Inghilterra - Ungheria (25 novembre 1953)

Le cronache di Monsù
26-27 novembre 1953

Con emozione nell'immediato dopo partita, non senza ironia a mente fredda, Pozzo racconta il match del secolo e riflette sul crollo (non solo di immagine) del calcio inglese, sull'arretratezza della sua cultura, sull'inadeguatezza del 'sistema' di fronte alla più evoluta delle esperienze continentali.

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Londra, 25 novembre.
Gli appassionati di quel gran gioco che è il calcio, gli sportivi tutti possono prendere nota della data del 25 novembre 1953, debbono sottolinearla, hanno il dovere di non dimenticarla. Anche se, per loro disavventura, non sono stati presenti allo stadio di Wembley. Si tratta di una data che è destinata a fare epoca nello sport della palla rotonda. I maestri, gli inventori del moderno gioco del calcio, sono caduti, dopo mezzo secolo, per mano di uno dei loro allievi, di quello fra essi che è il più evoluto del momento.

Tecnica e velocità
Sono caduti in modo che non ammette discussioni, in modo anzi che più convincente di così non potrebbe essere. Sono stati battuti nel risultato e nel gioco, nel secondo più ancora che nel primo. Sono stati battuti in velocità, in resistenza fisica, in tecnica, in tattica, colla palla a terra e colla palla in aria, in senso di smarcamento, in arte di tiro, in lavoro costruttivo, in lavoro difensivo, anche in classe dei singoli uomini: in tutto, insomma.
L'ambiente e il riguardo verso chi aveva offerto ospitalità non permettevano esplosioni di gioia rumorose o clamorose, ma certi sorrisi e le strette di mano innumerevoli, dicevano tutto. L'Ungheria, riuscendo dove avevano fallito una decina e mezzo di altre nazioni, aveva giocato per il continente; lo aveva quasi vendicato, diremmo, se non temessimo di esagerare. Non era la gioia per la disgrazia altrui, era la soddisfazione per il raggiungimento di un traguardo a cui tutti assieme da tanto tempo si aspirava.
La squadra nazionale inglese non ha ceduto senza opporre resistenza. Ha combattuto secondo la sua tradizione. Ma, malgrado tutto, l'evento ha avuto svolgimento normale e regolare. Si è capito subito quale era la squadra migliore, si è visto immediatamente da quale parte stava l'efficienza, si è intuito fin dalle prime battute, senza possibilità di errori, a chi sarebbe spettata la vittoria finale. La resistenza dell'Inghilterra non ha fatto che gettare un gran fascio di luce sulle virtù dell'Ungheria. A tracciare In stile tennistico la strada che ha percorso il risultato per giungere dove è giunto bisogna ricostruire nel seguente modo le vicissitudini della gara: 1-0 per l'Ungheria, poi 1-1; 2-1; 3-1; 4-1; 4-2 a metà tempo; quindi 5-2; 6-2; 6-3 per un rigore. Finale che taglia la testa al toro, finale davanti al quale non c'è che da inchinarsi.Erano presenti più di cento mila persone, di cui più di 98 mila paganti. C'era sole, non nebbia, e la visibilità era buona e il campo ottimo. Come per dichiarare perentoriamente e immediatamente quali fossero le sue intenzioni, l'Ungheria ha segnato subito, fin dal primo minuto. Un'avanzata sulla sinistra, una breve schermaglia quasi sul limite centrale dell'area di rigore inglese, e di colpo il centravanti Hidegkuti rompeva gl'indugi, tagliava corto e sparava. Il tiro era un capolavoro di precisione. Alto, preciso, forte, leggermente tagliato, puntava diritto verso il lontano angolo della rete sulla destra del portiere e quell'angolo infilava inesorabilmente. La facilità del tiro è stata impressionante. E subito, a conferma che non si tratta di cosa casuale, la mezz'ala destra Kocsis, quello che passava per gravemente invalido, manca per pochi centimetri una splendida occasione e Hidegkuti segna e l'arbitro annulla per fuori gioco.
Il silenzio del pubblico
Allora l'Inghilterra, come se avesse capito con chi ha da fare, come se avesse compreso quale è la musica che si suona nella giornata, si risveglia, prende a lottare, cerca di portare il combattimento sul piano della robustezza fisica e dà per qualche poco l'impressione di poter ristabilire l'equilibrio della situazione. Riesce a colmare lo svantaggio del punteggio e nulla più. Al 16', Mortensen lancia Sewell con un bel passaggio in profondità, la mezz'ala sinistra avanza, tira In corsa e spedisce nell'angolo basso della rete sulla sinistra del portiere.
