Germania - Ungheria (4 luglio 1954)

Le cronache di Monsù
3, 5 luglio 1954

Come tutti, Pozzo riteneva che l'Ungheria fosse predestinata. Era certamente la squadra più forte del mondo. Ma in Svizzera il suo cammino fu complicato: dalla forza degli avversari incontrati nei quarti e in semifinali (e furono partite dure e dispendiose), dall'infortunio che limitò il contributo di Puskas; da un assetto difensivo 'a zona' la cui permeabilità era considerata da Monsù un fattore (l'unico) di debolezza strutturale dell'XI guidato da Sebes. Presentazione, resoconto e riflessioni a freddo sulla finale - soprattutto qui, dove fa capolino un paragone con il maracanaço -, risaltano nella 'letteratura' del vecchio alpino per totale assenza di retorica e lucidità di analisi.


Zurigo, 3 luglio.
[Precede il resoconto di Austria-Uruguay, finale per il 3° posto, che omettiamo]
Siamo così arrivati all'ultimo episodio del torneo che avrà luogo domani a Berna con la grande e attesa partita decisiva fra Ungheria e Germania. La finale di un torneo di lunga durata è sempre un grande avvenimento, chiunque vi partecipi. 
Uno sguardo critico alle prestazioni fornite dai sedici contendenti convenuti in Svizzera va riservato al momento in cui il torneo sia effettivamente giunto al suo termine. Qui siamo all'ultimo atto della rappresentazione. 
Innanzitutto, i protagonisti. Uno di essi è quello che proprio tutti si attendevano: l'Ungheria. Si pronosticava che avrebbe vinto il torneo ed è giusto che sia andata in finale: per vincerlo, doveva passare di lì. E' nel senso tecnico e tattico, in quello dell'intelligenza di gioco la miglior squadra presente al torneo. 
Nel campionato attuale comunque i magiari non hanno ancora detto la parola che sono in grado di dire, non hanno mai giocato come sanno effettivamente giocare. Essi dispongono di una dozzina o poco più di uomini di classe. Quando vengono a mancare certi elementi, è l'intero rendimento della squadra che risulta compromesso, è il gioco che cessa di svolgersi con quella fluidità, quella potenza, quella irresistibilità che sono altrimenti una sua inconfondibile caratteristica. L'undici va visto al completo, per entusiasmare. La stroncatura di Puskas subito fin dal primo incontro sostenuto ha costretto la compagine a camminare zoppicando per tutto il rimanente della competizione. Le ultime notizie danno per certa la presenza di Puskas. Se cosi sarà e se l'uomo si troverà davvero in possesso dei grandi mezzi tecnici suoi, l'undici dell'Ungheria avrà domani l'occasione di dimostrare chi sia, davanti ad un pubblico che comprende i competenti di tutto il mondo. 
La presenza della Germania nella finale costituisce la vera sorpresa del torneo. Nessuno le aveva concesso mai credito. Non era nemmeno stata considerata come 'testa di serie' negli ottavi di finale. Aveva fatto il primo passo avanti grazie alla mossa strategica di evitare la battaglia grossa coi magiari. Perché il fatto strano di questa finale è che essa riunisce due unità che, appartenendo allo stesso gruppo iniziale del torneo, già si sono incontrate. Ma allora, nella prima occasione, si trattava, dicono i tedeschi, di un'Ungheria-Germania riserve, ora si tratta di un'Ungheria-Germania vera. I due successi riportati dai germanici sugli jugoslavi e sugli austriaci nei quarti di finale e in semifinale hanno stupito tutti. Ora, viene per gli interessati la prova del fuoco. 
Le due finaliste hanno la loro forza maggiore nei settori d'attacco. Se quello dell'Ungheria è noto al mondo intero, quello della Germania, è guidato Fritz Walter, un rappresentante della generazione antica. un classico del gioco. Si dovrebbe assistere ad un incontro tutto di costruzione, colle due squadre protese a turno in avanti, a dimostrare chi meglio sappia fare, non chi meglio sappia disfare.


