Riva non è Mandrake

di Giovanni Arpino

L'attesa per l'esordio dell'Italia a Mexico '70 era soprattutto messianica attesa di Gigi Riva. Accreditato di sfracelli inenarrabili, era il simbolo e il trascinatore dell'Italia. Sappiamo come andò: polveri bagnate nelle prime tre partite, sprechi, nervosismo, altura, epifania continuamente rimandata. Il primo match fu contro la solida Svezia. Vincemmo senza brillare. Riva non segnò, e questo fu il dato principale restituito dalle prime pagine dei nostri quotidiani. Già. Ma Riva non è Mandrake, scrisse Giovanni Arpino. E di Arpino riproponiamo i due pezzi trasmessi a "La Stampa" dopo Italia-Svezia.




Riva non è Mandrake

Toluca, 3 giugno.
Il pronostico che ci include fra i favoriti dei mondiali è stato onorato dagli azzurri, ma è costato ai nostri giocatori abbastanza caro: la Svezia, sia pure tatticamente discutibile, ha lottato con una decisione che forse nessuno si aspettava, i gialloblù forti sul piano fisico hanno picchiato duro sulle caviglie dei nostri, che forse a tratti hanno avuto il torto di giocare con troppa souplesse. Resistenti e forti, Kindvall e colleghi hanno cercato di trasformare la partita in un fatto atletico.
Gli svedesi hanno dedicato tre uomini a Riva, troppi anche per un campione come il Gigi nazionale. Il cannoniere del campionato ha lottato con la solita grinta, Boninsegna è stato una valida e fedele spalla, Mazzola e Domenghini sono venuti spesso dalle retrovie a dare man forte alla coppia di punta. Tre difensori si sono dimostrati molti anche per un vero campione come Riva, che ha lottato con la forza della disperazione senza riuscire mai a trovare un varco veramente pulito in cui piazzare il suo famoso sinistro. Che Gigi fosse un asso lo sapevamo prima di oggi, ma sapevamo anche che non è Mandrake e non può fare miracoli; per fortuna che in qualche modo al suo fianco (non è il momento di rifare la storia dei «perché» e di certe situazioni) è stato posto Boninsegna, ma si è visto che anche due punte sono poche contro una difesa chiusa e decisa.
Gli azzurri non hanno certo giocato bene, ma con grande impegno questo sì e con un rigido rispetto delle consegne ricevute negli spogliatoi. De Sisti e Bertini non hanno quasi mai passato la metà campo come da ordini di Valcareggi e Mandelli; a far da spalla alla coppia di punta Riva-Boninsegna c'era una seconda coppia formata da Mazzola e Domenghini.
I nostri giocatori hanno superato bene l'handicap dell'altitudine (Toluca a quota 2680 è il più alto campo della Coppa Rimet), hanno saputo giocare alternando scatti a pause come è necessario per riprendere fiato, si sono insomma adeguati alle difficoltà ambientali, riuscendo anche a stringere i denti nel finale attorno al valido Cera, perno della difesa. Al di là del risultato un buon inizio per la nostra squadra; la Svezia ha voluto improvvisare un catenaccio gigante contro i maestri di questo gioco, e non poteva che finire male per i nostri avversari.

(La Stampa, 4 giugno 1970, p. 20)


Gli azzurri debbono imparare il calcio a tempo di “tango”

