Una cosa è certa: finché esisterà il calcio e di calcio si
racconterà, un capitolo fondamentale di questa infinita storia resterà il “maracanaço”
(neologismo português, metafora ormai consueta per evocare un disastro
calcistico). Per molti motivi. Anzitutto, alla storia quel giorno è passato per
via di un risultato pressoché universalmente ritenuto sorprendente, inatteso, clamoroso; poi, perché è
una storia che riguarda il Brasile, e di per sé una storia che riguarda quel
paese e il suo futebol è destinata a
una continua rielaborazione; infine - ma non è l’ultima delle ragioni -, perché
di quel match si hanno solo pochi frammenti filmati (sicché uno scrittore
brasiliano poté paradossalmente affermare di aver smesso di credere in Dio non
avendo mai incontrato due persone che raccontassero allo stesso modo il gol di
Ghiggia: e allora come “credere alla versione di
mezza dozzina di apostoli che dissero di aver visto Cristo resuscitare in un
luogo deserto e oscuro?”). Troppo pochi e troppo poco per un'analisi diretta e accurata - tant’è vero che l’analisi migliore (Anatomía de uma derrota, di Paulo Perdigão) è fondata sull’ascolto,
la trascrizione e lo studio della cronaca radiofonica, per fortuna salvatasi
integralmente. Per tutti questi motivi, quella sconfitta “trasformò un fatto
normale in una narrazione eccezionale”, ossia in “un mito favoloso che è stato
preservato e persino accresciuto nella fantasia della gente”.
Fatton fa secco Barbosa: è il momentaneo uno a uno |
Col senno di poi, si può dire che quel risultato forse non fu così sorprendente.
Anche tenendo conto di tutti i fattori che, in teoria, avrebbero dovuto rendere
‘imbattibile’ la Seleçao: le grandi prestazioni e le goleade contro la Svezia e
la Spagna (uscite dal Maracanã con sette gol a testa sul groppone), che avevano
naturalmente esaltato il paese e la critica; il teatro, la cornice immensa e
paurosa del nuovo, grande stadio, destinato ad annichilire qualsiasi
avversario. Tant’è vero - si dice - che (prima del match conclusivo con i
rivali rioplatensi) l’unica contro-prestazione del Brasile era occorsa non a
Rio, ma a São Paulo, di fronte alla Svizzera [vedi]. Tuttavia, proprio quel pareggio
(un due a due sigillato quasi allo scadere da Jackie Fatton, notevole bomber
elvetico) aveva dimostrato la vulnerabilità dell’assetto tattico carioca.
Opposto a una compagine europea solidamente impostata sulla difesa, il Brasile
si era inceppato. Armando Libotte, luganese, giornalista e storico del football
elvetico, “aveva notato come qualmente i brasiliani contemplassero del calcio
la sola parte offensiva”, ricorderà Brera - che, appena arrivato in Gazzetta, al mondiale non andò. Purtroppo.
Un’occhiata retrospettiva alla stampa italiana – perlomeno
ai fogli facilmente disponibili – può se non altro sgombrare il campo da eccessive
suggestioni letterarie. Naturalmente a Rio, il 16 luglio 1950, c’era Vittorio
Pozzo. Inviato de La Stampa, come
sempre. Usciti subito gli azzurri, colui che era comunque il tecnico campione
del mondo ancora in carica seguì soprattutto il Brasile e l’Uruguay. La cronaca
dettata ‘a caldo’ del match decisivo rivela quanto impressionanti fossero
(anche per lui) le condizioni ambientali. “Non abbiamo mai assistito a un
avvenimento calcistico di tanta grandiosità”. Arrivato al Maracanã con tre ore
di anticipo, lo scopre già pieno. “E’ stato un assalto”. Poi evoca le
smargiassate della stampa e delle radio locali; quindi fotografa l’ingresso
delle squadre in campo. “La folla sembra in preda ad un furore di esaltazione;
noi europei non abbiamo idea di quello che siano più di centocinquantamila
persone che urlano congestionate fra il ripetersi degli spari che stendono ad un
certo punto sullo stadio un sottile velario di fumo”. Si procede con le
cerimonie - una ragazza paracadutata sul campo dall’altezza di duecento metri,
i saluti delle autorità, la presentazione dei giocatori. Finalmente si
comincia. Monsù percepisce chiaramente lo stato d’animo del pubblico: i
brasiliani hanno paura (“si teme la rivalità e la durezza di gioco
dell’Uruguay”). Nel primo tempo non accade nulla. Pozzo, tuttavia, è sempre
distratto dagli umori della folla. “Mentre il gioco si svolgeva, uno spettacolo
a sé lo offriva il pubblico sempre più nervoso, deluso, ora tutto un’esplosione
di entusiasmo ora scorato, con reazioni violente contro i proprii giocatori”.