Berna, lunedì mattina [5 luglio].
Incredibile ma vero. Nella finale del campionato del mondo l'Ungheria ha piegato il ginocchio davanti alla Germania. E il risultato non è stato viziato da alcuna irregolarità. Si può dire quello che si vuole: che l'undici perdente ha fatto maturare maggiori e migliori occasioni da rete di quello vincente, che Kocsis e compagni sono stati più brillanti dei loro avversari individualmente, che il maltempo non ha favorito lo sviluppo della migliore tecnica. Ma da una constatazione non si scappa: la vittoria dei tedeschi ha in se tutti i crismi della regolarità e può essere considerata senz'altro come meritata. Esseri umani come tutti gli altri, i magiari hanno ceduto alla fatica degli ostacoli che hanno dovuto superare per giungere fino alla finale. 
Come possono fare i calciatori di ogni altro Paese, essi hanno commesso errori, e nel formare la squadra che hanno mandato in campo e nel condurre il gioco come lo hanno condotto. Un errore si è dimostrato alla prova pratica l'inclusione di Puskas, non completamente guarito e a corto di fiato e di energia, un errore della formazione; e un errore è stato quello schieramento difensivo per cui nessuno degli attaccanti tedeschi era mai marcato con precisione e severità. 
La squadra nazionale della Germania ha sorpreso il mondo calcistico prima ancora che col risultato che ha realizzato, col comportamento che ha tenuto. Una squadra sana, positiva, seria, una squadra dove ognuno dei componenti fa il suo dovere severamente e adempie al suo compito alla militare, si può dire. Un undici molto più fresco e molto più in forze — e questo è stato uno dei fattori dominanti — di quello ungherese. Un'unità dove la fantasia non fa molto notare la sua presenza, ma dove ogni cosa che avvenga pare seguire un binario. 
Una compagine che nel suo funzionamento pare un apparecchio meccanico. Sotto parecchi e svariati punti di vista, la più convincente, la migliore rappresentanza calcistica del suoi colori che la Germania abbia mandato in campo nei 54 anni della sua storia. 
L'acqua cadeva fitta e insistente fin dalle prime ore del pomeriggio. Non v'è da meravigliarsi: la pioggia rappresenta il fenomeno più costante dei volubili tempi in cui viviamo. Non doveva concedere tregua ai giocatori e agli spettatori nemmeno un istante in tutta la partita. Poca meraviglia che qualche spazio vuoto si notasse nel vasto recinto. I presenti si possono calcolare in circa 60 mila. La metà circa di essi erano tedeschi, che non dovevano cessare in nessun momento di incitare la loro squadra. La quale era in tutto uguale, in quanto a formazione, a quella che aveva eliminato gli austriaci nelle semifinali. Stupiva invece nell'undici ungherese la inversione di posizione delle due ali, Czibor a destra e Toth I a sinistra. Da grandi applausi veniva accolto l'annuncio della presenza di Puskas. 

Il vantaggio magiaro, siglato da Puskas
Le battute iniziali della partita parvero preannunciare la ripetizione di quanto gtà avvenuto in precedenti occasioni. Dopo appena otto minuti di gioco, gli ungheresi già si trovavano in vantaggio per due reti a zero. Al sesto minuto la mezz'ala destra Kocsis, ben lanciato da Lorant, avanza e spara: il tiro colpisce un difensore, e sul terreno slittante la palla viene deviata verso sinistra, dove Puskas interviene e sospinge in rete senza incontrare resistenza. Due minuti dopo il terzino sinistro Kohlmeyer non riesce a fermare Kocsis nuovamente entrato in area. Il portiere Turek esce, scivola e respinge malamente: arriva Czibor e sospinge in rete. 
E' qui che emerge subito il modo pratico di operare dei tedeschi. Lungi dallo scoraggiarsi per lo svantaggio iniziale, essi prendono a condurre offensive su offensive, smarcandosi e non tenendosi la palla un istante più del necessario. Nello spazio di due minuti essi riducono la distanza. L'ala sinistra Schaefer giunge fin sulla linea di fondo e poi centra forte e basso. La palla slitta sull'erba bagnata e uomini dell'una e dell'altra parte scivolano e la mancano. Il solo a non sbagliare è la mezz'ala destra Morlock, che da due passi la devia in rete. Tre palloni messi a segno nello spazio di quattro minuti, due da una parte e uno dall'altra. Ma non è finito. Al 18° minuto, sul secondo di due consecutivi calci d'angolo che i tedeschi hanno ottenuto, la scena si ripete identica. 

Rahn annulla la partenza ad handicap: da 0:2 a 2:2
Provenendo da sinistra, la palla traversa l'intera area della porta magiara senza trovare un piede che la devii o che la respinga: finché giunge l'ala destra Rahn che tira basso diagonalmente e tra la confusione generale infila il lontano angolo della rete. Due a due. Tutto quello che è stato fatto fino a quel momento risulta annullato. Dopo tutto, delle quattro reti segnate la colpa principale può essere attribuita alle condizioni del clima e del terreno. Occorre ricominciare. E si ricomincia in modo da far salire notevolmente il tono del gioco, in modo da entusiasmare gli spettatori, senza concludere nulla però. Alla metà tempo si è ancora sul due a due. 