Toluca, 4 giugno.
«Olsson, el numero 20, no es futbolista, es un sanguinario», è stato il commento di un critico messicano che vedeva Riva malmenato dal difensore svedese. In effetti Riva, anche quando il pallone era ben lontano da lui, sembrava il contenuto di un sandwich, stretto da quell'Olsson che lo afferrava per braccia, maglia, spalle, e il libero svedese, appiccicato al collo dell'italiano come una sanguisuga. Lo si poteva prevedere. Riva è, per tutti, il numero uno in fatto di pericolosità in area (solo i brasiliani fingono di non conoscerlo) e quindi il suo marcamento strettissimo non ha costituito sorpresa. Sarà così ad ogni incontro.
Ma non è questa la sola lezione che ci viene da Italia-Svezia, partita combattuta all'arma bianca, tesa come una spada, rude fino alla protervia atletica. L'arbitro inglese Taylor, se ha favorito qualcuno, non ha certamente dato una mano agli azzurri. Le sue rigide interpretazioni sui falli e sulle conseguenti regole del vantaggio hanno sbilanciato varie fasi dell'incontro, qualche eccesso svedese non è stato punito con tempestività.
L'Italia ha vinto combattendo. Questo è molto importante. Ma l'incontro di Toluca, oltre a confermare l'omogeneità della nostra squadra e l'assenza di dannosi nervosismi, ha detto anche varie altre cose. Il gioco sudamericano è favorito, per esempio. Il «tango» del football giocato da fermi, a queste altezze, è un modo per sopravvivere fino al termine della partita. Chi azzarda troppo si brucia muscoli e polmoni, vede annebiarglisi la vista. Quindi è determinante governare le linee di gioco a centrocampo, non spremersi in corse successive, non pretendere di recuperare subito dopo una fuga. Abbiamo visto Domenghini addirittura boccheggiante sul finale della partita, pur essendo stato ottimo nel primo tempo. Anche Riva si è bruciato in scatti tremendi, di quelli che lasciano il segno. L'ordine nelle retrovie, dettato da uno splendido Cera e da un grande Burgnich (altamente sorretti da Bertini e Rosato) ha impedito agli svedesi un pareggio non impossibile.
Toluca afferma: la squadra azzurra esiste. Poche correzioni tattiche e una maggiore coordinazione manovriera a centrocampo potranno rinsaldare un «undici» non privo di possibilità. I primi ad affermarlo sono i critici stranieri, saliti a oltre 2600 metri d'altezza per esaminare con tutte le attenzioni Riva e compagni.
La Coppa Rimet, dopo un esordio in toni minori, sta erigendosi con le sue leggi spietate. Chi perde non ha possibilità di recuperi, gli incontri diretti si chiudono con risultati irrimediabili. Fa sensazione il Brasile, si continua a guardare al Perù come a una squadra imprevedibile. «Tanto pazzi da poter raggiungere qualsiasi risultato», dice uno che li segue da tempo, e parla degli incas peruviani come della rivelazione iniziale di questo torneo.
Dove arriveranno gli azzurri? Dopo Toluca gli umori sono più fermi, più contenuti, più responsabili. Anche i dialoghi interni si decantano, nel clan, prendendo punte polemiche e veleni autentici o inventati. Le squadre europee, allenate sullo scatto, sulla manovra rapida, indubbiamente soffrono questo torneo. Il football a duemila metri diventa un gioco diverso. E' come manovrare un aereo a reazione lungo un'autostrada o far volare un trattore. E' una sfida, una follia, e insieme uno stimolo nuovo. Vedere un giocatore piegarsi in due per riprendere fiato dopo una fuga di trenta metri è uno spettacolo nuovo, triste ma anche provocante. Perché provocante? Perché al giocatore (e ai suoi compagni di squadra, ai suoi tecnici) tocca inventare soluzioni tattiche e distribuzione di forze in una dimensione agonistica diversa.
C'è chi prevede una finale tutta sudamericana, un «doppio tango» di un'ora e mezzo, e c'è invece chi continua a credere nelle possibilità italiane, inglesi, tedesche. Si punta su molte incognite, dunque, e non si può pianificare a lungo il discorso su questa nona Coppa Rimet. I fatti umani, di resistenza fisica accoppiata all'invenzione e alla fortuna, sono troppi per delineare una fisionomia precisa del torneo. Tutti vivono alla giornata, anzi di tre giorni in tre giorni, secondo gli obblighi imposti dal calendario.
Però i ragazzini messicani giocano chiamandosi Riva e gridano, spingendo la palla lungo i marciapiedi: «Soy Riva, soy Mexico». E' una verità quotidiana. Speriamo possa durare a lungo.

(La Stampa, 5 giugno 1970, p. 14)