Gianni Brera, vate di Eupalla

Pubblichiamo l'intervento di Maurizio Harari, letto nell'ambito di "Brera: pensieri liberi sul più seducente giornalista sportivo del Novecento", incontro svoltosi a Pavia il 27 settembre 2019, in occasione del centenario della nascita di Gianni Brera.


All’uditorio dei Senzabrera parlerò da outsider e voyeur eminentemente palabratico di calcio, lettore affezionatissimo del Vate per circa trent’anni e specialmente appassionato del suo “Guerin sportivo” e dell’inimitabile rubrica dell’Arcimatto. E parlerò anche come studioso e docente di mitologia, perché di narrazione mitologica qui si tratta: e adotterò un approccio scientifico, squisitamente accademico, analizzando le fonti (cioè la fonte: il Brera medesimo) e ricostruendo immagine e funzioni della Dea.

Eupalla chi è? La sua presenza e attualità nel web è impressionante. La definizione è comunque breriana, con tanto di etimologia: la “benevola che assiste pazientemente alle goffe scarponerie dei bipedi” e “presiede alle vicende del calcio ma soprattutto del bel gioco (dal greco eu, ‘bene’)”. Attenzione, però, ché ‘benevole’ sono in Grecia le Eumenidi ossia le Erinni, le Furie tormentatrici di Oreste... Il teonimo è dunque composto dall’avverbio gr. eu e dall’it. palla: la Ben-palla, cioè Colei che (se ne ha voglia) fa giocare bene a palla – come Eu-terpe era, per es., la Ben-piacente. 

Non sembra necessario cercarvi l’epiteto Pallas, Pallade (di Atena), quantunque Brera accosti Atena ad Eupalla in una similitudine che traiamo dalla sua cronaca dell’Italia-Germania 1970: “Albertosi voleva strozzare Rivera, che se ne andò mestamente avanti mentre Bonimba spendeva le ultime energie in un’eroica sgroppata […] Pensai, riflettendoci, al duello fra Achille e Ettore sotto le porte Scee. Achille scagliò la lancia: Ettore la schivò: Pallade Atena la raccolse per ridarla al Pelide: allora il prode figlio di Priamo si accorse che la sua sorte era segnata. Una Pallade Atena che poteva benissimo chiamarsi Eupalla evitò a Rivera lo strangolamento da parte di Albertosi e gli offrì benigna la palla di Bonimba che significò il suo trionfo”. Ma corretta esegesi di quel passo mostra che Eupalla rimane Eupalla, fra Albertosi e Rivera, così come Atena fra Ettore e Achille – e il Bonimba, come si è visto, fa la parte della lancia (con confronto quasi ironico e sconveniente a una struttura fisica che evocava il nano circense Bagonghi). La similitudine è letteralmente omerica, in una scrittura esplicitamente epica e perciò formulare e infarcita di neologismi e nomignoli fortemente espressivi. 
Com’è fatta Eupalla? Non mi pare che Brera l’abbia mai precisamente descritta. Si sa che è femmina, inequivocabilmente tale, e dunque s’apparenta alla passività “volubile” delle squadre italiane – e dell’Inter in particolare, che è “passionale […] agli antipodi del pragmatismo che caratterizza la Juventus” –; a dispetto del nome è “una dea, non una sfera” e “secondo com’è vista può sembrare”. Quasi una statua di Lisippo, che faceva la figura umana non com’è – dice Plinio – , ma come la si vede o la si vuol vedere. 
L’immaginiamo, in ogni caso, opulenta come un’ostessa, col panneggio abbondante di Musa e la palla (invece che il rotolo o il compasso o il flauto) nella mano. Mirko Volpi l’ha vista, in un paradiso che, anche a prescindere dall’autorità dantesca, non poteva non essere sferico, “assisa in regal trono” avendo ai lati Iohannes Brera, appunto, e Pelè, “il re dei bipedi giuocator”.

Quali sono le funzioni della dea Eupalla? Essenzialmente due. La prima attiene al suo statuto onomastico e iconografico: è la Musa che ispira la scrittura di sport e soprattutto la scrittura di calcio. L’incipit di una Tottiade di recente pubblicazione (Costantini 2013) suona infatti brerianamente così: “O Musa pedatoria, / o Sfera dei Capricci, / raccontaci una storia, / del grande calcio dicci / Eupalla diva” ecc. ecc. 
La seconda funzione investe direttamente il “giuoco” – da pronunciare alla maniera del Cavaliere –, in quanto la dea agisce da Tyche, indirizzando gli esiti capricciosi, indecifrabili e ingovernabili di un confronto in cui non sempre vince chi è meglio organizzato.
In proposito, Stefano Benni ha evocato un’altra dea apparentemente speculare e antitetica, Dispalla, che “con sghemba e beffarda mano fa impazzire le traiettorie e sbilenca le parabole”; ma non s’è accorto che la sua Dispalla altri non è se non il volto oscuro della Medesima, in una dialettica pilotata da eventi accidentali, che scoraggia le teorizzazioni degli ideologi del calcio totale e pretende la semplicità euclidea e l’astuzia ulisside del contropiede all’italiana. 

Questa doppia qualità della Dea si manifesta nell’espressionismo lessicale di una scrittura che trascende l’ ”argomentare di pedate” – “inutile come cercar di governare l’Italia secondo Benitone da Predappio” – e costruisce, non so quanto volontariamente, una specie di memoria culturale. Rivera come Achille, Riva come Brenno, Maradona un Cerbero, l’arbitro “un po’ magistrato e un po’ sacerdote” (e il boxeur Alì il protetto degli “dei della foresta e della savana”). 

Qui s’intersecano letteratura antica e antropologia culturale – il “razzismo” di Brera proviamo a considerarlo da questo punto di vista – nell’edificazione di cronaca in cronaca di un intero “Ramo d’oro” dello sport, intessuto da un indimenticabile sir James Frazer “di riva e di golena, di boschi e di sabbioni”. 

Maurizio Harari (Direttore del Dipartimento di Studi umanistici dell'Università di Pavia)

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