La folla accoglie in silenzio la conclusione del primo tempo, e il silenzio
perdura quando i due XI tornano in campo. Ma trascorrono solo due minuti, e il
Brasile va in rete. Pozzo descrive sbrigativamente l’azione del gol; torna
subito a guardare il Maracanã. “Avvengono sugli spalti scene indescrivibili,
episodi di parossismo, una cosa mai vista nei precedenti incontri svoltisi a
Rio”. I giocatori dell’Uruguay protestano, reclamano un fuorigioco, “il fumo
dei mortaretti che esplodono si alza sullo stadio, per un minuto circa ci
troviamo in una vera bolgia”. E’ solo a questo punto che Monsù pare
concentrarsi sulla partita. Lo colpisce, chiaramente, la reazione della
Celeste. “Qui appare la solidità morale della squadra uruguayana. A differenza
degli svedesi e degli spagnoli, essa non si accascia e scatta anzi all’attacco,
imponendo più che il suo gioco la sua maggiore freschezza”. Schiaffino
pareggia. “Ora gli uruguayani sono scatenati, essi hanno capito che
l’avversario sta barcollando, che non è più in stato di grazia e dànno come dei
colpi di piccone poderosi che scuotono la solidità dell’edificio brasiliano”.
Ghiggia segna il gol decisivo, e inevitabile. “Il pubblico tace esterrefatto”.
Un'azione d'attacco del Brasile. Sullo sfondo, l'immane folla del Maracanã |
Questa la sua cronaca a caldo. Nei giorni successivi, prima
di ripartire da Rio, Pozzo torna ad analizzare con maggiore serenità la
partita. La ‘rivede’ con gli occhi di un ex-conduttore di uomini, e riconosce
con lucidità le ragioni (psicologiche e tecniche) che hanno orientato la
contesa. Anzitutto quelle psicologiche. A squadre schierate, ricorda Monsù, il
Governatore di Rio “si rivolse alla squadra brasiliana, e disse che fra poco le
duecentomila persone presenti sarebbero scoppiate in una ovazione delirante per
celebrare il suo eroismo, che cinquanta milioni di brasiliani sparsi in tutto
il paese erano certi del suo successo e avrebbero dato luogo ad una manifestazione
patriottica dalle proporzioni e dal significato incredibili: la squadra, la
proclamò lui, massima fra le autorità politiche presenti, come vincitrice prima
che prendesse a giuocare”. In piedi e sull’attenti, i giocatori dell’Uruguay
ascoltavano a testa bassa. Sapevano già come avrebbe dovuto essere la loro
partita; la pressione era tutta e solo sul Brasile, e il loro orgoglio
(considerati sconfitti ancor prima di giocare) ulteriormente stuzzicato. Pozzo,
a questo punto, coglie in pieno il ‘senso’ della partita. “Cominciò la
battaglia e si vide subito con che razza di avversari i brasiliani avessero a
che fare. Marcatura stretta, con uno schieramento che l’ultimo sbarramento non
lo prevedeva mai: ve n’era sempre un altro, dietro all’ultimo”. Così, gli
avanti brasiliani “prendevano a cincischiare, come davanti ad analoga
situazione difensiva e distruttiva creata dalla Svizzera avevano già fatto
giorni prima”. La Seleçao non conosce soluzioni tattiche adatte a scardinare le
difese ermeticamente chiuse: “non amano la marcatura stretta”, “hanno bisogno
di spazio in cui muoversi, per sbizzarrirsi ed essere quello che sono”.
