Elogio dell'odiato football

Ai primi di settembre del 1992 iniziava il campionato, dopo la non felice esperienza olimpica degli azzurri guidati da Cesarone Maldini. Così ne salutava il ritorno Gianni Brera: l'ultimo che poté, solo parzialmente, seguire e commentare.

Mi accingo a salutare il ritorno del campionato, e subito echeggiano in me i versi folli di Lautréamont dedicati all'antico Oceano. Non così arcana è l'arte di Eupalla, nostra musa. E' un estro umano a rivalutare le mani posteriori, diventate nei millenni umili piedi. L'armonia dei mondi si riassume nel prillare di palle sempre meno astruse, non più di cuoio greve, non gonfie di bitorzoli, di stringature coriacee, abradenti. La fantasia dell'uomo si scatena in gesti fra la danza, la lotta, l'acrobazia, il furto con destrezza: la sola coordinazione a esprimere fa eleganza: ed è la sezione muscolare a esprimere potenza: parti ignote del piede trovano impatto con la palla e il terreno: e dico ignote per pietà dell'uomo, che si trova talvolta a posare la parte superiore della punta, misteriosamente impiegata a reggerlo, mentre l'altro piede si lancia a intercettare interdire anticipare interrompere la trama che l'avversario intesse, obbedendo a geometrie o nuove o risapute, secondo capacità di ritmo e di inventiva. Cito un gesto impensato nel quale io stesso incappavo quando le difficoltà agonistiche m'impegnavano oltre la norma. E il bello è che forse non cadevo. Dalla parte superiore della punta ricevevo la spinta necessaria a recuperare equilibrio, coordinazione, ritmo! E poi solitamente ridevo quando ginnasiarchi d'accatto pretendevano di riassumere in esercizi cervellotici i gesti propri del calciatore, magari attribuendo indebita ipertrofia a muscoli non necessari nel pedatare. Quali muscoli impieghi, comparuzzo? L'istinto ti induce a calciare. Tendi il braccio e la gamba cercando coordinazione. Il piede si adegua all'impatto, così le articolazioni. Giusto perciò che s'incominci a pedatare giovanissimi. Le gambe sono elastiche, ricche di osseina. La sensibilità sulla palla si acquisisce. Poi si studia la tattica. S'impara la geometria, si supera il solipsismo del bullo che è in tutti noi. 
Il calcio è gioco collettivo. Niente entusiasma come il successo comune. Ho avuto come fratelli ineffabili dispari del sottobosco sociale. Giocavamo insieme a calcio. Il nostro allenatore era Luserta (Lucertola), detto Weiss. Aveva questo nome l'ungherese che allenava l'Inter e avrebbe allenato il Bologna (chiedetene a Giorgio Faccioli, centromediano di alta statura). Ben cinque di noi venimmo scelti per la rappresentativa di Milano, e tre di quei cinque giocarono gli incontri annuali con il Torino. Il napoletano Formicola, scartato a 13 anni dall'Inter, batteva i corner di collo esterno sinistro emulando il divino Orsi e il più pragmatico Kossovel del Milan. Lui ed io restammo con la voglia di crescere e i femori corti dei popoli più antichi. Crebbero Campatelli e Montipò, longilinei di squisita eleganza. Campatelli inventò la teoria del riposo, della quale si scandalizzò il giovane cronista che era (fu giovane, sì) mio fratello. 
Per il calcio si può delirare. Ho delirato, delirerò ("quante evve!", mi deplorerebbe Mario Soldati, che scrive in filigrana d'argento, come un bigatto che secerne seta). G.P.O., che è pure invecchiato, avendo incominciato giovane assai, non però pedatando, ha l'aria di snobbare dall'alto il fenomeno calcio. Sbaglia a non confinare nel loro vieto limbo i ragazzetti esaltati dal modulo maldiniano. Li fa insultare dagli schermitori (bon, quei!); giudica atletica il basket e il volley ball: il calcio, invece una gnagnera viziosa e viziata. In occasione dell'Olimpiade sbagliamo a favorire i ragazzetti già miracolati in Europa. Come fatalmente deludono, ce la prendiamo, da isterici, con loro. In realtà hanno fatto più di quanto non si dovesse attendere uno che capisse il calcio (veh quanti congiuntivi). Favoriti dallo jus