Sacchi e i fantasmi della panchina

di Gianni Mura


Alla vigilia del Mondiale americano del 1994, Gianni Mura inquadra non senza scetticismo l'imminente esperienza del nuovo CT, Arrigo Sacchi, innovatore santone del calcio italiano, comparandola con quella dei suoi immediati predecessori, Enzo Bearzot e Azelio Vicini, fedeli e federali fautori della scuola italianista

Rombo di Tuono, il Vécio e Azeglio
Enzo, Azeglio, Arrigo: tre nomi da romanzo dell’Ottocento, da calcio di fine Novecento. Tre facce diverse: lunga e ossuta il primo, e raramente aperta nel sorriso; paciosa e rassicurante il secondo, sotto i capelli grigio-rossicci; da manager il terzo, mai senza occhiali (anche da sole, anche di notte), gli occhi vivacissimi che in panchina tendono ad assumere un’espressione fissa, quasi da trance agonistica. Enzo, Azeglio, Arrigo, direttori dei piedi della patria. Non si sentono perennemente in trincea come il loro predecessore Vittorio Pozzo, che trattava i calciatori da soldati. Altri tempi, al Piave si è sostituito il test di Cooper, alla totale ignoranza degli schemi avversari una maniacale collezione di videocassette. I tre sono molto diversi tra di loro. Le prime differenze nel modo di approdare alla panchina della nazionale. Bearzot e Vicini, dopo una lunga e dignitosa carriera da calciatori, per promozioni interne, da dipendenti della Federcalcio. Sacchi, un brocco come calciatore, ci è arrivato sulla spinta di risultati (col Milan di Berlusconi) ai quattro angoli del mondo. Anche per questo il suo stipendio è almeno tre volte superiore a quello degli altri due.

Situazione di partenza. Bearzot predica una squadra eclettica, restando fedele all’italianismo. Marcature strettissime in difesa e, se occorre, in mezzo al campo, dove però apre cautamente alla zona mista. Può disporre di due blocchi forti, quello della Juve e quello del Toro, la squadra del cuore. Molte polemiche coi giornalisti, in Argentina e più ancora in Spagna. Prima gli rimproverano di non aver convocato Carrera, Novellino, Pasinato, poi di aver lasciato a casa Beccalossi e Turone. Arriva quarto giocando molto bene, vince i mondiali giocando un po' meno bene (all’inizio specialmente). Nell’82 è frattura netta fra il blocco-squadra e la stampa italiana. Jolly del mondiale vinto: Cabrini e Paolo Rossi, i ragazzi dell’ultima ora. Padre nobile: Bruno Conti (non so se con Sacchi sarebbe tra i convocati). Vicini deve ripartire quasi da zero, dopo la scialba esibizione a Mexico ‘86, dove Bearzot si era ritrovato con gli anziani troppo anziani e i giovani troppo giovani.

Vicini si affida alla sua Under, dal gioco estroso e la trasporta in nazionale facendo convivere talenti individuali e caratterini non da ridere: Zenga, Vialli, Mancini, Carnevale, Giannini, Matteoli. E' per la scuola italianista, con zona mista a centrocampo, mentre crescono le quotazioni della zona integrale di Sacchi. Al mondiale italiano al posto dell’atteso Vialli sboccia Totò Schillaci, assistito dal genio di Roberto Baggio. Le notti magiche diventano buie a Napoli, Maradona mal marcato, colpo di testa di Caniggia, vince l’Argentina ai rigori e l’Italia finirà terza. Solo terza, per i molti che la vedevano prima. E Vicini, più paternalista di Bearzot, più morbido di Sacchi nell’impatto coi media, pagherà questo terzo posto.

Matarrese apre a Sacchi, il nuovo che avanza. Violini e passatoia rossa. Sacchi al Milan, tra sorrisi e smentite, ha fatto il suo tempo. O io o Van Basten, è una frase che non piace a Berlusconi, che già aveva dovuto ingoiare la pillola-Rijkaard quando s’era innamorato di Borghi, giocoliere argentino di cui si son perse le tracce. Da signor Nessuno a nuovo profeta del calcio, questo era Sacchi. Ovviamente, la zona non l’aveva inventata lui, ma i suoi concetti di base (la famosa intensità, l’umiltà, il valore del lavoro, l’aggressività sul campo) avevano fatto del primo Milan un modello da seguire e da imitare. Romagnolo come Vicini, ma in alcuni spigoli del carattere più vicino al friulano Bearzot, autodefinitosi "uomo di frontiera e per necessità diffidente" anche Sacchi ha ricevuto le sue brave critiche. Certo, ha vinto tanto, ma con quei giocatori chi non avrebbe vinto tanto? Ha vinto tanto, sicuro, ma il vero vincente è Berlusconi, visto cosa è successo con Capello? Invertendo i fattori, cioè i tecnici, il prodotto non cambia. Meno spettacolo, forse meno intensità, ma più vittorie.

E' l’uomo giusto al posto sbagliato, disse Omar Sivori quando Sacchi passò alla Nazionale. Lo pensavano anche altri: Sacchi ha bisogno del martellamento quotidiano per portare in alto la truppa e insegnare l’esperanto della zona. La caratteristica del suo Milan e, prima ancora, del suo Parma, era la sicurezza, quasi la spavalderia del gioco, mentre la sua Italia lascia perplessi per come appare incerta, frenata, assurdamente tesa. E, paradosso massimo, più efficace nel contropiede (antico retaggio italianista) che nella manovra aggirante e schiacciante, a ritmi elevati. Accetto il risultato solo attraverso il bel gioco, dice spesso Sacchi. Fin qui, il bel gioco si è visto poco, anche col vantaggio di poter sfruttare l’affiatamento del blocco Milan rinforzato dal più puntuale dei goleador (Signori), dal più geniale dei fantasisti (Baggio) e da un ottimo portiere (Pagliuca). E solo questo si può aggiungere: che nei campionati italiani Bearzot e Vicini erano passati senza quasi lasciare traccia, ma in azzurro qualcosa o molto, moltissimo hanno dimostrato. Per Sacchi è l’esatto contrario, e sabato comincia la scommessa più difficile. Lo sapeva quando ha firmato il contratto, ma che fosse così difficile forse non lo immaginava nemmeno lui.

"La Repubblica", 16 giugno 1994