Italia - Cecoslovacchia (10 giugno 1934)


Le cronache di Monsù
10 giugno 1934

"Il dovere compiuto". Così fu titolato il resoconto che Monsù dettò al suo giornale per la mattina di lunedì 11 giugno 1934. L'Italia aveva conquistato il titolo mondiale, sconfiggendo ai supplementari la coriacea Cecoslovacchia, nostra tradizionale avversaria di quegli anni. La commozione e l'orgoglio per il lavoro svolto, l'affezione per i propri giocatori, il rispetto per gli avversari. Nel trionfo del regime, la voce di un vero uomo di sport non è di qualità letteraria, ma - appunto - suona priva di toni grevi.


Roma, 11 mattino
L'Italia ha vinto il Campionato del mondo. Lo ha vinto passando per una strada in tutto conforme a quella dovuta forzatamente seguire nei quarti di finale e nelle semifinali: quella dell'incontro tipo combattimento. Tanto ardente, tanto accanito questo combattimento da sfiancare e da stroncare metà degli uomini in campo e da rendere necessari i tempi supplementari per determinare un risultato.

Doppia fatica

Di gare facili non ve ne fu nessuna per nessuno in questa edizione del Campionato del mondo; ma l'Italia fu, senza alcun dubbio, la nazione che trovò sulla sua strada le maggiori e le più ardue difficoltà. Spagna, Austria e Cecoslovacchia furono tre autentici macigni da rimuovere, tre ostacoli che diedero luogo alle tre partite più dure, più angolose, più difficili e più appassionanti di tutto il torneo. L'Italia non trovò certo la via cosparsa di rose. Né la sorte né il tipo di attività svolto dagli avversari la favorirono in nulla. Il tempo normale di gioco preventivato per una squadra che dovesse giungere alla finale era di 360 minuti e la Cecoslovacchia ne avrebbe effettivamente giocati 360 senza i prolungamenti dell'incontro di ieri: coi prolungamenti stessi essa arrivò a 390 minuti. La contendente esclusa dalle semifinali che giocò più di tutti fu l'Austria, con un complesso di 300 minuti, che sarebbero saliti a 390 nel caso di qualificazione alla finale. Ora la squadra italiana collezionò un assieme di 510 minuti di gioco fra gli ottavi di finale, i quarti di finale, i tempi supplementari, la ripetizione dell'incontro, la semifinale, la finale e i nuovi tempi supplementari. Il che vuol dire che gli «azzurri» giocarono, in quanto a tempo, quasi due campionati, mentre gli avversari ne giocarono uno. Minuti 530 di gioco, dei quali 420 di lotta dura, accanita e snervante.
Fu un piccolo calvario, quello attraverso al quale dovette passare la squadra italiana per giungere al successo. Ieri ancora quella compagine cecoslovacca che non aveva, non diciamo entusiasmato, ma nemmeno impressionato nessuno nel corso del torneo, tirò fuori le unghie e sfoderò uno stile di gioco e un tipo di combattività da lasciare di stucco gli scettici. Dura, angolosa, coriacea, la rappresentativa del calcio boemo non ammise per un istante solo di poter essere sconfitta. Essa non ne volle sapere di morire, di cedere nei tempi regolamentari dell'incontro. Ci vollero i tempi supplementari per ridurla sulle ginocchia. Quando piegò fu essenzialmente per mancata resistenza al tremendo sforzo dei velocissimi 120 minuti di gioco. 
Bella compagine, quella boema. Essa ha l'unità e la coesione garantite dal fatto che tutti gli elementi che la compongono provengono da due sole squadre: sette uomini dello Slavia e quattro dello Sparta di Praga. Essa ha l'esperienza, l'abilità, la scaltrezza assicurate dall'anzianità dei suoi giocatori; tutti elementi di lunga carriera internazionale, tutte volpi vecchie, tutta gente che conosce il mestiere a menadito. 
Come gioco di squadra, come coesione pura, occorre dire che l'undici boemo fu superiore a quello italiano in notevoli periodi dell'incontro. 
Vi fu un momento del secondo tempo in cui i cechi soggiogarono quasi i nostri rappresentanti con la loro attività, basata su trame minute e passaggi fitti. A metà campo manovravano e avanzavano in modo da rappresentare una seria, serissima difficoltà il fermarli. Aveva il suo tallone d'Achille, questo tipo di attività, nel fatto che il gioco veniva eseguito prevalentemente in linea, e con caratteri di uniformità e monotonia quasi. Sempre la stessa cosa, sempre la stessa impostazione, sempre la stessa esecuzione. Quando i nostri, scossi dal risultato avverso, e superato il periodo di depressione nervosa, partirono alla riscossa, quella chiave della situazione di cui essi si erano impadroniti studiando l'operato dell'avversario permise subito di neutralizzare quasi completamente il lavoro architettato dai boemi. 
Ma l'unità cecoslovacca è di elevato valore tecnico. Il suo capitano e portiere è, non nel fisico ma proprio nel valore tecnico, un colosso. Lo si diceva in decadenza. Ieri egli lasciò a un certo momento l'impressione di essere altrettanto imbattibile quanto era apparso Zamora nel primo incontro di Firenze. Fu la sorte degli «azzurri» nel campionato del mondo in quanto a portieri, questa: sfuggiti dalle grinfie di Zamora, capitare in quelle di Platzer; evitato Platzer, cader nelle mani di Planicka. Grande portiere, dalle grandi risorse, Planicka! Ci vollero le due fucilate formidabili di Orsi e di Schiavio per costringerlo a capitolare.
I due terzini hanno una loro fama particolare di lunghi anni in fatto di energia e decisione. A questa fama essi fecero ieri onore. Meazza e Schiavio fecero le spese di questa decisione. Orsi, viceversa, e in parte anche Guaita, riuscirono a trovare il lato debole dei sistemi usati dai due — ché la decisione spesso confina o si trasforma in irruenza — e volsero la situazione a loro favore.