Non passano cinque minuti che i magiari vanno nuovamente In vantaggio. Su una nuova avanzata del settore sinistro del loro attacco, sono due gli avanti che piombano decisamente e contemporaneamente sulla palla per ricevere il centro. Kocsis precede il compagno suo di una frazione di secondo e segna da pochi passi. Cinque minuti più tardi Puskas avanza sulla destra, punta diritto davanti a sé, sfonda tutto, arriva a due passi dal portiere, finge di tirare di destro, gira invece su se stesso e infila di sinistro: 3-1. Passano altri tre minuti scarsi e l'Ungheria beneficia di un calcio di punizione poco fuori dell'area di rigore inglese. Tira Kocsis, la palla colpisce involontariamente il piede di Puskas e devia imparabilmente in rete. Qui, In questo ultimo episodio cioè, la fortuna ci ha messo lo zampino e ha dato agli ospiti un aiuto di cui essi dimostrano di non avere affatto bisogno.
Si profila una catastrofe dei padroni di casa. Il pubblico è piombato nel silenzio assoluto. Il linguaggio dei fatti ha parlato a questa folla d'intenditori in modo cosi chiaro e convincente da farla ammutolire. Accenna appena, questo pubblico, a un movimento di risveglio, quando, a cinque minuti dal riposo di metà tempo, Mortensen, approfittando di uno scivolone casuale di Buzanski, riesce a diminuire la distanza: 4-2 all'intervallo. E' l'atteso evento che sta per verificarsi. I centomila presenti lo hanno capito.
Si passa al secondo tempo e si ha subito la conferma che l'evento stesso può considerarsi come già giunto alla scadenza. All'8° minuto un energico attacco ungherese ingenera un attimo di confusione nell'area di rigore inglese. Mentre quattro o cinque uomini si guardano attorno alla ricerca della palla che pare scomparsa, questa rimbalza fuori area, capita nei piedi dell'accorrente Bozsik; questi ferma, prende la mira e spedisce nell'angolo lontano. Come nel tiro a segno. E Budai II completa l'opera quattro minuti più tardi. Il lavoro e l'intelligenza dell'azione che porta a questo conclusivo successo dei magiari sono tutti di Puskas: l'ala destra non ha che da intervenire in corsa, colpire al volo e segnare. Il gioco è fatto. Non lo varia il punto che il terzino Ramsey ottiene su calcio di rigore al quarto d'ora, quando il portiere ungherese, gettatosi in tuffo, trattiene per le gambe l'ala sinistra Robb. 
L'ultima mezz'ora più non avrà storia. Dal 6 a 3 non ci si muoverà. E particolari di nessuna importanza paiono il cambio del portiere che i magiari effettuano a dieci minuti dal termine, sostituendo Grosics con Geller, e la magnifica parata che Merrick eseguisce su uno splendido tiro di Hidegkuti. L'importante è che quello che doveva avvenire è avvenuto. L'emozione è giustificata.Il crollo è stato Impressionante. La narrazione Indispensabile di quegli episodi capitali che sono i punti segnati - la bellezza di nove in totale, su 90 minuti di gioco - toglie per questa sera e spazio e tempo a considerazioni di carattere tecnico e generico. La squadra nazionale ungherese, quella stessa che ci aveva Inflitto la lezione di Roma verso il termine della stagione scorsa, ha compiuto il suo capolavoro con una partita che non verrà dimenticata da coloro che hanno avuto la fortuna di assistervi. Quel complesso di uomini che da quattro anni gira i campi d'Europa nella stessa formazione, che gioca ad occhi chiusi, che funziona come una macchina ben congegnata e ben oleata, non poteva ottenere premio migliore e più risonante per le sue prodezze. 
Filosoficamente, diplomaticamente, gl'inglesi hanno accettato la sconfitta. Il che non vuol dire che la digeriscano con facilità. L'avvenimento avrà come conseguenza una piccola rivoluzione nel mondo tecnico del calcio britannico. E' cosa facile da prevedere per chi ha visto gli umori dei presenti. Ha fatto aprire gli occhi. I maestri avevano da tempo dimenticato gli insegnamenti che essi avevano impartito ai loro allievi. Questi hanno rinfrescato loro la memoria. "Ne avevamo bisogno", ha detto un tecnico dalla mente aperta come Wittaker, il direttore dell'Arsenal di Londra, scuotendo il capo che ha visto tante tempeste. Dopo mezzo secolo, è caduto il gigante, è crollato il primato più famoso del mondo. Tributiamo i dovuti onori a chi ha vinto; mettiamoci, da buoni sportivi, sull'attenti di fronte a chi è caduto.


