrakech, Marrakech
Lo Zar del Calcio Globale premia il miglior giocatore della squadra
campione del mondo attorniato da re, delfini e belle hostess
I risultati sportivi sono forse ancora più interessanti: il predominio delle squadre europee ne esce confermato, con 6 vittorie su 9 edizioni. E' però il dato delle sudamericane il più significativo: 3 vittorie, ma anche solo 7 finali disputate su 9. Dal 2007 le squadre sudamericane non solo hanno vinto solamente nel 2012 con il Corinthias, ma sono arrivate alla finale soltanto 5 volte. La novità è rappresentata dai club africani: nelle ultime 4 finali, per ben due volte i vicecampioni del mondo sono stati loro: nel 2010 il Tout Puissant Mazembe, nel 2013 il Raja Casablanca. Se la prima volta si poteva pensare a un caso, venato di folclore, la seconda finale raggiunta sembra indicare una linea di tendenza. Se confermata, non solo avremo a breve un'altra finalista del continente nero, ma magari anche un club asiatico. In attesa che anche la distanza tra i "super club" europei [vedi] e quelli degli altri continenti si riduca.

Uno scenario plausibile per una finale nel secondo lustro di questo decennio è allora quello che vedrà contendersi il titolo mondiale, a Dubai, un club europeo di proprietà araba - Manchester City o Paris Saint Germain - e un club asiatico - coreano o giapponese, ma magari anche cinese. Allenatori plausibili un europeo per la squadra asiatica, e sudamericano per quella europea. Campioni decisivi i giocatori di origine africana e sudamericana. Arbitro nordamericano, quarto uomo australiano. Esclusiva per i canali internet e televisivi? beIN Sport, ovviamente ... Sarebbe il segno della discontinuità definitiva rispetto alla tradizione culturale del calcio novecentesco, di cui la Coppa Intercontinentale degli anni sessanta aveva rappresentato evidentemente il massimo sviluppo possibile. Piaccia o meno, ormai la direzione intrapresa è quella del calcio globale. 

Azor

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