Il valore dei battuti

Della linea mediana degli ospiti il migliore fu, senza dubbio, l'uomo di centro. Si diceva che Cambal non era assolutamente in grado di reggere a 90 minuti di gioco filato. Ieri egli non tenne nei tempi supplementari, ma resse appieno nei tempi normali. E' un gran tecnico Cambal. Tecnico dal gioco stretto — che egli raramente distribuisce alle ali —, ma uomo dalle tendenze costruttive. Nulla in lui del gioco prudenziale da terzo terzino in voga al giorno d'oggi, ma tutto, invece, del gioco fatto per sorreggere, aiutare, lanciare e dare idee all'attacco. Delle avanzate boeme Cambal fu ieri, nel primo e nel secondo tempo, uno degli strumenti più pericolosi. Ai tempi supplementari egli si mostrò fisicamente liquidato. 
Nessun rilievo speciale meritano invece i mediani laterali, giocatori privi di personalità. Dove personalità esiste è, invece, nella prima linea. Tre uomini emergono in essa: Svoboda, Nejedly e Puc, mezz'ala destra, mezz'ala sinistra e ala sinistra. Svoboda, il vecchio, pareva finito un anno fa. Più non compariva nemmeno nelle file della sua società. Aveva quasi cessato di giocare. Ci volle il Campionato del mondo per farlo rivivere. Egli fu a Roma l'intelligenza e la molla di propulsione dell'attacco. Furbo, scaltro, abile, tiene la palla in modo ch'è ben difficile portargliela via. Svoboda, che non ha e non ha mai avuto scrupoli sui mezzi da usare, fu, ieri, una vera fonte di grattacapi per la nostra difesa. Nejedly, al confronto, è più un esecutore che un pensatore. Egli fu sfortunato nei suoi tiri in porta, ma il suo tocco della palla é dei più sani. Esecutore puro fu l'ala sinistra Puc, il più veloce degli avanti boemi. Puc segnò il punto per la squadra e costrinse Combi ad alcune parate difficilissime. Una linea al di sotto del valore di una volta è l'ala destra, e di classe inferiore ai colleghi di attacco apparve l'uomo di centro, Sobotka. 
Contro simile avversario gli «azzurri» dovettero pensar seriamente ai casi loro per spuntarla. Essi chiusero il primo tempo col risultato di zero a zero, marcando,però, una leggera superiorità pur giocando contro vento. All'inizio della ripresa permisero che gli oppositori prendessero l'iniziativa e allora furono guai. Per una ventina di minuti vi fu seriamente da temere del risultato. La Cecoslovacchia segnò, per la prima quando Puc, ricevuto una volta tanto un passaggio in profondità, avanzò di alcuni passi e sferrò subito un forte tiro all'angolo basso sulla sinistra di Combi. Poco mancò, ancora, che il vantaggio degli ospiti venisse aumentato, quando Combi potè deviare contro il palo un forte tiro alto ed allontanare il pericolo subito dopo. 
Ma da quel momento la squadra nostra si rimboccò le maniche. Il punto di Puc fu come la buona frustata sul buon cavallo. Ci voleva quella ferita all'amor proprio, quell'odore del rischio supremo per far saltar fuori le doti fisiche e morali accumulate dagli uomini nel periodo di preparazione.

