Due unità di eletta classe

Le cronache di Monsù
13 maggio 1933

Il primo confronto diretto tra gli azzurri e la nazionale inglese dovette stuzzicare tantissimo il nostro commissario unico, che conosceva benissimo il loro calcio. Era stato a lungo di casa a Londra frequentando Highbury, conosceva benissimo Chapman, dal quale, apprese moltissimo sui metodi di conduzione di una squadra. E Chapman era a Roma, per la sfida tra italiani e inglesi: "nelle pause del mio lavoro per la squadra o per il mio giornale, specialmente a sera, ci trovavamo. E la facevamo lunga". A sorpresa, il grande manager dell'Arsenal era negli spogliatoi prima della partita. Non aveva nessun incarico per la Football Association, cosa ci faceva lì? "What are you doing here?", gli chiede Monsù. "I am doing for my country what you do for yours". L'accortezza del gioco inglese, cui Pozzo dedica tutta la prima parte del suo resoconto, gli fece sospettare la presenza "di un uomo dall'occhio esperto che, dal di fuori, aveva visto e consigliato" (Campioni del mondo, pp. 234-237).


Roma, 13 notte. 
L'incontro con l'Inghilterra si è chiuso alla pari; l'Italia mancò la vittoria per un soffio. L'incontro fu una battaglia accanita e corretta nello stesso tempo; il tono della battaglia fu impresso al gioco non dagli italiani, come molti si potevano attendere, ma dagli inglesi, i quali giocavano per il risultato, esclusivamente per il risultato, sacrificando ad esso ogni amore alla scienza, ogni considerazione di estetica e molti aspetti tecnici del lavoro della Squadra. Certo la compagine che l'Inghilterra aveva inviato a Roma era essenzialmente basata sulla combattività, sulla velocità, sulla volontà di vittoria: invece di essere composta di artisti del gioco, di elementi ligi ai canoni tecnici consuetudinari, di uomini capaci di grandi finezze, la squadra trovava la sua ragione d'essere nel desiderio di lottare. La sua forza di propulsione essa la cercava nel brio, nel fuoco e nell'ambizione di salire e di distinguersi dì parecchi giocatori nuovi agli onori internazionali. 

La combattività degli inglesi

Il funzionamento dell'undici fu quindi conforme alla sua costituzione: il corpo funzionò secondo il sangue che aveva nelle vene. Fu la squadra ospite che fece uso della robustezza e del peso del corpo, fu essa che giocò alto in prevalenza; fu essa che ricorse essenzialmente alla velocità ed alle lunghe puntate in avanti. Stile di attività, come lo si vede dal campionato inglese di questi ultimi anni, quello praticato a Roma. La bellezza tecnica del gioco ne ha indubbiamente sofferto molto, ma ha guadagnato lo spettacolo dal punto di vista dell'esibizione di forza e vigoria fisica. Ammirevole vigoria, invero, quella spiegata dagli uomini in maglia bianca! Essi ricorsero senza economie o falsi scrupoli alle armi della robustezza: cariche forti, ma schiette, eseguite spalla a spalla, sgradevoli a subire, ma corrette. Combi, il portiere nostro ad esempio, non toccò quasi pallone senza che il centroavanti inglese tentasse dì caricarlo. Col gioco alto a cui ricorsero, gli inglesi emersero nel gioco di testa. Classico modo di saltare, tocco preciso dall'alto in basso, scelta esatta del tempo per l'intervento. Col tono di velocità che impressero al gioco, emersero nello scatto. Grazie alla fulminea prontezza nel mettersi in movimento, venne a galla una capacità di smarcamento impressionante. 
Le condizioni fisiche dei giocatori erano tali che l'incontro venne terminato alla stessa velocità a cui era stato iniziato: gli uomini ressero allo sforzo da cima in fondo all'incontro senza dar segni visibili di fatica. Al vederli giocare nel secondo tempo, costretti nella loro metà campo, ma inflessibili nel loro lavoro, il pensiero correva involontariamente all'incontro Inghilterra-Austria disputatosi a Stamford Bridge sei mesi or sono. Allora, al secondo tempo la squadra inglese cessò quasi di esistere come lavoro fisico: la loro squadra, creata per far della tecnica, quando non ne poté più fare non seppe combattere, si sconvolse. E la constatazione che ne emergeva e che tuttora trova conferma a pensarci su con maggior ponderazione, è che l'ostacolo che si contrappose agli italiani sia stato notevolmente più difficile di quello con cui ebbero a lottare a loro tempo gli austriaci. 