Nella ripresa Czibor ritorna al suo posto sulla sinistra e Toth al suo sulla destra e i magiari producono il loro sforzo più notevole. Se non segnano in quel periodo è proprio perché manca loro la freschezza fisica. Prima Puskas, poi Kocsis sfondano e da pochi passi sparano direttamente sul portiere. Quindi la mezz'ala destra Kocsis, con uno dei suoi colpi di testa eccezionali, colpisce per mera sfortuna la traversa. Infine Czibor mette a lato da ottima posizione 
Si avvicina la fine e già ai giuocatori si presenta lo spettro dei tempi supplementari e agli spettatori si profila in lontananza la possibilità che l'incontro si ripeta sullo stesso campo mercoledì prossimo. Mancano cinque minuti al termine regolamentare e gli ungheresi, come per prendere flato — pare proprio che non ne abbiano più tanto a disposizione — rallentano lo sforzo. E' in quel momento che piomba loro fra capo e collo la botta che li abbatte. Gli attaccanti germanici manovrano come un piccolo plotone in piazza d'armi, ripetendo gli stessi temi e mettendo sempre in grande imbarazzo i difensori avversari. 
A un dato punto si fa avanti l'ala sinistra Shaefer e centra forte. Il terzino sinistro Lantos respinge corto. Entra in possesso la mezz'ala Morlock e passa indietro all'ala destra Rahn, il quale si è portato esattamente in posizione di centro e se ne sta tutto libero ad attendere. Rahn ha l'orizzonte chiuso, si sposta e manovra per trovare uno spiraglio. E lo trova, e così da lontano com'è lo infila con un tiro basso a filo del montante sulla destra del portiere Grosics. Il quale, con la visuale coperta da due avversari, non ha veduto la palla in partenza e non può che accennare a un gesto che più che di parata è di dispetto. Una rete storica, una rete che regala un campionato del mondo. 
I magiari restano come intontiti. Si scagliano rabbiosi in avanti e subito Puskas con un tiro basso e diagonale dalla sinistra verso la destra batte il portiere Turek. Il grido di gioia dei danubiani si trasforma in gesto di rassegnazione, nel vedere l'arbitro che punta il dito e annulla per fuori giuoco del suo autore. Ancora Czibor travolge tutto sulla destra e si presenta solo davanti al portiere. Potrebbe segnare con un tocco leggero — e allora tutto sarebbe stato nuovamente da rifare — e invece spara forte e alto e il portiere respinge lontano a pugni chiusi. E cosi tutto è finito. Perché nei due ultimi minuti i germanici menano il can per l'aia e giocherellano in attesa del fischio finale, precisamente come avevano fatto, quando erano in buone condizioni fisiche e in serenità d'animo, i loro avversari d'oggi contro il Brasile prima e contro l'Uruguay dopo. 

E' finita. E' caduta, stroncata dallo sforzo di tre durissime gare consecutive — tre vere finali — una grande squadra, una squadra che non conosceva sconfitte da 36 partite e da quattro anni. Ha perso, questa squadra, un incontro che in condizioni normali non avrebbe perduto mai. In una gara in cui la parte di protagonisti l'hanno fatta i due attacchi, a decidere definitivamente del risultato è stata una difesa che giuoca sciolta, che pratica una marcatura a 'zona'.

Desterà scalpore questa finale del campionato. 


