L'Italia di Bearzot ha iniziato il ciclo di amichevoli, in preparazione al torneo di qualificazione per i mondiali d'Argentina. Lentamente, con sofferenza, la squadra si assesta, ma gioca ancora un calcio tradizionale, "con patate", ben diverso da quello che si ammirerà nell'estate del 1978. Giovanni Arpino racconta la serata vittoriosa ma di poca gloria vissuta dagli azzurri a Copenaghen ...
Fossi danese, mi vestirei a lutto, seppure per motivi «amichevoli». La squadra nordica, composta da giovanottoni volonterosi ma privi di classe, ha perduto infatti una partita che onestamente meritava almeno di pareggiare. Nel freddo vento che spirava da Est, sull'erba smeraldina di Copenaghen, gli azzurri hanno mietuto una vittoria che dobbiamo accogliere senza rizzare il naso: a un gol donato non si guarda in bocca, per carità di patria.
Le cifre del primo tempo parlano fin troppo chiaro: contro le due palle-gol create da Sala (prima Pulici che segna, poi Graziani che ne cava solo un tiretto-cross inutile) i danesi conteggiano due pali, tre palloni da rete sventati da un grandissimo Zoff, un'infinità di arrembaggi a ridosso dell'area azzurra. C'era chi mormorava, nel vedere questo forsennato e sterile assalto danese: è tornato a splendere l'antico stellone nazionale. Beh, non esageriamo, questa squadra azzurra deve ancora mangiarne di pagnotte prima di dirsi degna anche delle protezioni celesti.
Il nostro centrocampo o si è lasciato risucchiare in avanti (e veniva regolarmente infilato dal contropiede degli avversari) o pasticciava a ridosso di una difesa qua e là fragile e talora persino presuntuosa: cosa significano, infatti, i tocchettii in pochi metri quando gli attaccanti bloccano in spazi ridottissimi? Scirea ha avuto momenti di grande autorità e tempismo, ma Bellugi era nelle peste per merito di un avversario molto più agile. Rocca, troppe volte «fa» il Rocca, cioè porta palla alla cieca, con furia offensiva che quasi sempre si spegne in un ultimo dribbling o in un ultimo, inutile cross (anche se nel finale ne ha azzeccati due più che dignitosi). Ma, tutto sommato: che nostalgia dei bei terzini d'un tempo, ordinati, poderosi, autentiche trincee: dobbiamo pur dirlo.
C'è Antognoni, poi. Il «settebellezze» vorrebbe tanto, e poco ottiene. I mezzi li possiede, la testa è invece quella che è: non ragiona un minuto, né per trovarsi una posizione e fungere da riferimento (per Capello, per un Benetti che ci pare pensionabile, almeno come azzurro) né per suggerire le «punte». Qui, in funzione di spola, e malgrado operasse secondo schemi non abituali, Claudio Sala ha fatto assai meglio: creando non solo le rare occasioni del primo tempo, ma dimostrandosi più agguerrito e pronto. Più riuscirà Sala (lo ripetiamo da secoli) a scarnire e rendere essenziale il suo gioco, più potrà godere di una lunghissima anzianità da campione, in maglia di club e della Nazionale.
Nella ripresa i danesi denunciano un'impensabile caduta di lucidità manovriera. Arrancano in avanti ma non riescono più a raggiungere Zoff con un solo tiro decente fino al 90'. In compenso gli azzurri tentano azioni anche complicate di alleggerimento, creano un paio di occasioni utili (sempre grazie a Sala). Però la lentezza e la cecità in dribbling di Graziani — non riesce a liberarsi mai del suo marcatore —, la solita ritrosia di Pulici e l'elaborazione non certo geniale dei centrocampisti contribuiscono al mancato dominio della partita: nata con la fortuna, poteva essere legittimata con un minimo di talento e con un briciolo di determinatezza. E invece no. La gara si trascina, lasciando sospesi decine di interrogativi: non abbiamo infatti dovuto sostenere una guerra punica, per bacco, anche se un'ombra di squadra la s'intravvede, con un po' di buona volontà. Però è una squadra che abbisogna di notevoli e urgenti puntelli: la linea neutrale deve assolutamente far perno su uomini che sappiano dirigere manovre meno abborracciate, meno casuali.
E non dimentichiamo un motivo critico importante: le fasi più limpide del nostro gioco sono scaturite sempre dal vecchio schema del contropiede: forse condotto con più largo raggio, con minore perentorietà, ma è ancora da questo «modello pallonaro» che è possibile partire per un'opera di restauro azzurro. Il resto rischia di diventare velleitarismo, sogni di calcio ma con patate.
Sappiamo che alcune sostituzioni (con Zaccarelli, con Patrizio Sala) Bearzot non poteva permettersele: nella stessa mattinata, infatti, Gigi Radice aveva «tirato il collo» ai suoi uomini per mantenerli in condizione, facedoli lavorare i vista degli impegni di Coppa. E Bearzot è costretto a rispettare li clima in cui vivono le diverse Società italiane. Sappiamo anche che è restìo a togliere la fiducia ai suoi pupilli in campo, anche se taluno gli fa mangiare non solo le unghie ma persino il cinturino dell'orologio. E adesso trasferiamoci a Roma per l'incontro con la Jugoslavia. Augurandoci, naturalmente, di vedere qualche cosa di più.
"La Stampa", 23 settembre 1976