Cruyff, Sherlock Holmes del football olandese

Sulla terza pagina de La Stampa, il 9 novembre 1978, Giovanni Arpino pubblicava questo magistrale ritratto - un ritratto d'occasione - di Johann Cruijff. L'asso olandese, due giorni prima, aveva dato l'addio al calcio, all'Ajax e al suo vecchio pubblico, ad Amsterdam, in un match [vedi in Cineteca] contro gli antichi rivali del Bayern e della nazionale tedesca. In realtà, non impiegò troppo tempo a ripensarci, affidando se stesso a un dorato tramonto. Proprio perciò, sebbene preceda di molti anni il vero addio ai campi (ma solo come calciatore ...) del celebre numero 14, la narrazione di Arpino scolpisce definitivamente il profilo di uno dei più grandi personaggi nella storia del football. 

A volte i festini d'addio alzano calici gonfi di cicuta. E' accaduto ad Amsterdam, nella notte di martedì scorso. Un «re» olandese, Johan Cruyff, aveva scelto quell'occasione, allo stadio olimpico, per la sua abdicazione, ed in settantamila si erano raccolti i suoi sudditi tifosi per festeggiarlo. Di fronte a questo «re» e alle telecamere locali e brasiliane e messicane caracollavano per la sfida amichevole i giocatori tedeschi del Bayern. Hanno reso amarissimo l'ultimo saluto di Cruyff alla sua città, alla sua maglia biancorossa col numero 14, alla vecchia società dell'Ajax. Spietati e sempre memori di vecchie ruggini professionali, i bavaresi hanno rifilato otto reti alla squadra di Cruyff, che a cinque minuti dalla fine, furibondo, abbandona e si ritira negli spogliatoi con le nuovissime insegne di «cavaliere d'Olanda». Lì sta forse meditando un altro brindisi d'addio, più dignitoso, come sempre è accaduto a tenori e toreri. Lì l'ha raggiunto il giudizio del suo vecchio allenatore Kovacs, presente allo stadio tra centocinquanta giornalisti, e che non si è trattenuto dal dire: «Che pena. Lo sport non dovrebbe aprire queste rovinose parentesi». 
Addio, Johan Cruyff, gran cavaliere di pelota. Ecco la tua scheda, scrupolosamente sintetica. Età: trentadue anni. Professione: stratega. Stato economico, floridissimo, malgrado certe beghe per tasse non pagate a Barcellona. Aspetto: nobile e grifagno. Salute: eccezionale, visto che in tanti anni di pedate hai patito pochissimi guai ossei e solo qualche fastidio al nervo sciatico, visto ancora che le tue pulsazioni arrivavano a 180 al minuto sotto sforzo per regredire a 50 normali con una facilità di recupero straordinaria. 
Dopo Pelé, solo Cruyff. Così assicura la storia del football degli ultimi vent'anni, quando deve limitarsi ai prodigi. Ma Pelé era un individuo dalla straordinaria architettura fisica e Cruyff, in alcune mosse, appariva un ragno gigante: il tronco quasi spariva a cospetto degli arti che volavano attraverso l'erba dei campi e gli stinchi avversari. 
Come tutti gli «artisti» dotati di uno stile altamente personale, Johan Cruyff non lascia una «scuola». Le sue capacità, le sue improvvisazioni geniali, persino la sua strategia in campo non hanno creato allievi, anche se la storia di Johan è completamente inserita nel quadro del calcio olandese, tanto tipico da ridurre ad atipici tutti gli altri tocchettatori di palla. Tra i celeberrimi «arancioni» che si muovevano nel rettangolo verde come giganti scioltissimi, capitan Cruyff era diverso: riusciva a scomparire e a riapparire in zone vuote, arretrava e danzava, si catapultava in gol di pura grazia e poi rieccolo a difendere. L'uomo che in abiti civili pareva un «manager» corretto e di lingua sciolta, tanto da improvvisare battute in cinque o sei lingue davanti a selve di microfoni, nella divisa di gioco si rivelava un «re» sgobbone, ed intorno a lui i suoi colleghi, per guadagnarsi la maglia, dovevano percorrere con ordine spazi immensi, fino all'ubriacatura dell'avversario. 
Olandese purissimo, malgrado l'occhio corvino, Cruyff non ha mai esitato dì fronte al denaro. Chissà che non si comperi, prima o poi, un grande ritrattista, come facevano appunto i commercianti di Amsterdam nei loro secoli d'oro. Per pesetas e pedate lasciò la maglia biancorossa numero 14 e si trasferì in Spagna. Ma è anche uomo che ha una sola parola: quando dice no, è no. Così respinse ogni allettamento per il «mondiale» appena trascorso, così rifiutò milioni, in dollari, dagli americani. Semmai dovesse smentirsi, non sarà per quattrini, ma per quella nostalgia, per quell'amore di sudore e prepotenze calcistiche che sovente torna ad illudere chi ha calciato. 
A guardarlo bene ed anche tenendo presente il suo bagaglio di stratega, Cruyff ricorda Sherlock Holmes: non solo gli rassomiglia, per quelle fattezze d'avvoltoio, per una disinvoltura da longilineo nato elegante, ma il suo stesso «lavoro» ha qualcosa in comune con lo spirito del personaggio inventato da Sir Arthur Conan Doyle. Anche Johan, infatti, espletava le pratiche facendo tesoro della sua «facoltà di deduzione», grazie alla quale analizzava ogni momento di ogni partita signoreggiandolo per farlo poi precipitare a suo vantaggio. Questo è stato forse il maggior segreto del suo mestiere: un grande campione tende alla semplificazione, rende facili e quasi ovvi i movimenti che altri invece ingarbugliano accanendosi dentro mille lacci. 