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Londra, 26 novembre

Tutti i proverbi relativi alla caducità nelle umane cose, tornavano alla memoria ieri notte nel viaggio di ritorno da Wembley al centro di Londra, viaggio diventato lungo, eterno per la nebbia che era scesa fitta e improvvisa poco dopo l'incontro e che costringeva l'automobile che ci portava a camminare a passo d'uomo. Non c'è nulla di immortale nella vita, non c'è nessuno imbattibile nello sport. Anche la nebbia cessò nelle vicinanze di Regent Street e di Piccadilly: aveva raggiunto essa pure il suo limite.
E' andato a terra un titano. E' andato a terra perché, pur nelle proporzioni smisurate che il suo fisico aveva preso, pur con il passato immenso su cui si reggeva, era un uomo, come gli altri.

Il colosso caduto

Il colosso si è portato bene al cospetto di quella sconfitta, di quell'aspetto negativo e increscevole delle competizioni sportive che fino ad allora non conosceva che di vista. Si è alzato, ha stretto la mano a chi lo aveva buttato giù, lo ha complimentato — nelle dichiarazioni ufficiali come sui giornali —, poi si è ritirato nei suoi reali appartamenti, palpandosi le costole ammaccate e la spina dorsale indolenzita. L'inglese è troppo sportivo per non comportarsi in simile modo, tiene troppo alla forma: vuole dimostrare che sa perdere come sa vincere. Il che non vuol dire che non pensi ai casi suoi. Ha cominciato subito a pensarci e, per trovare i motivi del rovescio, ha rifatto e sta rifacendo l'analisi della partita. Questione che questa analisi è tanto semplice e rapida nei suoi elementi, quanto è greve e complessa nelle risultanze. Gli elementi, da qualunque parte li si prenda, dicono tutti la stessa cosa, gli inglesi essendo stati superati dai magiari in ogni aspetto e in ogni sostanza del gioco.
La somma delle risultanze dice invece che il problema è vasto e comprensivo e che esso coinvolge certo modo di vivere del calcio britannico tutto. Non c'è nulla di più esatto e significativo della qualifica di "rappresentativa" che si attribuisce alla squadra nazionale di un Paese. Essa, salvo casi speciali e ben determinati, riflette sempre la situazione da cui deriva. E' una esperienza che hanno fatto un po' tutti i Paesi.
C'è un aspetto dell'avvenimento che avrebbe potuto avere un carattere politico, e che invece non lo ha avuto, un aspetto di cui la situazione va sfrondata subito. Che sia stata per la prima volta proprio la nazionale di un Paese d'oltre cortina ad umiliarli in campo calcistico, è cosa che certamente non ha fatto piacere agli inglesi. Ma nessuno ne ha fatto cenno. Ognuno ha tenuto per sè la gioia o il disappunto che anche per questo lato la cosa ha potuto provocare. L'interesse della questione è quindi tutto ed esclusivamente sportivo. Ed esso riguarda gli inglesi più che gli ungheresi, concerne le deduzioni dell'incontro più che l'incontro stesso. 
Degli ungheresi e della levatura a cui il loro calcio era assurta, noi continentali già sapevamo tutto. Non per nulla si era corsi in tanti fin quassù. Qui si parrà la loro "nobilitate", si era detto conoscendo che erano in grado di affrontare apertamente, francamente l'impresa. A Wembley essi si sono portati come noi li abbiamo visti portarsi altre volte, forse un po' meglio, certo ancora con un margine da far supporre, che un po' più in alto ancora essi possano, sotto il pungolo delle circostanze, salire. La clamorosa vittoria riportata ha un nesso diretto e logico con il loro passato recente. E' una tappa di una lunga marcia. Ha il valore di una conferma.
Questo per noi, naturalmente. Per gli inglesi, no. L'inglese è nello sport in genere, nel calcio in ispecie, un po' quello che è nella vita civile, normale. Non ama le lingue estere, non le capisce, non vi si dedica. E' questo un concetto che già altre volte abbiamo espresso. Di fronte a chi parla sul campo la lingua sua, ragiona, davanti a chi escogita nel gioco idee e ritrovati nuovi, al cospetto di chi dice cose inedite o non consacrate dalla storia o dalla pratica, aggrotta le ciglia e ha bisogno di spiegazione. Wembley, l'altro giorno, glie ne ha appunto data una, di queste spiegazioni. Appunto per le tendenze tradizionali, ataviche diremmo quasi, di chi lo pratica, il calcio inglese è cosa stereotipata, meccanica. Nelle linee direttive e nei particolari del gioco le sue squadre di calcio si rassomigliano tutte, pronte tutte a copiare su uno stesso stampo. Si gioca a Manchester come a Londra, a Portsmouth come a Newcastle. Non appena un argomento nuovo compare all'orizzonte, tutte lo copiano, tutte lo adottano. Tutti ragionano così sulla stessa falsariga, per cui, quando ognuno di essi incontra qualcuno che segue altra linea, si ferma interdetto. A consolazione dei latini si potrebbe dire che si tratta degli inconvenienti della vita troppo ordinata, del rovescio della medaglia della disciplina. 
A noi italiani non succederebbe mai di cadere dalle nuvole perché ci imbattiamo in qualcuno che fa l'opposto di quello che dovrebbe fare. Il 'sistema', portando concetti di matematica nel gioco, ha recato il suo contributo alla creazione di questo stato di cose nel calcio inglese. Abbiamo sentito con le nostre orecchie una autorità del calcio britannico ripetere ieri sera che l'assenza di un uomo come Herbert Chapman, il direttore dell'Arsenal e inventore del 'sistema', la si sente in modo grave ora nell'ambiente. "Perché?", gli è stato domandato. "Perchè con la sua intelligenza egli avrebbe capito gli inconvenienti della via su cui ci siamo messi, e con la sua inventiva avrebbe escogitato e lanciato qualche cosa di nuovo che ci avrebbe indirizzati diversamente".

