Irlanda del Nord-Italia (15 gennaio 1958)

Le cronache di Monsù
15 gennaio 1958

Sono trascorsi quasi dieci anni dall'ultima volta che Monsù si è seduto sulla panchina azzurra. Dieci anni di delusioni, coronate dall'unica mancata qualificazione alla fase finale dei mondiali della nostra storia. E storica fu, evidentemente, la sconfitta di Belfast. Guidata per la penultima volta da Alfredo Foni, la nazionale - innervata in attacco da oriundi di fama assoluta benché ormai agli spiccioli di una gloriosa carriera, come Schiaffino e Ghiggia - mostra una totale inconsistenza tecnica e agonistica. Pozzo intristisce, il declino calcistico italiano è una ferita per chi lo emancipò e ora fatica a individuare un discorso utile a spiegare la disfatta.

Belfast, giovedì sera [15 gennaio].

Parlando con Poter Doharty, il responsabile della squadra irlandese, a sera, dopo l'incontro, è saltata fuori una constatazione interessante. L'unità che l'Irlanda del Nord ha schierato ieri contro di noi, era composta da undici giuocatori che appartengono e militano in undici società differenti, e cioè: Portsmouth, Leicester City, Newcastle United, Tottenham Hotspur, Manchester United, Glasgow Celtic, Sunderland, Leeds United, Glasgow Rangers, Burnley ed Aston Villa. Ve n'erano originariamente due fra i giuocatori prescelti ohe avevano la stessa appartenenza se non proprio la stessa origine, e cioè il portiere e il centro mediano: e nossignori, il primo è andato a perdersi nella nebbia e ha dovuto, per assistere all'incontro, sedersi davanti all'apparecchio della televisione. Cosi, undici provenienze differenti. Con tanti saluti alla teoria dei blocchi! Il miglior blocco, il vero blocco è quello che sorge e si forma dal valore e con la classe dei giuocatori, quando undici giuocatori diventano un tutto unico.
Questa di cui stiamo parlando e che ci ha impartito ieri una lezione da ricordare, noi l'abbiamo vista all'opera quattro volte nel volgere di pochi mesi: a Roma, a Wembley, a Belfast, e ancora a Belfast, una volta contro l'Inghilterra, e contro di noi. Ha giuocato in ogni occasione meglio che nella precedente e non ha ancora finito di salire: può migliorare e migliorerà ancora.
Questa volta il risultato che il suo lavoro ha realizzato è stato senz'altro onesto e gentile nel nostri riguardi. L'esito dell'incontro poteva assumere proporzioni dure, avrebbe anche potuto avvilirci. Se non lo fece, fu principalmente per il concorso dal caso. Altrimenti ci sarebbe stato da piangere ancora una volta perché quello che maggiormente dà a pensare è il fatto che qualunque compagine noi avessimo nell'occasione allineato, essa avrebbe ugualmente perduto, contro un simile avversario. 
La formazione che l'Italia ha ieri fatto scendere in campo soffriva per gli incidenti occorsi ad alcuni fra i suoi migliori elementi, Se tali incidenti non fossero avvenuti, se noi fossimo ricorsi a soluzioni diverse invece di quelle adottate nella giornata, l'aspetto delle cose non avrebbe subito modificazioni perchè certe cose che ha fatto vedere la squadra irlandese — certi suoi atteggiamenti volanti, certo suo stile, certi suoi movimenti d'intesa — appartengono al genere di cose che noi non sappiamo più fare. Le sapevamo fare una volta: ora non più. E' come se un gran velo si fosse steso sulla mente dei giuocatori e delle squadre: le quali il passato non lo ricordano più, talmente l'ambiente nostro si è smaccato, si è allontanato dalle origini e dalla natura vera del giuoco. 
Vi erano italiani in parecchie decine, sugli spalti del campo. Abitavano qui, erano venuti a Belfast in comitiva direttamente dall'Italia, od erano convenuti da parti diverse dell'Inghilterra ove risiedono, per ragioni di lavoro. A sera, dopo la partita, erano tutti di un'idea sola: quella a cui abbiamo accennato. Diciamo la verità: noi stessi sparavamo non in una vittoria, ma nel salvataggio della squadra italiana, che pur sapevamo composta in modo irrazionale. Non credevamo che sul campo si sarebbero risolti i grandi problemi del calcio nostro, ma ritenevamo che, con un po' di buona volontà e di fortuna, a quel pareggio che nell'occasione ci sarebbe stato necessario e sufficiente, si sarebbe giunti.
Ci sarebbe poi stato tempo, in seguito, per migliorare tecnicamente e materialmente la situazione. Occorreva prima vivere, per poter filosofare poi. Invece, nulla. Assieme e contemporaneamente all'aggravamento di tutti i vecchi e conosciuti problemi, c'è stato il crollo della situazione contingente. Nel novero delle unità che hanno il diritto di partecipare, questa estate, alla contesa vera e propria per il titolo di campione del mondo, il nostro nome non figura più.
Siccome è la prima volta, da quando gli azzurri si erano affacciati alla ribalta, che la cosa avviene, si è autorizzati a dire che, malgrado i numerosi e clamorosi capitomboli compiuti in questi ultimi tempi, così in basso noi non eravamo caduti mai. Nel numero delle squadre aventi veste per parlare del Titolo o per discutere di primato, noi eravamo rimasti sempre. Per meriti speciali, per censo, si può dire. Ora saremo ridotti a guardare cosa fanno gli altri: da lontano e come spettatori. Crediamo ogni volta di aver toccato fondo, e continuiamo invece ogni volta a decadere.
Il triste della situazione sta poi nel fatto che non possiamo dire che quanto è avvenuto questa volta, sia attribuibile direttamente o indirettamente a circostanze straordinarie, a forza maggiore, a violenze dell'ambiente o a scorrettezze dell'avversario. La partita, in sé, è stata quanto di più corretto e regolare si possa immaginare. Il gioco è stato normale e il contegno dei giocatori leale. Il fallo stesso che è costato l'espulsione dal campo a Ghiggia, non è stato cosa di grande gravità: a detta dell'avversario stesso. Evidentemente l'arbitro si era proposto, scendendo in campo, di colpire con severità il primo caso del genere che gli si fosse parato davanti, e volle essere fedele ai suoi proponimenti dando una lezione. 
Era presente, in veste di osservatore ufficiale, il segretario della Federazione Internazionale, lo svizzero Gosemann. Con noi egli definì, a sera, l'incontro come normale, regolare, corretto, piacevole. Piacevole per tutti — fummo costretti a rispondergli— meno che per noi.