Una pietra miliare nella storia del calcio. La vicenda è ormai arcinota, ma conviene riassumerne le fasi principali. Johannesburg, domenica 27 giugno 2010. Ottavi di finale dei Campionati Mondiali di Calcio. Partita Argentina-Messico, match equilibrato, spezzato al 25’ del primo tempo da una rete dell’argentino Tevez. Immediatamente dopo la segnatura, attimi di tensione, pesanti come blocchi di granito. I Messicani protestano per la rete convalidata: a loro avviso Tevez sarebbe in fuorigioco. L’arbitro italiano Rosetti, considerato fra i migliori del mondo, ha un attimo di indecisione e consulta il suo collaboratore più fidato, Ayroldi. Mentre i due si confrontano freneticamente, sul maxi schermo dello stadio si rivede al rallentatore l’azione: Tevez è in effetti in fuorigioco, il gol è da annullare, lo si vede. Probabilmente Rosetti ed Ayroldi vedono sullo schermo la ripetizione dell’azione, ma – tra lo stupore generale – convalidano la rete. Di fatto, la decisione degli arbitri è clamorosamente sconfessata dalle immagini. La Verità è però violentata dal Potere – degli arbitri, della Fifa –; la Giustizia è negata. Ma la democrazia televisiva rivela al mondo tale atto tirannico. Eppure la decisione è presa, non si torna indietro. Il Messico subisce un evidente torto, ma si va avanti.
27 Giugno 2010, Soccer City Stadium, Johannesburg Roberto Rosetti e Stefano Ayroldi convalidano il gol in fuorigioco di Carlos Tevez |
Un capriccio di Eupalla. Un esempio di scuola. Un altissimo momento di teatro popolare. Un intrico sofisticatissimo di regole e discrezionalità, di voglia di protagonismo e forse altro ancora. Ipotesi e interpretazioni si sprecano. Le gazzette e le televisioni gridano allo scandalo. Un forte sentimento popolare chiede a gran voce l’introduzione dei mezzi tecnologici per controllare il gioco, aiutando anzi correggendo l’arbitro nelle decisioni più gravi. Il grande Occhio che tutto vede e regola e decide. A lui dobbiamo affidarci.
Ci sono in gioco troppi denari, sono implicate nazioni popolose e potenti, governi forti. Non si può sbagliare, non si deve più sbagliare. Queste sono grosso modo le motivazioni più diffuse, le emittenti televisive e gli altri mezzi di informazione fanno da cassa di risonanza. Il consenso sembra unanime. I pochi indecisi sono bollati come antiquati, gli oppositori come gli ultimi difensori della casta. Sono irrisi persino coloro che, pur essendo strenui paladini della tecnologia ne temono un’applicazione aristocratica, limitata agli incontri di alto livello e non estesa (per ovvie ragioni economiche e logistiche) a ogni campionato, anche minore, anche nelle più remote regioni del mondo. Non c’è spazio per altre motivazioni.
Capisco bene tutto ciò. Ma, io non ci sto. Le ragioni di tale opposizione sono tante, ma riconducibili ad una, la Tradizione, lo spirito originario del football. Una serie infinita di nuovi regolamenti, di modificazioni, di aperture, ha snaturato il regolamento originario. Il calcio di oggi è profondamente diverso anche solo da quello degli anni settanta. Tuttavia esso ha comunque mantenuto alcuni pilastri che ne delimitano e confermano la sacralità. L’arbitro non è la giustizia assoluta; rappresenta anche il destino, il fato. È uomo fra uomini, primus inter pares. Dunque può sbagliare, anzi deve sbagliare. Perché l’errore è la componente fondamentale del gioco. Una partita perfetta tra due forze uguali finirebbe in parità, forse 0 a 0 o 5 a 5, poco importa. Eppure spesso ciò non accade, per fortuna. C’è l’imprecisione dell’attaccante, la bravura del portiere, il refolo di vento improvviso, il terreno ghiacciato, la spinta impercettibile all'occhio le scarpe inadatte, la rotondità del palo, e le concause e le variazioni sono infinite. L’arbitro, forse lo si dimentica, corre, osserva, giudica nel giro d’un lampo. Lo stesso del portiere che si allunga sulla sfera, lo stesso dell’attaccante che colpisce al volo anticipando il difensore. I limiti fisici sono gli stessi dei calciatori in campo, uguale la fatica, la tensione, l’affanno. Lo scontro è alla pari, anche contro il fato.
Lo spazio ed il tempo in cui sono immersi i protagonisti – arbitro e giocatori – è il medesimo. E tale deve restare, perché appunto è sacro, non può essere violato. Sono i mezzi televisivi a deformare il tempo, attraverso la moviola, la ripetizione, atto appunto innaturale. Così come lo spazio che è accorciato, contemporaneamente esplorato da più sguardi. Ciò non è naturale e dunque infrange il patto, la legge.
I mezzi televisivi hanno da tempo violato tale equilibrio. Hanno creato un nuovo, del tutto artificiale, spettatore. Esso non esiste in natura, ma è una pura creazione. Eppure esso si arroga il diritto di giudicare e di imporre nuove regole. Tale democrazia tecnologica è la morte del calcio, è la sua negazione filosofica. Il modello ideale, a ben vedere, sarebbe un match perfetto, controllato, senza errori, puramente virtuale. E come tale vendibile ovunque, senza alcune distinzioni, in modo oggettivamente democratico. Dopo gli arbitri, anche gli spettatori in carne ed ossa non saranno più indispensabili, e forse neanche gli stadi e poi perché servirsi dei giocatori? Molto meglio replicanti, così si potrà giocare sempre e ovunque. Il tempo e lo spazio e la natura saranno vinti. E qualcuno farà affari d’oro. No, io non ci sto.
Alb