Una fortissima difesa

Bel terzino destro, il capitano Goodall fu uno dei migliori uomini in campo. Tenace, sicuro, volitivo, egli fu collaudato appieno da quello che nella giornata fu la parte migliore del nostro attacco, il settore di sinistra. Hapgood, il difensore di sinistra, scapitò alquanto nel confronto. White, il centro mediano, cominciò giocando in posizione relativamente avanzata; non appena gli italiani ebbero segnato il loro punto, egli si rifugiò nella posizione arretrata quasi di terzo terzino, certo di puro difensore, che è di moda attualmente in Inghilterra, e da quella più non si mosse che per qualche spunto nel periodo finale del primo tempo, quando gl'inglesi dominarono. 
Ottima è viceversa l'impressione relativamente ai due mediani laterali, due stilisti della corsa, due padroni della palla che furono i veri iniziatori di tutte le azioni offensive condotte dalla squadra ospite. 
Nel considerare però il gioco dei reparti arretrati inglesi, non occorre soffermarsi né su White né su Goodall né su Strange, ma sul blocco che tutti questi uomini presi assieme formarono. Un vero blocco nel senso materiale e morale della parola. Un blocco contro cui l'attacco italiano non riuscì — anche per debolezze proprie intrinseche — a spuntarla. Era gioco di posizione, del più bello, quello che questo blocco praticava. Un uomo si muoveva, e gli altri si piazzavano; un avversario eseguiva una mossa e l'intero sistema si spostava, intercettava, copriva. Fu quella la vera forza della squadra inglese: quella che la salvò dalla sconfitta.
Dell'attacco inglese e più difficile parlare. Gli attaccanti esistono per attaccare, e dì vero gioco d'attacco fra gl'inglesi uno solo ne praticò, l'ala sinistra Bastin. Il rimanente, o fece lavoro di metà campo, o tentò inutilmente di sfondare a mezzo di sistemi primitivi. 

