L'archeo Europeo del 1960

Euro storie

L'Europeo del 1960 ci richiama a un mondo che non c'è più: non solo alle immagini in bianco e nero e a un'archeologia del sapere, non solo al secolo breve e alla divisione bipolare, ma anche a una stagione calcistica dove alcune squadre dell'Europa orientale e balcanica seppero stare stabilmente ai vertici del calcio mondiale per un periodo non breve. Qualcosa ormai di inimmaginabile. All'organizzazione buro-ginnasiarca sovietica (che, non si dimentichi, costruì quasi 2.000 stadi in URSS tra gli anni '60 e '70 portando il calcio a milioni di cittadini delle città di provincia dell'impero, da Tbilisi a Minsk, da Baku a Yerevan, con una copertura televisiva del campionato statale che, avviata dalla metà degli anni '50, raggiunse l'intero paese entro la fine del decennio successivo) si è ora sostituito il potere delle oligarchie buro-mafiose le più varie (che, non si dimentichi, stanno tornando a concentrare in poche squadre il consumo calcistico, molto pay-per-view, dei nuovi ricchi russi).

Il primo torneo per nazioni del continente durò 22 mesi (dal settembre 1958 al luglio 1960) e si avviò con uno spareggio per eliminare la 17a iscritta (Eupalla arrise, memore dei fasti passati, alla Cecoslovacchia sull'Irlanda). La prima partita ufficiale fu giocata davanti a oltre 100.000 persone il 28 settembre 1958 allo Stadio Centrale Lenin di Mosca quasi a prefigurare l'esito geo-politico che avrebbe caratterizzato la finale di due anni dopo: l'URSS affrontò e sbaragliò una nazionale ungherese rifondata sovieticamente dopo la tragedia del 1956; nel filmato propagandistico [qui] assistiamo non a caso anche al lancio dei mazzi di fiori ai compagni socialisti in tribuna da parte dei giocatori ungheresi, tutti ormai reclutati in squadre autoctone e spauriti successori dell'Aranycsapat.

6 luglio 1960, Parc des Princes, Paris
George Lamia, sfortunato protagonista della semifinale
contro la Jugolavia, in uscita alta
A quella competizione, va detto, non parteciparono ben 15 delle 32 nazioni allora affiliate all'UEFA, tra cui alcune di rango (dalla Germania Ovest all'Inghilterra, dalla Svezia alla stessa, modestissima, Italia di allora), che preferirono concentrare le proprie attenzioni sui Mondiali del 1958 e 1962 (vinte, per contrappasso, dal Brasile). A tenere particolarmente alla competizione, fortemente voluta sin dal 1927 da Henri Delaunay, primo segretario generale dell'UEFA, erano invece i Francesi, digiuni da sempre di vittorie internazionali importanti e dotati allora di una discreta generazione di giocatori (tra i quali il centromediano Raymond Kopaczewski, detto "Kopa", e soprattutto il bomber Just "Justo" Fontaine, capocannoniere ai mondiali del 1958 con 13 reti, record tuttora imbattuto), fresca del terzo posto ai mondiali di Svezia. Le quattro partite finali si svolsero così a Marsiglia e a Parigi tra il 6 e il 10 luglio 1960. L'URSS sbaragliò facilmente per 3 a 0 la Cecoslovacchia [tabellino | HL], mentre la Francia, in vantaggio a fine primo tempo di due gol, fu rimontata clamorosamente dalla Jugoslavia che in tre minuti (tra 75° e 78°) segnò tre reti grazie anche alle nefandezze del suo portiere Georges Lamia [tabellino | HL]. La delusione gallica fu enorme: la nazionale si consegnò rassegnata alla Cecoslovacchia nella finale marsigliese per il 3° posto [tabellino | HL] e alla finalissima del Parc des Princes finirono con l'assistere meno di 18.000 spettatori.

A contendersi il titolo furono dunque le due maggiori compagini del blocco socialista. La Jugoslavia vantava una tradizione più antica: aveva partecipato alla prima edizione dei mondiali, sconfitta in semifinale dai determinatissimi (a vincere) uruguagi non senza l'aiuto della polizia locale [Goldblatt, The ball is round, p. 437] e classificata quarta dopo essersi rifiutata di giocare, per protesta, la finalina con gli USA; nel dopoguerra aveva inanellato tre finali olimpiche consecutive (senza vincerne alcuna), e da lì a qualche settimana avrebbe finalmente cinto l'alloro a Roma (con ben 8/11 dei titolari della finale di Parigi di nuovo in campo); nel 1962 avrebbe nuovamente raggiunto le semifinali mondiali in Cile (altro 4° posto), i quarti alle olimpiadi del 1964 e una nuova (doppia) finale agli europei nel 1968 (immancabilmente persa), con a livello di club due finali europee, l'una (Coppa dei campioni del 1966) persa dai serbi del Partizan Belgrado contro il Real Madrid, l'altra vinta dai croati della Dinamo di Zagabria (Coppa delle Fiere del 1967) sul Leeds United. Insomma: una nazione stabilmente ai vertici del calcio mondiale, ma con una strutturale difficoltà a chiudere la partita.