loci gli spagnoli; sospettabili di vittoria i poderosi polacchi non ancora contaminati dal dio uno e quattrino. Gli italianuzzi, quelli sono i resti negletti d'un mercatone che li ha esclusi da tempo. Ripetiamo le penose manfrine del guardone medioevale, il mento sulle transenne della lizza: entro la lizza in fervida giostra, i grandi campioni stranieri. Il solo italiano di sangue blu che affronti volentieri quel rischio è un Cecco Gonzaga tutto fiorito di sifilomi. Quando gli daranno il comando dell'esercito (?) italiano, il Taro in piena gli smonterà le piazzole dei cannoni, e fesso lui che ha scelto quella precaria golena per metterli in batteria. Torniamo ai nostri scartini. Sono sempre disposti a rischio in riva ad un torrente che può dilatarsi a scomposta fiumara. Li abbiamo esaltati prima e poi, delusi, li abbiamo mortificati come si meritavano (perfino gli schermitori, buoni quelli!). Maldini ha raccolto gli stracci e rifatto le valigie. Verrà dannato per colpe tutte italiane, anzi italianiste. 
Ora la lizza è pronta a ospitare le giostre più cattivanti. Siamo tutti col mento sulle transenne. Aspettiamo gli eroi presi in affitto. Sono venuti con la comprensione dei loro connazionali, tutti capaci di valutare il costo del denaro. La lira vibra come quella - ahi, metaforica - dei poeti, ma non v'è limite alla nostra malizia di guardoni. I campioni presi in affitto sapranno risparmiarsi quando la Patria (loro) li chiamerà al cimento. Allora noi toglieremo gli scarti dalle nostre depauperate barriques e li affideremo a un dio pelato ma rigeneratore: il modernissimo Arrigo: non quello atteso da Dante, ma il Sacchi originario di Mandello. E fia il combatter corto, ché l'italo valor non è ancor morto. Non dimenticare, Giovanni, che l'attacco di questa canzone era "Italia mia, benché 'l parlar sia indarno". Anche a me si svuotano le mani, cercando di afferrare questa sabbia. Le dita si fanno labile clessidra. 
Com'è facile sparlare di te, Musa Eupalla! Eppure ti abbiamo venerato, ti veneriamo. Il fenomeno calcio ha sveltito un intero popolo. Quando era questione di plus-calore, a pedatare andavano i principi del sangue. Poi i ricchi si sono accorti che la pedata non qualificava socialmente e sono tornati ai loro ludi tradizionali. A giocare hanno preso i piccoli borghesi, quelli che avrebbero vinto la guerra, portando fuori dalla trincea gente sulla quale era puntata la vigile mitragliatrice dei carabinieri. Oh yes. I piccolo borghesi hanno costituito il nerbo della pedata nazionale. Pensate ai piemontesoni delle incrollabili difese azzurre: chi non era ragioniere era geometra. E da queste parti il piccolo borghese, aspirante, vendeva frutta e verdura a Porta Vittoria. In Emilia si era mobili, come il lecchese Schiavio Stoppani, ingegneri, laureati; così in Toscana e nel Lazio: Bernardini; il conte Bompiani, poi diventato editore, e quale! Il calcio italiano ha incominciato a consistere, ad avere coscienza di sé quando sono maturati al mestiere di tecnico i giocatori che avevano studiato negli anni trenta: i Bernardini, i Foni, i Frossi, i Rava, i Rosetta, i Rocco, i Lerici, gli Scopigno, e prima di questi il mancato ragionier Gipo Viani, che la madre trevigiana aveva aiutato a scappar di casa negli ultimi anni venti (prima all'Us Milanese e poi all'Inter, giusto con Weiss). 
Adesso siamo una potenza mondiale che ha il torto di farsi bella con penne non tutte sue. Spendiamo troppi quattrini, tanti - ahimè - che qualcuno pensa agli ultimi dannati giorni di Pompei. Molti che giudicano le nostre armate hanno dimenticato che dagli anni 50 abbiamo esportato il modulo via via adottato in tutto il mondo. E costì i nesci irridono alla sola gloria di cui ci possiamo vantare. E' l'ignoranza a causare l'equivoco. Ignosce illis, Eupalla: essi non sanno e vanno perdonati. Anzi, che si godano il campionato aspettandosi ogni volta il meglio. Fino a primavera, buona domenica a tutti.

La Repubblica, 5 settembre 1992