Il 4 marzo 1972 gli azzurri disputano un'amichevole in Grecia. Valcareggi doveva preparare il quarto degli europei contro il Belgio. Fa esperimenti. E così, disse Artemio Franchi, "siamo riusciti a far diventare la Grecia un Brasile". Perucca trovava invece più efficace un'analogia con il Benfica. E' un triste pomeriggio, un'incolore prestazione. Il ciclo dei messicani sembra davvero chiuso. Lo vede lucidamente Arpino: "la Nazionale d'archivio ha fatto il suo tempo, e anche una successiva coda. Fermiamola lì, all'ultimo ciuffo".
Le cristalline acque del Pireo hanno visto il tramonto di tante grandiose civiltà, possono tranquillamente lasciar andare a picco anche gli ultimi, squallidi sprazzi di una squadra azzurra che è ormai la negazione di se stessa. Ora, il cammino di Valcareggi può trasformarsi in un calvario, e tutti gli daranno addosso, sia i giganti sia i nani, sia i nemici di oggi sia i cauti o tronfi alleati di ieri. La verità è duplice: da una parte la squadra è davvero logora, stantia, ammuffita e ridotta a una groviera, dall'altra bisogna aggiungere che il povero Zio Ferruccio è persino ingenuo nel riporre fiducia in tanti uomini che allegramente lo pigliano per il naso. Lui dice: i vecchi hanno esperienza, sanno almeno combattere, si «trovano» ad occhi chiusi. E quelli gli fanno marameo o magari qualche gesto più pesante. Alla fiducia rispondono con una prestazione fiacca e moscia fino all'insolenza. Salviamo questi nomi: Mazzola, Rosato, Burgnich, in prima istanza. Se volete, salviamone per motivi tecnici, altri due: Facchetti, costretto a fungere da stopper, quindi in una zona che bisogna saper sfruttare a memoria, e Sala, buttato nel falò e con la pretesa che fosse d'amianto. Ma gli altri? Boninsegna ha cercato di avventarsi, e sia. Ma Riva? E i Benetti, Bertini, Bedin? E il povero Cera? E il disgraziato De Sisti? E Zoff, che pure ha mostrato, in un'occasione, 'mani di ricotta?
E dove, soprattutto, sono andate a finire le proporzioni tra i reparti, quel «giocare a memoria» che era un po' la prima difesa d'ufficio dei vecchioni azzurri? Qui o si riparte da zero, e con coraggio, ricostruendo la squadra su altri blocchi, o si rinuncia al titolo europeo prima ancora di averne tentato la difesa. E su questa verità, né ci piove né ci grandina. Neppure la più astuta e calibrata chimica potrebbe rimettere in piedi i cavalli da tiro dagli zoccoli consumati, dal fiato corto e dal cervello presuntuoso. I greci di Bingham avevano perso con tutti o quasi. Formano una squadra onesta, che corre fino alla fine, che si mangia un sacco di gol anche quando riesce a portarsi liberissima sotto rete. Ha qualche uomo di media levatura e un centravanti, il lungo Antoniadis, che funge da faro distributore sia di testa sia di piede. Attorno ad Antoniadis i galoppatori greci svolgono un gioco rapido, obbedendo ad una loro quadratura tutt'altro che trascendentale. Allo stadio del Pireo una Juventus, un Torino, una Fiorentina avrebbero schiacciato i greci in retrovia fino a spuntare i gol necessari per addormentare la partita. Gli azzurri, presuntuosi turisti, no: pur sapendo di non riuscire più a difendersi come una volta, quando si «arricciavano» nella loro metà campo per poi scattare con contropiedi velocissimi.
I greci hanno costruito oltre una mezza dozzina di palloni-gol. Verso la fine della ripresa avrebbero potuto segnare con ogni tranquillità almeno due reti, e inchiodare la nostra squadra su un risultato umiliante. A questi palloni-gol realizzati o sprecati cosa hanno opposto i nostri 'prodi'? Qualche atteggiamento plastico di Riva, qualche rabbiosa e fallosa carica di Boninsegna, alcune incursioni di Mazzola e i tentativi (brutti, per la verità) di Sala. Povero Zio. Si può discutere sul terreno, poroso e ingannevole come un vecchio tappeto su cui hanno giocato i cani di famiglia per almeno sette generazioni, si può discutere sul carattere di «amichevole» dato alla gara. Ma non era certo un'amichevole per i greci, e qui allora si dovevano palesare il valore, l'orgoglio personale dei nostri senatori, e la loro volontà di prodigarsi per ripagare la fiducia del povero Zio.