Berna, 5 luglio.
La storia ama ripetersi. Anche nelle vicende del gioco del calcio. E' successo, qui a Berna, lo stesso fatto ch'era avvenuto a Rio de Janeiro quattro anni fa. In quell'occasione l'undici migliore di tutti era quello del Brasile. Qui la squadra superiore all'intero lotto dei presenti era quella dell'Ungheria. L'uno e l'altra sono giunti fino a un passo, un soffio dalla vittoria: e proprio sul traguardo sono crollati. Le due finali hanno avuto uguali vicissitudini a distanza d'anni, identico andamento, medesimo risultato. La unica differenza consiste nei motivi del crollo di chi doveva vincere. A Rio la causa è stata di natura profondamente psicologica. A Berna la ragione è stata invece del tipo fisico. Le grandi competizioni sportive — particolarmente quelle della palla rotonda — sono irte di aspetti e di motivi umani. Appunto perché i protagonisti sono uomini di carne ed ossa, non degli esseri superiori come certe esagerazioni vorrebbero far credere. La risposta al divismo la danno i fatti. 
Anche la situazione tecnica e morale delle due grandi competizioni è stata la medesima. Il Brasile in casa propria nel 1950, l'Ungheria in Svizzera quest'anno hanno perso un'occasione d'oro per assicurarsi il titolo di campione del mondo. Un'occasione che forse non si ripresenterà loro mai più.
Quattro anni fa i brasiliani disponevano di una compagine d'eccezione, specialmente per quanto riguarda l'attacco. Mancava di organizzazione, ma era grande. Nessuno si avvicinava al suo livello, nessuno era capace di fare quello che essa con naturalezza e facilità faceva. Perse per non avere avuto dalla sua la modestia, commise lo errore psicologico di credere di avere vinto prima che lo sforzo fosse finito e il traguardo raggiunto. 
Qui in Svizzera l'undici ungherese superava — e supera tuttora — della testa e delle spalle ogni altro contendente. Anch'essa una squadra d'attacco, non temeva confronti con nessuno in campo tecnico e in fatto di versatilità. Ma era un undici, non un quindici, né un quattordici e forse nemmeno un tredici. La sorte la toccò nel suo punto debole, proprio all'inizio della tenzone, privandola di una delle sue pedine più valide. Non disponendo di sostituti di uguale levatura dei titolari, rimediò come poté alla disavventura occorsale, e per garantirsi da sorprese, esaurì ogni altro elemento con la continuità dello sforzo. Nel corso del quale non ebbe la fortuna dalla sua. Perché la sorte si sbizzarrì a disseminare sulla sua strada i concorrenti più temibili. Giunse alla tappa conclusiva che era spossata, nervosa, rotta dalla fatica. 
E al cospetto d'un avversario che era l'immagine stessa dell'efficienza fisica, anche perché di sforzi immani fino a quel momento non ne aveva sostenuti, crollò. Lo sportivo che debba veder incespicare e cadere proprio a un passo dalla agognata meta l'atleta o il gruppo di atleti che si sia dimostrato il migliore nel corso di una lunga tenzone, non può non riportarne un senso di ingiustizia, non può non dolersi in cuor suo. Sono le piccole tragedie dello sport. 
In questo senso è stato accolto dal pubblico neutrale l'esito della finale di Berna. Un senso di rispetto e quasi di solidarietà morale con chi per vincere aveva dato tutto e non tutto ottenuto. Lo si vide subito fin dalle prime battute che l'undici magiaro non rispondeva fisicamente alle necessità e alle sollecitazioni dell'evento. A pochi minuti dall'inizio Czibor, la cui presenza alla destra invece che alla sinistra dell'attacco non si spiegava che come un accorgimento temporaneo, impegnò una schermaglia col suo diretto avversario e poi tentò una fuga isolata: risultò battuto in velocità, lui, il velocista della compagnia. Poco dopo Kocsis, saltando fra un groviglio di uomini, non riusci a salire più alto degli altri, come se facesse fatica a staccarsi da terra: proprio lui, lo specialista del gioco di testa. Era un indice delle condizioni fisiche degli uomini. Il massimo degli sforzi loro non otteneva che un risultato modesto. L'undici aveva nelle gambe le conseguenze dei duri tempi supplementari del mercoledì precedente. Il preciso effetto di cui aveva dimostrato di risentire l'Uruguay il giorno prima. Per entrare in finale, sud-americani e magiari si erano ridotti tutti e due sulle ginocchia. E finirono per perdere gli uni il terzo e gli altri il primo posto. 
Fu in simili condizioni che vennero alla luce, come mai fino a quel momento, i difetti di impostazione tattica del lavoro della difesa ungherese. Praticavano la 'difesa di zona', gli uomini delle linee arretrate, e pareva di vedere all'opera i difensori della Juventus nelle giornate in cui avversari di qualità inferiore gli procacciavano grattacapi su grattacapi. Aspettavano che gli oppositori fossero in possesso della palla e prendessero l'iniziativa, e poi, in condizioni di netta inferiorità, li affrontavano. 
E questi avversari erano tutt'altro che di qualità inferiore nell'occasione. Nello stile di corsa, nel trattamento della palla, nei duelli con gli ungheresi essi dimostravano una scuola. Parevano tutti modellati sullo stesso stampo. La loro divisa era in difesa quella della marcatura stretta e severa e in attacco quella del non tenere la palla un istante più del necessario, e dello smarcarsi continuo e immediato. Questo unito a una vigoria fisica eccezionale e a una ripartizione dei compiti esemplare. Quella tedesca è una squadra che è cresciuta di statura cammin facendo. Entrata nel torneo senza grandi pretese, due inattesi successi le hanno messo le ali ai piedi. La sua presenza in finale è la condanna degli originali sistemi di selezione della F.I.F.A., il suo comportamento tecnico è la prova dei risultati che si possono ottenere con la serietà e la costanza, la sua vittoria è un premio al valore tecnico espresso in linee semplici ed efficaci.