Il Dottor Pedata (Fulvio Bernardini), incaricato di ricostruire una nazionale competitiva dopo il fiasco di Stoccarda, mette per la terza volta in campo i suoi in un'amichevole di fine anno, a Genova, ospite la Bulgaria. Gli esordienti, stavolta, sono Luigi Martini (terzino di spinta) e (nel secondo tempo) lo sfortunato Vincenzo Guerini, centrocampista. In porta c'è Zoff, al centro dell'attacco Bonimba (sarà il suo ultimo gettone azzurro). Rocca simmetrico a Martini, difensori centrali Zecchini e Santarini. Damiani e Chiarugi le ali; Causio e Antognoni gli interni, protetti da Beppe Furino. Risultato: zero a zero. Fischi e critiche feroci. Giovanni Arpino (che pure era stato testimone privilegiato e acuto della disfatta in terra tedesca) invita Fuffo ad abbandonare rapidamente la scena.
Genova, 29 dicembre [1974].
A dieci minuti dalla fine comincia la grandine: cuscini di carta, ma anche berretti, un cappello, una sciarpa. I genovesi si sono stufati, e rinunziando alla proverbiale parsimonia, scaraventano in campo la zavorra superflua. Col poco fiato rimastogli in corpo dopo tanti incitamenti agli azzurri, ora riescono solo ad esprimere un coro di «bidoni-bidoni». Ma tra quei cuscini che vengono a cadere intorno al prato, manca qualcosa: cioè il cestino da viaggio che il Doktor Bernardini dovrebbe afferrare prima di far le valigie e dire addio al Club Italia. L'apprendista stregone per la terza o quarta o quinta volta ha sbagliato tutto.
Lui dice che è ora di tirare le somme. Ma no, si limiti a una bella sottrazione. La Nazionale non fa per lui, ormai è evidente. Insistere su questa bell'anima, che non ha neppure la famosa fortuna di Zio Ferruccio, sarebbe pazzesco. Tutto il mondo pedatorio ci ha accusati per anni di «non gioco». Ora, al «non gioco» classico e contropiedistico nostrano, si aggiungono le varianti, il varietà, le bizzarrie tattiche dell'apprendista stregone Fuffo, che neppure su un campo casalingo riesce ad arraffare il gol dell'alibi vincente. Un gol che però avrebbe premiato gli azzurri (suoi, non nostri) al di là dei meriti, così scarsi da diventare invisibili.
Provo quasi vergogna a dover commentare un tale obbrobrio di partita. Non è esistita la squadra, non si è visto un solo quarto d'ora filato di gioco decente, e di fronte vi erano i ragazzini di una Bulgaria-baby, che si disimpegnavano, smistavano palla, facevano argine elegante con tranquillità e persino eccessi di disinvoltura. Al più colossale «non gioco» della nostra storia calcistica, si è aggiunta la protervia fisica di gente che andrebbe spedita via dal terreno. Il signor Boninsegna, per esempio. Non avendolo cacciato l'arbitro Gonella nel primo tempo, quando cercò di mettere k. o. un paio di avversari a gioco fermo, doveva lasciarlo negli spogliatoi lo stesso Doktor, durante l'intervallo. Suvvia, un po' di eleganza, di fair-play; almeno nelle partite cosiddette amichevoli. Altro che risultalo, altro che ricerca del gioco: qui si tratta di essere uomini, di avere carattere e dimostrarlo. Tollerare i calcioni, le ditate negli occhi, colpi di gomito e arie da bulli inferociti non è proprio ammissibile.
Che mai raccontare di questi novanta minuti, se non il tempo primaverile, la generosità e persino l'ingenuità degli spettatori, speranzosi di godersi uno spettacolo dignitoso? Siamo al «grado zero» per il football azzurro, abbiamo perso sei mesi di lavoro con la conduzione bernardiniana, e tuttavia sappiamo che la pedata italica non è a livelli così scarsi: dalla Juve alla Lazio, dal Milan alla Fiorentina al Torino, tutti giocano meglio. Sarà la superspecializzazione dei nostri furenti giovanotti, sarà la scarsità dei loro «fondamentali», sarà quel che volete, ma ogni squadra di club ha un cervello (magari impanato e fritto) e non oserebbe neppure presentarsi in campo raccattando uomini purchessia, scaraventandoli su binari di pura rabbia e senza un'idea nella zucca.
La verità vera è che il buon vecchio Fuffo ha seguito per anni un calcio televisivo, e ora deve sperimentare e aggiornare se stesso affrontando la realtà: si chiami La Palma o Guerini o Cruyff. Oggi ha schiaffato in Nazionale proprio Guerini, che per carica e foga ha sbagliato quasi tutto, rischiando figure spaventose così com'era accaduto nel primo tempo al povero Furino.
Bernardini si diverte? Forse. Noi certamente no. Avevamo scritto venerdì scorso: vedremo un centrocampo fatto di gente che si azzanna a tutta forza. Ipotesi verificatasi in pieno, purtroppo. Non è lecito, non bisogna, sarebbe addirittura masochistico incolpare i giocatori (a parte certe furie bestiali nei duelli). Il difetto sta nel manico. Perché un uomo come Capello, che tra l'altro è anche il centromediano metodista sognato dal Doktor al suo esordio come «capataz» azzurro, servirebbe in Nazionale solo parlando, neppur giocando. E così dicasi di Giacinto Magno, o di un Graziani che si scalda in panchina per consentire al feroce Saladino di fare a botte, benché abbia già trentun anni e nessuna speranza di rimanere titolare nei prossimi mondiali. E quel già citato Capello coordinerebbe gli estri di Causio e le corse di Furino come fa nella Juventus, mentre questi due ragazzi, privi di collegamenti, si stordiscono da soli sino alla nevrastenia.
Dovrei parlare solo dei bulgari, che sanno di pallone, che ridono ampiamente, anche se barellati in una «amichevole» così cruenta. Ci hanno beffato con uno 0-0 che ripete quello del '69 a Torino e ribadisce 1'1-1 del '72 a Sofia. Loro sì che sono un «collettivo». Noi siamo una masnada di corsari in mutande, con un direttore unico (ma unico al mondo davvero) che «fa li giochi» e non ne imbrocca mezza. Discutere adesso di tre palloni-gol falliti dai nostri e di uno buttato via dai biancorossoverdi è chiacchiera da caffè. Con questa Nazionale è già molto pareggiare davanti alla Reggiana (e lo si è visto mesi fa). Adios Bernardini. L'altra sera a Bogliasco gli hanno regalato una medaglia d'oro. Ma nel sacco della Befana troverà solo carbone.
Genova ricorda Monaco e Stoccarda, godono nascostamente persino Mazzola e Rivera. Torna a casa, Lassie: pardon, volevo dire Fuffo. Possiamo capirti, ma non perdonarti.
Giovanni Arpino
La Stampa, 29 dicembre 1974, p. 9
La partita in Cineteca