Ha vinto molto, Johan. Ma non troppo. Gli è sfuggito per troppa ansia e troppa voglia il «mondiale '74», proprio di fronte a quei bavaresi che ieri l'altro l'hanno umiliato nell'ora dell'addio. Ha conquistato titoli e coppe, governando da par suo i compagni, a costo di far fuori allenatori o concorrenti troppo sicuri di sé e in disaccordo con il volere del capitano. I più sottili critici esitano davanti a questo doppio quesito: gli «arancioni» olandesi avrebbero vinto nel '74 senza Cruyff e avrebbero rivinto in Argentina con Cruyff nel '78? E' possibile, anche se ogni storia, quella del calcio compresa, non può cambiare grazie a questi sofismi retrospettivi. 
L'addio di Johan ci riporta ad un calcio mirabile, dispendiosissimo secondo i calcoli avari dei tecnici sportivi, ma senza confronti per chi ha attraversato questi dieci anni di pallone. Uomini nati dal freddo, dal lavoro in diga, atleti disposti ad allenamenti ferocissimi ma anche allegri, liberi cittadini in trasferta con le mogli, rocciosi fenomeni fisici come Hulshoff, Suurbier, Neeskens (cognato di Cruyff, autentico Enrico Toti della palla, per quanto sa sacrificarsi davanti ai bulloni avversari), i biancorossi dell'Ajax hanno dettato calcio spazzando la concorrenza di cento club. Devoti agli incassi, si sottoponevano a «tournée» micidiali, galoppando da Amsterdam a Brasilia al Kuwait. Cruyff concordava tutto, i compensi e i minuti della prestazione sul campo per sé e gli altri, il momento della «goleada»e la saggia amministrazione di vantaggi anche esili. Quando l'Ajax di Cruyff segnava un gol, magari nei primi minuti di gioco, la partita moriva letteralmente a furia di passaggi all'indietro, con Johan che faceva il puledro di retrovia, divertendosi. 
Ha scritto un gran capitolo nella liquida storia del pallone, il signor Cruyff. E' stato sempre corretto, cavalleresco, cinico, gentile e distaccato nei rapporti umani. Ha imposto certe regole — dalle sponsorizzazioni alla vendita della propria immagine — che ormai vengono seguite da tutti, nel gran circo pallonaro. E' apparso un autentico fenomeno perché, secondo i medici, i suoi riflessi cerebrali quasi si confondevano con le sue istantanee reazioni fisiche: di qui il decimo di secondo che gli consentiva ogni anticipo sull'avversario e il salvamento dei ginocchi nei duri contrasti, attimi in cui il gran ragno balzava via e la falce assassina del suo marcatore roteava a vuoto. 
Ha sempre fumato una sigaretta prima della partita. Quasi per irridere alle pratiche del comune mortale calciatore. Un po' come l'americano Spitz, che fece vendemmia di medaglie nel nuoto e, mentre tutti i suoi concorrenti si depilavano per penetrar meglio nell'acqua, si lasciava crescere voluminosi mustacchi. Ecco un altro tocco di grazia, che appartiene al destino e intriga i muscolari. 
Forse è giusto, tra tanti ricordi di Johan, sceglierne uno che maggiormente ci riguarda. Accadde esattamente quattro anni fa, quando gli Azzurri si ritrovarono a Rotterdam in un novembre come sempre gelido, come sempre ventoso. La squadra italiana, raffazzonata, perse per tre gol a uno, gli «arancioni» fruirono anche di qualche benevolo sguardo da parte di un arbitro russo. Cruyff, dopo un inizio giocherellone, decise di palesarsi nella ripresa, segnò due reti, e il povero ragazzo italiano che lo doveva francobollare uscì pazzo di entrate, scivolate, abbrancamenti a vuoto. Il gran ragno lo escludeva dalla propria ombra con un accenno d'anca, con un finto passo da maratoneta che, da fermo, riesce di colpo a sparare se stesso come un centometrista. Quello fu un brindisi per il pubblico olandese, e pianto per minatori e camerieri italiani. Negli spogliatoi Johan rispose alle domande con puntualità, il pomo d'Adamo che gli correva lungo la gola come un elettrodo impazzito. Rideva del lavoro ben fatto. Stranamente mi ricordò uno dei «Beatles». 
Lo stadio olimpico di Amsterdam, dove Cruyff ha invano cercato di onorare il proprio addio, si è riempito di schifati cuscini, l'altra sera. Lo stesso Johan, invelenito, ha accusato i tedeschi di non aver compreso il senso di quell'incontro amichevole, rendendosi colpevoli di «aver voluto vincere ad ogni costo». Le abdicazioni sono sempre amare, anche se premeditate con onestà. Non saranno gli affari a consolare Johan Cruyff. Pelé ha dovuto recitare decine di volte la sua ultima partita. Può darsi che al ragno tocchi uguale sorte, in cambio di montagne di dollari. Ma a noi resta l'immagine dei giorni andati, di quel prodigioso compasso che scolpiva l'aria, che rendeva facile l'impossibile e voltava lo sforzo in armonia atletica. Addio Johan. Speriamo che tu sappia sparire come Greta Garbo.

Giovanni Arpino