Il successo sfiorato 

Contro questa squadra, gli "azzurri" giocarono con grande impegno, riuscirono a periodi a raggiungere il loro più alto livello dì rendimento, ma nell'assieme furono come frenati da circostanze contingenti. Avrebbero dovuto e potuto vincere. L'andamento del gioco fu tale da pienamente giustificare ogni aspirazione alla vittoria. Nel primo quarto dora essi travolsero l'.avversario. Partendo a velocità indiavolata, precisamente come avevano fatto otto giorni prima a Firenze contro la Cecoslovacchia, essi presero l'iniziativa e fecero sì che l'intera compagine inglese fosse costretta a lottare coi denti, calciando comunque e dovunque pur di difendere e di allontanare il pericolo. 
In quel periodo gli "azzurri" avrebbero dovuto vincere la gara: le situazioni favorevoli presentatesi furono tante che essi avrebbero potuto con facilità assicurarsi un margine sostanziale di punti prima che i "bianchi" d'Inghilterra si fossero ripresi. Fu un po' col favore del vento che i "bianchi" si ripresero. E fu anche col favore di un probabile fuori gioco che essi pareggiarono. 
Bastin, l'ala sinistra, quando ricevette la palla dal compagno di mezz'ala Furness, stava davanti a questi di circa due metri e si trovava al di là della linea dei terzini di circa quattro metri. Il fuori giuoco, secondo l'arbitro, e i guardalinee, non poté venire concesso perché al preciso istante in cui l'azione si sviluppò Bertolini, all'altro estremo della porta, già stava accorrendo in posizione arretrata. Comunque, fuori giuoco o no, al momento iniziale dell'azione vi fu errore di intervento e di intesa fra gli uomini nostri. Fu quello il solo svarione commesso dalla nostra difesa in tutto l'incontro. Esso ci costò caro. Dall'ottenimento del pareggio stesso gli inglesi attinsero animo. Tutta la seconda parte del primo tempo fu a loro vantaggio. Il vento soffiava forte a quel momento e li sospingeva e aiutava. Fu quello il periodo migliore per gli ospiti. I quali, comunque, non riuscirono a segnare, non solo, ma nemmeno a far maturare una situazione veramente meritevole di successo. 
La ripresa, viceversa, ebbe un colore solo: colore azzurro. Gli italiani presero l'iniziativa e, rari sprazzi a parte, non se la lasciarono più sfuggire. Su 45 minuti del secondo tempo, i nostri dominarono, in un modo o nell'altro, per circa 35. Ma era più energia, volontà e impegno che non gioco veramente efficace. Alcuni uomini della squadra non davano il rendimento solito. Meazza faceva del suo meglio, ma non era il vero Meazza, quello che nelle circostanze che si stavano verificando avrebbe potuto da solo mettere al sicuro il risultato della giornata. Lo stesso dicasi di Costantino. E Schiavio era tenuto d'occhio dal centro mediano White, che aveva rinunziato a ogni altro compito, pur di neutralizzare il bolognese. Da parte loro, Ferrari e Orsi non ricevevano lavoro a sufficienza. È così, malgrado la supremazia, malgrado le situazioni favorevoli, il tanto desiderato punto della vittoria non doveva arrivare e non arrivò. 

I vari reparti

In tutto il secondo tempo, detto per inciso, Combi non ebbe un solo pallone pericoloso da parare. La difesa italiana fu salda, senza lasciare però l'impressione di imbattibilità lasciata contro i cecoslovacchi. Combi non ebbe lavoro di difficoltà. Fu continuamente importunato, ma un tiro solo degno del nome venne nei novanta minuti indirizzato al rettangolo da lui difeso. Della linea mediana, il più continuativo fu Bertolini, che resse da cima in fondo, e che non lasciò alcuna libertà di azione a Geldard. Piziolo cominciò in modo incerto e terminò molto forte. E Monti, posto di fronte a un compito dei più difficili, quello di lavorare nel vivo del settore in cui l'avversario svolgeva quel compito di piazzamento che fu la sua vera, forza, si comportò lodevolmente. 
Era difficile giuocare contro gli inglesi oggi. Erano difficili da battere. Per dirla nell'opinione dell'arbitro Bauwens, gli inglesi presero oggi per la prima volta veramente sul serio un incontro sul continente e per la prima volta, invece di fare delle esibizioni e di mostrare della noncuranza, lottarono. Per riflettere la situazione con le parole del capo della comitiva inglese Kingswott, proprio oggi i giuocatori dalla maglia bianca, proprio in questa loro prima occasione di serio combattimento, videro negli occhi lo spettro dello sconfitta. 
Certo è che se uno dei due contendenti può lamentarsi di non essere stato fortunato, questo è l'italiano, che dominò, che si procurò e si vide sfuggire occasioni di segnare in proporzioni notevolissime. 
Fu, per gli "azzurri", un vero peccato che essi non abbiano potuto chiudere la stagione con una vittoria. Si trattava per essi di un successo meritato: si trattava di confermare un primato europeo. Peccato, dicono i nostri. Grazie, dicono gli inglesi, che si dichiarano soddisfatti dell'esito della giornata e che lasciarono il campo con rispetto per il valore del calcio italiano.

[La Stampa, 14 maggio 1933, p. 5]

Per la documentazione filmata sul match, si veda in Cineteca