Il dado è tratto

di Giovanni Arpino

Così Arpino titolava, su "La Stampa" del 16 dicembre 1974, la travolgente presa del San Paolo da parte della Juve. Match attesissimo, tra prima e seconda in classifica; il Napoli di Vinicio giocava un calcio poco 'italiano' (zona e tattica del fuorigioco), ma fu raso al suolo: storico sei a due. Era una Juve in crescita, che non a caso aveva eliminato dalla Coppa Uefa, pochi giorni prima, nientemeno che l'Ajax ...


La Juve sconvolge «Marechiaro» e inizia a Napoli la prima, grande fuga da protagonista in campionato. Mette a sicuro il suo Natale di gol, attende la vigilia della Befana per misurare i ferri con i campioni della Lazio all'Olimpico. 
Ruggini di Coppa? Non più, quando la forma sorregge e si è imparato a smaltire le fatiche. Rilanciata dalla prova contro gli Aiaci di Amsterdam, la squadra subalpina porta sul campo partenopeo un José che ritrova o sole suo, Damiani, Furino, Bottega, Causio che stanno eprimendosi ai massimi livelli agonistici. Dice tristemente Vinicio: «Venivano giù da tutte le parti». Però nega, testardamente, che la sua tattica del fuorigioco sia suicida. Certo, funziona contro una squadra che non ha «punteros», ma di fronte ad un dispositivo che sa individuare i corridoi e spedire lutti i suoi uomini-gol all'attacco, è pura invenzione da lavagna, che se va bene ad intermittenza non può costituire l'unico disegno valido per novanta minuti. Sto pensando all'esperienza d'un Tarcisio Burgnich, costretto a giocare contro natura (la sua, almeno). E non dimentichiamo che il Napoli, già nella scorsa stagione, per pura sopponenza o guapperia, ne beccò quattro dai bianconeri al Comunale, avendo deciso di giocare per giocare. 
La classifica si ridisegna quindi secondo la forza della logica: i bianconeri la guidano con tre punti di vantaggio grasso, seguiti da Lazio-Toro e da muta di club che non sono certo leoni. La «decima» ha imposto ovunque le sue regole: fa segnare diciannove gol contro il primato negativo di domenica scorsa, vede l'Ascoli vincere la sua prima gara e il Napoli perdere l'imbattibilità, spedisce in un cantuccio celebri «colpevoli», cioè Rivera, Boninsegna, lo stesso Clerici, che hanno fallito i loro calci di rigore, variamente importanti. E nella graduatoria dei marcatori, guidati da un Pulici che non ritrova il senso della rete, riecco affacciarsi donJosé, e farsi sotto Damiani. 
Casca la Fiorentina di Rocco di fronte alla Roma di Liedholm, che con un Penzo umilia i più talentuosi e rinomati viola. Radice blocca Giagnoni, solo il «vecchi » Bertini consente all'Inter una striminzita vittoria, il Bologna tossicchia tra le mura casalinghe: ma tutto ciò sembra normale e quasi sbadigliante amministrazione se paragonato agli ottoni e ai tamburi di Napoli-Juventus, ove neppure l'aritmetica (nonostante quel colpo al segnalinee e conseguente partita «chiusa» in anticipo da Agnolin) può variare. 
Veniamo a Torino-Lazio, altro «match» della sfida tra nordisti e sudisti. I biancocelesti si sono certo ripresi dalle ultime gare persin troppo melense. Rinsaldati in difesa malgrado le defezioni, con un Frustalupi che i «barbareschi» non sono mai riusciti a disturbare, con un Martini che ha fatto il buono e il cattivo tempo (dal gol all'autorete al supposto fallo da penalty nel finale, reclamato dai granata), i campioni d'Italia hanno sfoderato orgoglio, organizzazione ed esperienza di fronte a un Torello troppo avventuroso da una parte, troppo anchilosato dall'altra. Sembra che il «vecchio cuore granata» sia dolente nei suoi vasi coronarici. Il «tremendismo» è annacquato, la «forbice» si ritrova solo a sprazzi, inutilmente un messaggero trotta dalla tribuna di Fabbri alla panchina di «Ciccio» Sentimenti per impartire ordini, variazioni, suggerimenti. 
Laziali e torinesi hanno sgambato con frenesia e formidabili errori per quasi tutta la partita. Rari i lumi pregevoli, rare le occasioni. Buoni i due primi gol, viziati i secondi da corpi o piedi votati all'autorete. Bisogna aggiungere che di fronte ad una Lazio fermamente intenzionata a non perdere, il Toro non ha versato gran vino, ma caos, idee abborracciate e sequenze di sbagli. La mancanza di Mascetti si fa notare nella zona nevralgica del centrocampo, ove Ferrini e Agroppi stentano non poco, ed in avanti Paolino non si libera. Graziani, dopo e prima un gol da favola, sbaglia tocchi elementari. Per contro, e malgrado le arrabbiature interne, i biancocelesti ruminano gioco, seppur non trascendentale, e spazzano via palloni in area con marpionesco senso amministrativo. Brutta partita? No, sul piano agonistico, anche se gli esteti, sempre alla ricerca del buon calcio, pretendono che tanto correre, tanto dispendio d'energie non debba svanire nel vuoto di cross, tiri, triangolazioni e assembramenti casuali. 
Sono però questa Lazio e questo Torino, in grado di migliorare fino a livelli notevolissimi, i futuri concorrenti della |uve capolista. La «decima» ha gettato i suoi dadi, tocca agli outsiders raccoglierli. L'esempio della «Vecchia Signora», da Amsterdam a Napoli, può fare scuola: è il «collettivo» che conta, un amalgama di squadra che nel momento giusto sfodera gli unghioni e mette d'accordo amici e nemici. Alle sollecitazioni del popolo tifoso e agli interrogativi della gente di football, il gioco juventino ha già dato la sua risposta. Speriamo che al tenore non manchi il coro.

"La Stampa", 16 dicembre 1974 | Servizio RAI su Napoli-Juventus