L'URSS si era invece affacciata al calcio internazionale solo dopo la seconda guerra mondiale puntando sulla ribalta olimpica dal 1952 (e non senza sconfiggere in amichevole la Germania campione del mondo nell'agosto del 1955) e vincendo l'oro a Melbourne (grazie anche all'assenza di alcuni paesi occidentali in segno di protesta contro la repressione sovietica dei moti di Ungheria). Solo tre reduci da quella spedizione sarebbero stati in campo a Parigi nel 1960 - il portiere Lev Jašin, che si rivelò proprio alle olimpiadi australiane, il capitano Igor Netto e il centrocampista Valentin Ivanov - perché l'allenatore vincente Gavril Kachalin decise un opportuno ricambio (aperto ora anche ai giocatori delle squadre non moscovite) dopo la prima deludente partecipazione ai Mondiali del 1958 (eliminati ai quarti, peraltro, dalla squadra di casa poi finalista). Da allora l'URSS rimase stabilmente al vertice del calcio internazionale, arrivando alle semifinali dei mondiali del 1966 e, soprattutto, nuovamente in finale agli Europei del 1964 e del 1972 (mentre nel 1968 fu una moneta a sancirne la sua esclusione a favore dell'Italia capitanata da Facchetti), inanellando poi anche una serie di terzi posti alle olimpiadi del 1972, 1976 e 1980. L'assenza di vittorie dopo quella del 1960 - insopportabile per un paese che si proponeva alla leadership mondiale - scatenò nondimeno nel paese discussioni e polemiche continue: la sconfitta nei minuti finali dei quarti contro l'Uruguay ai mondiali del 1970 fu seguita addirittura da oltre 300.000 lettere di protesta contro calciatori e tecnici ricevute dal quotidiano "Izvestia" in pochi giorni. Va detto, in effetti, che dal punto di vista tattico la nazionale e quasi tutte le squadre di club giocavano un calcio molto ordinario, senza individualismi, sostenuto dalla disciplina e della condizione atletica: versione locale del WM fino al 1960, poi corretta in un cauto 4-2-4 modellato sul Brasile vincente di quegli anni. La rivoluzione che stava maturando a Kiev grazie a Viktor Maslov - l'invenzione del calcio moderno fondato sul pressing e sul 4-4-2, come ha evidenziato Jonathan Wilson - era ancora un'idea di provincia in un impero dominato da Mosca, dalle sue squadre di stato e dalle sue ortodossie.

10 luglio 1960, Parc des Princes, Parigi
Lev Jašin accarezza la coppa d'Europa appena conquistata sul campo
Della finale del 10 luglio 1960 al Parc des Princes abbiamo il filmato pressoché intero [tabellino | FM] e possiamo dunque seguirne gli svolgimenti che videro andare in vantaggio la giovane Jugoslavia (età media di 23 anni) grazie anche a una (rara) incertezza di Lev Jašin, uccellato sul primo palo da un'incornata bassa di Milan Galic allo scadere del primo tempo. Pareggio immediato del georgiano Slava Metreveli a inizio ripresa, ma poi molta ruminazione, a causa anche della pioggia che cominciò a infittirsi sul Parc des Princes in quell'inizio luglio per nulla estivo. Occorse attendere il 113° dei supplementari perché un bel colpo di testa di Viktor Ponedelnik, lasciato liberissimo dalla svagata difesa slava, scongiurasse il pericolo della ripetizione dell'incontro. Fa tenerezza l'esultanza composta, nell'altra porta, di Lev Jašin: un piccolo salto, quasi un accenno di balletto, goffo e a un tempo leggero (un altro che esultava così era il nostro Giacinto), che è rimasto per fortuna impresso nelle pellicole che sono arrivate a noi. Il "Ragno nero" doveva essere persona dolcissima, come ci mostra lo sguardo di tante sue foto [qui una raccolta], e il modo in cui tiene in grembo, come una figlia, la sua coppa in uno spogliatoio pregno di fango e di sudore.

Azor