Nient'affatto. Frana è, e dopo un bel sorriso, con tanti ricordi fotografici dell'Acropoli e la memoria messicana ridotta in poltiglia. Quindi, alle evidenti, annose, sottolineate (noi per primi) colpe di Valcareggi bisogna aggiungere l'accidia dei suoi uomini, la loro incapacità di nobilitare un sabato sportivo ripagando il pubblico locale e i milioni di telespettatori.
La cronaca è una miseria di spinte e controspinte senza sugo. Allineare minuto per minuto le vicende di questa partita sarebbe fatica da maniaci. A Sala, che tarda ad ingranare, Mazzola dà subito una mano, ma De Sisti ha preso troppo sul serio il compito di retroguardia, tanto da uscire appena dall'area. Si vede Riva che trotterella come un re antico, felice che la luce pomeridiana gli faccia sfavillare la corazza, ma niente di più. Dov'è andato a finire il Riva che contro la Juventus creò tre stupendi palloni-gol? Di fronte alle acque del Pireo il poderoso Gigi si lascia anticipare da terzini e portiere quasi per scommessa. Il gol greco viene da un «buco» colossale di tutta la nostra difesa, perché ad un errore di Facchetti non rimedia Cera e forse scatta in ritardo Zoff. Poi Mazzola propizia un immeritato pareggio: evita in slalom due avversari che «bevono» e lasciano filtrare il pallone per il Feroce Saladino. Scatto, sinistro, il pallone è aiutato da un rimbalzo che stecchisce il portiere. Uno a uno e qui si dice: ora, avendogli prese le misure e avendo anche inghiottito un po' di spavento, i senatori reagiranno. Riva si esibisce in una punizione che fulmina sulla traversa, si accende qualche speranza, la partita sembra riscattarsi da quella che pareva una merenda sull'erba tra muscolari. Macché. Naviga come un torpido vascello fantasma Benetti, torcendosi su palloni con tutta la sua possa di leone ingrossato con gli anabolizzanti, hanno un bel difendere Rosato e Burgnich, dal centrocampo in avanti se il pallone non va a Mazzola, è notte fonda, notte da lupi.
Ripresa in peggio: perché Bertini non sostituisce De Sisti rispedito avanti né «copre» come il De Sisti quando si arroccava indietro. E con Bedin dai lupi si passa subito ai vampiri, mentre Riva, bello, seguita a troneggiare laggiù, magari levando pure un pallone a Sala che sta per scoccare il tiro. Troneggia e si accontenta delle belle fotografie, evidentemente, neppure gli capita per la testa di tentare uno sfondamento vero. E palloni gliene hanno anche dati, non in numero eccezionale, ma sufficienti a dimostrare fegato, piede, tempismo, talento e voglia.
Così precipita, frana la partita. Un corner per i greci, la testa di Antoniadis domina il pallone per Pomonis che tutto bello solo insacca. Dov'erano Cera, più Bertini, più Bedin? Usciti elegantemente per il tè? Gli azzurri, costretti controvoglia ad attaccare, sfoderano tutto un repertorio di indugi, assembramenti, sbagli, che portano finalmente in evidenza quanto l'ossatura di questa squadra sia gessosa, ormai. Altro che carattere! Altro che esperienza! Sembrano scolaretti, mentre i greci, brava gente, corrono ancora, e i senatori li guardano, stupiti di tanto accanimento. Corrono si, gli uomini del sergente irlandese Bingham, e trapanano le squadra vicecampione del mondo da ogni parte, rovesciandosi dal centrocampo nella nostra area, dove sprecano palloni che certo altri attaccanti non regalerebbero agli dei infernali. E cosi finisce, con il pubblico greco ormai uscito dalla sua beata sonnolenza e incredulo per tanta vittoria.
Sarà la volta buona per assimilare la lezione? O un ennesimo colpo di carta assorbente cancellerà figuraccia e sconfitta? Una frustata nei garetti, Zio Valcareggi, prima a se stesso, se vuole, e poi ai suoi eroi di cartone, deve senz'altro affibbiarla. Per rivedere se trovano un minimo di dignità e quindi un minimo di valore calcistico sul campo. Tranne quei pochi «non colpevoli» e quegli altri, pochissimi, «per non aver commesso il fatto». E sia aria nuova, finalmente, con fasce e ginocchi che abbiano voglia di rischiare. La Nazionale d'archivio ha fatto il suo tempo, e anche una successiva coda. Fermiamola lì, all'ultimo ciuffo.
Giovanni Arpino