Inoltre, non appena riuscirono a passare in vantaggio, i carioca si
crogiolarono nella propria presunzione di superiorità. Erano sicuri che, a quel
punto, il match fosse in discesa, e molti altri gol sarebbero arrivati. “E si
proiettarono in avanti, spinti dal loro ideale, ma giocando allo scoperto”. E,
come si sa, furono infilati due volte negli ultimi venti minuti circa. “Senza
chiudersi in difesa disperata, v’era da controllare deliberatamente ed
inesorabilmente il giuoco a metà campo, lontani di qualche po’ dalla sempre
pericolosa propria area di rigore; ed aspettare che la vittoria fossero i
minuti che passavano, a portarla alla squadra ed al pubblico. V’era da
rinunciare al sogno della larga marcatura dalla luminosità accecante. Meglio
vincere di misura, che non vincere affatto”. Ma il Brasile, “tatticamente
cieco”, perse.
Sul Corriere dello
Sport, un corsivo di Leone Boccali ha il pregio di sottolineare –
rievocando le vittorie olimpiche del ’24 e del ’28, nonché la Coppa del mondo
del 1930 - come l’Uruguay vantasse una tradizione e un palmarès più che
rispettabili. E dunque, chi non si fosse lasciato coinvolgere dall’atmosfera di
Rio, avrebbe ben potuto prevedere come lo scontro fosse - quanto meno - alla
pari. “E il Brasile? Superato in linea agonistica, si è confermato professore
di tecnica calcistica. Ma stavolta i brasiliani avevano di fronte rivali non
inediti, che conoscevano a meraviglia le ‘finte’ prodigiose di Ademir, i
funambolismi di Jair, il ‘dribbling’ ubriacante di Zizinho, le ‘serpentine’
velocissime di Bauer”. Nelle maglie difensive della Celeste si incagliò il
“temuto e dinamitardo quintetto avanzato del Brasile”. Come scriverà Brera, i
rioplatensi “difendono la sconfitta e invitano i brasiliani a illuminarsi
d’immenso. Su ogni palla riconquistata imprimono battute efficacissime, e tutte
rigorosamente verticali. I brasiliani hanno sempre metà campo da vendere: la
loro pretenziosa accademia continua. Poi, immancabile, il misfatto”.
A proposito di tattica. Com’era schierata la Seleçao? E come
l’Uruguay? A distanza di anni, Zizinho disse che la ragione della sconfitta
andava individuata nell’adozione da parte di Flavio Costa del WM. Un modulo inedito
a quelle latitudini, e che il Brasile sperimentò solo nelle ultime quattro
partite della Coppa del mondo, abbandonando la diagonal dopo il pareggio con la Svizzera. Vincendo contro Jugoslavia, Svezia e Spagna, che adoperavano un identico assetto. Ma
l’Uruguay no, non giocava così. “L’Uurguay giocò con una linea retrocessa e
l’altra avanzatissima”, lo stesso modulo che il celebre asso “aveva visto
utilizzare in precedenza dal Carioca, una squadretta di periferia che suo padre
dirigeva a Sao Gonçalo, vicino a Niteròi”. Figuriamoci. “Il loro era un sistema
folle, ma il WM era ancora peggio, faceva schifo. Ecco perché abbiamo perso la
Coppa del mondo”. L’Uruguay, invece, aveva disposto i giocatori “in un modulo
che si avvicinava moltissimo all’1-3-3-3 di Rappan” (Wilson), variando dunque
l’impostazione delle partite precedenti, nelle quali Juan Lopez (l’allenatore
della Celeste) aveva proposto una versione del metodo brevettato da Vittorio Pozzo. Passando al verrou, e disponendo di giocatori di
maggior classe rispetto alla Svizzera, mise il Brasile in difficoltà palesemente
ancora più insormontabili di quanto non fosse riuscito agli elvetici. In
sostanza, sostiene Jonathan Wilson, sotto l’aspetto tattico i brasiliani “erano
nettamente più avanti rispetto all’Uruguay”, la cui cultura era sempre quella
dell’anteguerra. Ma la virata sul WM rese ancora più vulnerabile il fianco
sinistro della Seleçao, poiché costringeva Bigode a giocare da vero e proprio
terzino sinistro, in posizione più arretrata rispetto a quella cui era
abituato. In quello spazio, si infilava a più riprese Ghiggia, e da lì
arrivarono entrambe le giocate decisive.
2013
Mans
p.s.: virgolettati tratti da La Stampa (17 e 20 luglio 1950) e Il corriere dello sport (17 luglio 1950); da Jonathan Wilson, La piramide rovesciata; Alex Bello, Futebol; Jorge Valdano, Il sogno di Futbolandia. Immagini della partita in Cineteca.