Prima del calcio di rigore

È probabile che Carlos Caetano Bledorn Verri, meglio conosciuto come Dunga, e Roberto Baggio, incrociarono i loro sguardi. Dunga camminava verso il centro del campo, Baggio, in senso contrario, si avvicinava all'area di rigore.

Mancavano pochi minuti alle 15 e la canicola premeva come un pesante coperchio sul Rose Bowl di Pasadena e sui suoi quasi centomila spettatori. I novanta minuti e poi gli altri trenta dei supplementari erano trascorsi senza che nessuna delle due squadre, Italia e Brasile, riuscissero a regalare l’emozione non dico di un gol, ma neppure di una giocata degna di una finale di Coppa
del mondo.

Chi fino a quel momento era convinto che Germania e Argentina quattro anni prima prima avessero dato vita alla peggiore partita decisiva di un Campionato mondiale, ormai doveva ricredersi. Il caldo torrido dell’estate californiana, la stanchezza e le precarie condizioni atletiche di molti dei protagonisti e, infine ma non meno importante, l’esasperato tatticismo imposto alle due compagini dai rispettivi tecnici, Arrigo Sacchi e Carlos Alberto Parreira, avevano contribuito in egual misura a mettere in scena una noiosissima contesa.

Per la prima volta una Coppa del mondo sarebbe stata decisa dai calci di rigore. Ed era tutto sommato un peccato che fosse così proprio per le due nazionali che vantavano il maggior numero di titoli mondiali vinti: tre a testa, praticamente uno spareggio per la più forte di tutti i tempi.

A battere dagli undici metri per prima toccò all'Italia, e al suo capitano, Franco Baresi. Baresi aveva giocato tutti i 120 minuti dell’incontro dopo che tre settimane prima si era infortunato al menisco, nel corso della seconda partita del torneo. Operato in tutta fretta, aveva prodigiosamente recuperato giusto in tempo per giocare la finale. Ora stremato si presentava sul dischetto: prese la rincorsa e sparò il suo tiro alle stelle.


Non fece di meglio Marcio Santos, che si vide ribattere il tiro da Pagliuca. La sequenza dei rigori rimase in equilibrio fino all'errore di Massaro, che appoggiò un piatto fiacco tra le braccia di Taffarel.

Dopo quell'errore, toccò a Dunga, il capitano del Brasile. Sapeva quel che stava per succedere. Se avesse messo dentro quel tiro dal dischetto avrebbe condotto l’ultimo avversario di fronte alla dura necessità di non sbagliare. La porta spalancata come una specie di plotone di esecuzione, neanche fosse il colonnello Aureliano Buendìa all'inizio di Cent’anni di solitudine.

Dunga prese il pallone, lo posò sul dischetto senza guardare Pagliuca. Tornò sui suoi passi, si girò, corse incontro alla palla e la colpì. E segnò con freddezza il suo punto.

Il successivo giocatore azzurro era Roberto Baggio. Un’occhiata spavalda di Dunga incrociò a mezza via lo sguardo imperscrutabile di Roby. I due si conoscevano bene: per due anni, dal 1988 al 1990, erano stati compagni di squadra nella Fiorentina. Come Baresi, anche Baggio, uscito acciaccato dalla semifinale con la Bulgaria, aveva giocato la finale per forza e con una gamba sola.

Siatene certi: il pallone che Dunga aveva appena calciato alle spalle di Pagliuca e che ora il “Codino” si faceva rimbalzare nervosamente tra le mani prima di posarlo sul dischetto pesava assai di più dei regolamentari 450 grammi. Gli occhi di Baggio che guardavano ora il pallone sul dischetto, ora la sagoma di Taffarel al centro del rettangolo 7,32 per 2,44 della porta erano fessure azzurre nell'abbacinante calura di Pasadena, alle ore 15 del 17 luglio 1994.

Partì la rincorsa, colpì il pallone. «Alto» disse piano la voce del telecronista italiano. Il Brasile tetracampeão diede inizio alla samba.

Gino Cervi
Per gentile concessione dell'autore: tratto da Gino Cervi, Antonio Gurrado, Mondiali dal 1930 a oggi