Bravi "azzurri"

La riscossa degli «azzurri» fu esemplare di forza e volontà. Ondate su ondate di attacchi si abbatterono su Planicka da parte di una prima linea a cui il cambiamento di posizione fra Guaita e Schiavio aveva dato nuova forza di impulso. Quando Orsi con una azione personalissima coronata da un tiro superbo di forza e precisione riuscì nel pareggio, ogni apprensione per il risultato finale scomparve subito. Era chiaro che, a meno di una disgrazia, non si poteva perder più. Tuttavia i boemi ebbero ancora due o tre occasioni fra le più pericolose proprio quando le cose parvero per la Italia al sicuro. Fu Combi che in quel frangente salvò la situazione. 
Poi venne il punto di Schiavio, frutto di una azione concorde con Guaita. Una cannonata, quella del bolognese. Planicka toccò la palla, ma non la potè fermare, tanto forte fu il tiro, e da allora i boemi più non riuscirono ad essere veramente pericolosi. 
Grande giornata di Orsi, quella di ieri. La nostra ala sinistra fu, assieme a Planicka, uno dei migliori uomini in campo. Il resto della squadra va accomunato in una gran lode per il fiero comportamento tenuto, anche se talora si mostrò scentrata e nervosa.
Era in periodo di depressione nervosa, la squadra nostra, dopo la terribile settimana scorsa, la settimana dei quattro incontri in otto giorni e dei 300 minuti di gioco in quattro giornate. Dopo la tensione era sopraggiunto il rilassamento dei nervi. Cosa naturale per chi ha vissuto la vita dei nostri atleti. Occorreva appunto quello che i dottori chiamano il «colpo di staffile» ai nervi per far tornare l'organismo al suo rendimento. Ed esso vi ritornò in modo convincente e grandioso.
Dal punto di vista passionale il campionato del mondo non poteva avere epilogo più degno. Folla straordinaria; gioco vario, veloce, tecnico a sprazzi, a tratti anche risplendente di bellezza; pericolo degli italiani di vedere a un certo momento rovinato il lavoro di quaranta giorni, pronta reazione, ristabilimento della situazione, successo. Fu una specie di apoteosi del gioco del calcio, coi giocatori nostri commossi fino alle lagrime, con la folla pazza dalla gioia, col Duce esprimente a pieno viso e a piena voce la sua soddisfazione. 
Maschio comportamento quello degli «azzurri». Il successo da essi raggiunto costituiva la più alta ricompensa a cui potessero aspirare, la più elevata ambizione che potessero nutrire. Il successo stesso è stato afferrato. Esso premia la serietà, la fermezza morale, lo spirito di abnegazione, la ferma volontà di un plotoncino di uomini che, per degnamente difendere i colori d'Italia, non ha esitato a segregarsi dal mondo per quaranta giorni, privarsi di tutto, a piegarsi ad ogni disciplina. Nessuna squadra nazionale mai ha fatto quello che nel periodo della preparazione hanno fatto i nostri «azzurri». E' cosa sacrosantamente giusta che la vittoria abbia premiato la loro fatica. Si dica quello che si vuole: nessuna cosa supera al mondo la soddisfazione del dovere compiuto con coscienza, con fede, con caparbia anche se necessario, con studio, con prudenza, con successo. 
E' una soddisfazione profonda, intima, che compensa di tuttto.