Studiare le lingue

Effettivamente è successo a Wembley che nel lavoro della squadra inglese si leggesse come in un libro aperto. Quando un mediano od un attaccante aveva la palla, l'impostazione dell'azione era chiara, palese, ovvia. In campo opposto, invece, quando Puskas o Hidegkuti prendevano l'iniziativa, mai si poteva capire in precedenza cosa diavolo potesse succedere: le possibilità erano sempre diverse, e le idee che non aveva chi avanzava con la palla erano i compagni liberi a suggerirle. Cosi avvenne per l'ultima rete della giornata, quando Hidegkuti partì come una freccia, all'ala destra e ognuno, noi compresi, credette che fosse stato non lui ma il suo compagno Budai a segnare. Nel primo tempo, quando Puskas, mezz'ala sinistra, segnò dalla posizione di mezz'ala destra, dopo di aver ricevuto la palla dall'ala sinistra Csibor, che si era portato all'ala destra, la confusione regnava sovrana nella difesa inglese. La confusione, assieme al disappunto e allo stupore. Mancava soltanto più che uno dei giocatori inglesi reclamasse gridando: "Non vale, non è conforme ai dogmi. In Inghilterra la circolazione deve avvenire a sinistra". Questione di psicologia. 
Era la situazione che si era verificata un mese prima, sullo stesso terreno, nell'incontro dell'Inghilterra col resto d'Europa, al momento in cui Boniperti e compagni avevano preso ad eseguire la danza dei cambiamenti di posizione, e la difesa inglese, messa di fronte ad un compito opposto a quello che aveva imparato a scuola, aveva cominciato a "ballare" come una nave in tempesta. Poteva, doveva già crollare allora, il grande titolo di imbattibilità. Come il fatto è avvenuto ora, è più clamoroso e convincente. Non dà luogo alla minima discussione. 
Il calcio inglese si risolleverà dal duro colpo che ha subito. Ha i mezzi a disposizione. Ma ci vorrà qualche tempo. Per farlo dovrà cambiare strada, ammettere che c'è del buono e dell'utile anche in temperamenti diversi dal suo. Dovrà studiare le lingue.