Addio alla Juve

La mattina del 14 luglio 1965 gli sportivi italiani appresero quanto era già nell'aria da un po'. Per 100 milioni di lire, Omar Sivori lasciava la Juve e si accasava a Napoli. Il Cabezon non ne poteva più dei metodi di Heriberto Herrera; salutando i suoi vecchi tifosi, scrisse per "La Stampa" un pezzo denso e polemico.

L'altra sera, mentre aspettavo la mezzanotte per sapere quale fosse la mia nuova destinazione di calciatore, mi domandavo quale sede avrei preferito: Napoli o Torino? La città dai facili entusiasmi o quella dal pubblico freddo, ma anche capace di sincere amicizie? Una vita sportiva che spero possa portarmi a tanti goals accanto all'amico Altafini o una più amara che mi permetterebbe la rivincita su Heriberto Herrera e su certi critici che mi vogliono finito anzitempo?
La sorte ha detto Napoli. Ora non vi sono più dubbi. Anche nello stadio San Paolo potrò dimostrare che un giocatore non chiude la sua carriera a trent'anni non ancora compiuti; so che i tifosi partenopei mi trascineranno con il loro entusiasmo, così caldo, spontaneo e pittoresco. 
Ringrazio dunque il dottor Fiore, presidente della mia nuova società, gli altri dirigenti azzurri e l'allenatore Pesaola per la fiducia che mi hanno accordato ed assicuro che farò di tutto per meritarmela. 
Stamane, però, mentre mi hanno informato che la maglia bianconera non è più la mia, ho guardato a lungo, commosso, la grande fotografia appesa nello studio di assicuratore dove lavoro e mi sono sentito di colpo svuotato, come dopo un «derby». Otto anni di attività juventina ... Li ho rivisti tutti in un susseguirsi confuso di episodi belli e brutti, esaltanti o malinconici: sono stati davvero per me un lungo, meraviglioso «derby» in cui ho vinto, ho perso, ho segnato goals ed ho incassato botte, ma mi sono sempre sentito orgoglioso di far parte di un club che era allora ineguagliabile nello stile. 
Sarebbe facile, al momento del saluto finale, affermare diplomaticamente che tutto è passato, che non serbo rancori ma soltanto ricordi belli. Chi mi conosce bene sa che sarebbe una grossa bugia. Il motivo dell'anticipato divorzio tra me e la Juventus, a parer mio, sta nel giudizio tecnico e nel comportamento del «trainer», Heriberto Herrera. 
Sul primo non posso esprimere opinioni. Ognuno la pensa come vuole; aggiungo semplicemente che farò il possibile per dimostrare ad Heriberto Herrera che si è sbagliato sul mio valore di giocatore. In quanto ai rapporti psicologici non credo che il «trainer» abbia servito la miglior causa nei confronti miei e della società. 
In otto anni di carriera juventina, il destino ha voluto che mi trovassi quasi sempre al centro delle polemiche. Anche ora che è giunto il momento di partire non posso sottrarmi a questa regola. A Napoli giocherò nel 'mio' ruolo, con i compiti che mi sono sempre stati affidati prima che sulla mia strada si presentasse Herrera, compiti cioè di mezz'ala sinistra con la funzione di dirigere il gioco per una squadra offensiva e di inserirmi in questo modulo. Herrera, invece, non ha mai creduto che io potessi fare un simile gioco. 
Malgrado le mie continue insistenze di darmi la possibilità di fare una prova, una sola, magari in una gara amichevole, il «trainer» mi ha impiegato tutto l'anno quasi come centravanti, preferendo a me Da Costa o Mazzia per gli altri compiti. Mi disse addirittura che nella «sua» Juventus io non avrei mai giocato mezz'ala effettiva. Ognuno ha le proprie idee, ripeto, ma il signor Heriberto non si è dimostrato certo un buon psicologo. 
Non dico questo per cattiveria. Voglio bene alla Juventus e vorrei sinceramente vederla nuovamente trionfare come cinque anni fa, ma credo sarà difficile. Come ho sostenuto l'estate scorsa, ripeto anche ora che in fatto di acquisti e cessioni si sta ricadendo negli stessi errori. 
Il capitolo comunque sta alle mie spalle. E' un capitolo ohe non mi riguarda più. Giocherò nel Napoli ed è come se iniziasse una nuova carriera. Nella città del Vesuvio avrò a fianco José Altafini con il quale ho giocato cinque partite in Nazionale: due volte contro Israele, poi contro il Belgio, la Francia e infine contro la Germania ai mondiali, in Cile. E' un bravo ragazzo, un fortissimo centroavanti. Con lui mi sembrerà di tornare insieme a John Charles, il cannoniere della Juventus dei miei sogni. 
Ricordo che avevo 21 anni quando giunsi in Italia. Era il 12 giugno 1957. Atterrai alla Malpensa insieme al dirigente juventino residente a Buenos Aires, Carletto Levi, che purtroppo è recentemente scomparso. Egli aveva trattato il mio trasferimento per conto della Juventus. Ad attendermi c'era il comm. Cerruti che mi condusse a Novara, dove mi incontrai, per la prima volta, con il dottor Umberto Agnelli, allora presidente del club bianconero. Insieme raggiungemmo Torino. Il dottor Umberto dimostrò subito una simpatia di cui gli sono profondamente grato. Mi disse: «Sono due anni che ti aspettiamo». Levi tradusse, poiché non capivo l'italiano. Risposi in spagnolo che erano cinque anni che volevo venire alla Juventus. Ridemmo. Ero davvero felice. 
Non faticai molto ad imparare la lingua dei miei vecchi. Mi furono sufficienti quìndici giorni per arrivare a leggere e capire i giornali e due mesi per poter esprimermi correntemente in italiano. 
Incominciò l'attività sportiva e con essa i primi successi: la tournée trionfale in Svezia, il campionato. Iniziammo discretamente. Io giocai benino quelle partite d'inizio, ma mi mancava la tranquillità spirituale. Avevo lasciato a Buenos Aires Maria Elena, una ragazza di 18 anni alla quale volevo bene. A dicembre, grazie alla comprensione dei dirigenti, ottenni di partire per l'Argentina per sposarmi. Allora non avevo ancora paura di volare in aereo ed in pochi giorni ero di nuovo a Torino. La paura del volo mi venne in seguito. Finalmente ero tranquillo e, insieme a Charles, Boniperti e tutti gli altri bianconeri, incominciai a 'girare'. Vincemmo il campionato. Charles fu capocannoniere con 28 reti. Io ne realizzai 23. 
Charles è stato grandissimo, come giocatore e come spirito sportivo. Un compagno simile, sia per quanto riguarda il lato tecnico (era una spalla ideale) sia affettivo (era ed è un grande amico), non l'ho più ritrovato. 
Il resto è forse ancora presente nella memoria degli sportivi torinesi. I miei ricordi juventini più belli sono rappresentati dai tre scudetti, dalle due Coppe Italia, dal primato nella classifica dei marcatori, dal riconoscimento quale miglior calciatore europeo attribuitomi nel '61-'62 dal referendum della rivista Foot Ball France ed infine dalla maglia azzurra della Nazionale italiana. I ricordi brutti è meglio lasciarli portar via dal tempo. A che servirebbe rievocarli! 
Alla fine ciò che più mi amareggia è il dover lasciare i tifosi juventini che mi hanno voluto bene ed ai quali sono affezionato. Ora che militerò in un'altra squadra, spero che essi non mi serbino rancore ma continuino ad avere per me quell'affetto che reciprocamente ci siamo dimostrati in questi lunghi otto anni.