Il samurai che non legge Mishima

di Giancarlo Dotto

Il 6 maggio 2001, allo Stadio delle Alpi di Torino, Juventus e Roma si contesero lo scudetto di quella stagione in una partita decisiva [vedila nella Cineteca]. Erano gli anni in cui in Serie A scendevano in campo ordinariamente grandi giocatori e campioni come Van der Sar, Ferrara, Montero, Zambrotta, Davids, Zidane, Inzaghi, Del Piero, Conte, Zebina, Samuel, Aldair, Cafu, Tommasi, Totti, Batistuta, Montella, e sedevano in panchina nientemeno che un giovane Ancelotti e un maturo Capello. Sotto di due gol alla mezz'ora della ripresa quest'ultimo sostituì un'opaco Francesco Totti con Hidetoshi Nakata, la star del calcio nipponico di quegli anni, e tuttora il migliore giocatore di sempre del Sol Levante. L'attaccante giapponese trovò subito il gol con un gran tiro da lontano e propiziò il pareggio di Vincenzo Montella nei minuti di recupero. Per la Roma, quel pareggio fu fondamentale per la vittoria del titolo. Nella città eterna, i romanisti scoprirono all'improvviso le qualità di un campione esemplare che - come rilevò Giancarlo Dotto - avevano sottovalutato oltre misura, senza comprenderne carattere e personalità.

Sono pazzi questi romanisti. Hanno un fenomeno in casa e se ne accorgono un anno e mezzo dopo, solo perché Capello sfodera uno dei suoi lampi luciferini a mezz’ora esatta dal baratro. Fuori Totti e dentro Nakata. Ci vogliono palle di toro e certa bieca fiducia nel proprio stellone per sfrattare dalla partita dello scudetto l’Intoccabile e sostituirlo con l’Indecifrabile. Mezz’ora dopo eccoli, Nakata eroe, Roma in estasi, i tifosi, già in strada, a solfeggiare sguaiati e beati tutta la notte il trisillabo giapponese fino a domenica sera ignorato. Qualche chilometro più in là, a Est, sul Pacifico, edizioni speciali sparano i primi titoli, tra melò ed enfasi. "La nostra star non è più triste ora che ha cambiato la storia".

Ragazzo veloce di pensiero e capace di grande sintesi, Hidetoshi Nakata. Gli è bastata quella mezz’ora per lasciare un segno probabilmente definitivo nel campionato della Roma. Due imprese. La seconda in società con Montella. Prima di lui il più flaccido Pupone di sempre si era trascinato per un’ora come una damigiana stressata a cui avevano spillato l’ultima goccia di vino. Il sorriso di mister Hide al momento di entrare in campo era sembrato incomprensibile. Inadeguato all’incubo del momento. Era invece la maestosa serenità di un ragazzo che si consegnava alla sfida. Che coglieva la fragola sul precipizio del racconto zen. Due colpi e due imprese. Il massimo indispensabile. Non c’era tempo per altro. Al suo confronto, l’inespressività un po’ gnocca di Totti che, all’atto di uscire, si lasciava scappare l’unico telegenico tic di ravvivarsi i capelli e sfilarsi la fascia di capitano mai così disattesa.

E ora sbracano le cronache. Infuria il colore. Hide che va in discoteca, mangia spaghetti, gli piace tirare ai piattelli, non sa nulla di politica e preferisce lo shopping ai ruderi, via Condotti ai Fori Imperiali. Paccottiglia che non dice l’essenziale. Nakata è un ragazzo moderno, laico, cibernetico, distante dalla tradizione dei suoi avi, che probabilmente non legge Mishima e le sue lezioni spirituali per giovani samurai. Ma il più occidentale degli orientali resta comunque sempre troppo a oriente per risultare comprensibile a occidente. Mister Hide va in discoteca e fa lo shopping, ma gli resta dentro come una radice millenaria la regola del samurai, il rispetto dell’impegno e della parola data. I tifosi latini vorrebbero vederlo esagitarsi e sbracciarsi dopo un gol a Torino, non capendo che la sua passione è nella disciplina. Gli è bastato un gesto per rianimare la Roma.

Fenomeno più volte sprecato e confinato nelle cronache del folclore. Tra costume e marketing. Raccontato più come un investimento che come l’acquisto di un calciatore di raro talento. Per via di tutto quanto induce dal Sol Levante. L’ex studente di economia presentato come una multinazionale viaggiante, una miniera d’oro, tra sponsorizzazione, diritti televisivi, il merchandising che va a mille per il feticismo nipponico che non sa fare a meno di una stoffa o una foto. E l’indotto turistico. Mai visti tanti giapponesi svernare tra Assisi e Perugia in attesa della domenica in tribuna e poi a Roma.

Fin troppo fuorviata la sua qualità di calciatore. Eccezionale. Di più. "Nato per giocare al calcio", mi confidava Castagner, allora tecnico del Perugia. "Ha un modo speciale, unico, di far arrivare palla al compagno sul pelo dell’erba. Un senso innato della profondità e la precognizione dei fuoriclasse. Sa già dove destinare la palla prima ancora che gli passi per i piedi". Me ne parla oggi ammirato Emerson, suo compagno alla Roma, un brasiliano di stoffa tedesca, tutto campo e calcio. "È impressionante vederlo allenarsi. Il primo a scendere in campo, l’ultimo ad andarsene, anche quando sapeva di dover finire in tribuna". "Sono pagato per questo", replica lui a chi sbalordisce con geometrica semplicità, schiudendo appena le sue fessure di serpente a sangue freddo.

Testa di prim’ordine. Cantano i fatti. In Giappone era popolare come Ronaldo. Idolatrato. Vincitore del Pallone d’oro asiatico, per capirci. Stella della Nazionale. Accetta la sfida. L’Italia. Non senza aver prima studiato da cima a fondo in videocassetta i movimenti di Baggio. Passa dalla ipertecnologica follia di Tokyo e la protezione di mamma Setzuko alle rustiche atmosfere di un paesone come Perugia, dove si presenta comunque affibbiando due pappine indovinate a chi? Alla Juve, naturalmente. Non basta. Incanta Perugia, non fa in tempo a integrarsi che si lascia deportare da Gaucci, rapido a nasare con Sensi l’affare della vita. A Roma gli capita l’esperienza fin lì inedita di essere uno dei tanti, anzi uno dei meno, l’inaudita pretesa di soffiare il posto al Pupillo di Porta Metronia.

Nel frattempo mister 50 miliardi impara alla perfezione l’italiano, che dispensa a pochi privilegiati, per la sua discrezione ormai leggendaria e garantita da un contratto che lo preserva dal rischio di dividere la camera con un compagno. Passa l’inverno tra tribuna e panchina e mai una polemica. La Corte Federale lo grazia e lui, in mancanza di piattelli, si mette a impallinare quell’anima lunga e da domenica molto infelice di Van der Sar. Da extracomunitario a extraterreno. Da qui a un mese esultare, per mister Hide, non sarà solo un dovere.

"Rigore", II, n°19, 11 maggio 2001