Stumpf: il rumore sordo del tiro e il gol. È così che ho conosciuto Gianni Rivera, l'autore di quella rete. Era una domenica di primavera della stagione 1961-62. Seduto vicino a mio padre sulle gradinate di cemento di San Siro, assistevo alla mia prima partita di calcio dal vivo: Milan-Mantova. Al 29° del primo tempo, più o meno all'altezza del dischetto del rigore, il pallone color cuoio che rimbalza, una mezza girata al volo e quel suono del tutto nuovo per me, destinato a conficcarsi nella mia mente in modo indelebile.
Cose che capitano. Anche il poeta Giovanni Raboni teneva tra i ricordi più cari lo stumpf di un colpo di testa di Angelillo. Comunque, sarà che non avevo ancora sei anni, sarà stata la suggestione, sarà per chissà che, resta che quello fu il mio imprinting calcistico. E in quanto tale decisivo e definitivo. Nel senso che da allora Rivera e il calcio furono per me la stessa cosa. Un binomio che ha accompagnato per tutta l'infanzia, l'adolescenza e la prima giovinezza non solo me, ma almeno un paio di generazioni di appassionati.
Al di là dei ricordi personali, avete idea di chi è stato Rivera? Il golden boy del calcio mondiale, come lo definì la stampa inglese, un predestinato, un fenomeno. Quando, il 22 maggio 1963, al termine di Milan-Benfica salì fino al palco reale di Wembley avvolto in uno strano impermeabile, non aveva ancora vent'anni e avrebbe anche potuto smettere di giocare, tanto aveva già fatto tutto. Sì, perché Gianni Rivera ha giocato la prima partita in serie A a 16 anni non ancora compiuti con i capelli a spazzola e la maglia grigia dell'Alessandria; a 17 anni è passato al Milan, a 18 ha vinto lo scudetto, esordito in nazionale e giocato il primo dei suoi quattro Mondiali; a soli 19 anni, vinceva la Coppa dei Campioni e veniva giudicato il secondo miglior calciatore europeo dopo il leggendario Lev Jašin.
Per fortuna invece Rivera non smise di giocare nel 1963, ma ha continuato a tenere compagnia agli italiani con mille vittorie, mille sconfitte, mille episodi, mille polemiche. E allora vai con la disfatta della Corea ai Mondiali del '66, il favoloso biennio '68-'69 con il Milan di paròn Rocco, scudetto, Coppa delle Coppe, Coppa dei Campioni, Coppa Intercontinentale e Pallone d'oro, Mexico '70 e la staffetta con Mazzola, i famosi sei minuti nella finale contro il Brasile, e poi le polemiche con Lo Bello, gli arbitri, i giornalisti, ancora avanti fino al campionato 1978-79, quello della stella milanista.
Un campione tanto amato e tanto discusso. La definizione di Brera ('abatino') lo perseguitò per tutta la carriera. In effetti quando esordì nell'Alessandria era già iperdotato dal punto di vista tecnico, ma con il fisico ancora da ragazzino. Tanto è vero che la Juventus rifiutò di acquistarlo perché troppo gracile. E anche con il passare degli anni non è mai diventato un muscolare. Poi dicevano che non correva, non lottava. Accusa in parte vera. Quante volte, superato da un avversario, lui restava lì fermo a guardarlo, senza neanche immaginare di inseguirlo, con un atteggiamento tra il regale e il distaccato, quasi volesse dire: “non è compito mio”, tanto sapeva che ci avrebbero pensato Trapattoni, Lodetti o chi per loro a corrergli dietro.
Rivera era nato per fare altre cose in campo. Intanto toccava la palla nello stesso modo in cui ogni uomo dovrebbe saper toccare una donna: la sfiorava, la accarezzava, la titillava e poi tac, quei suoi passaggi smarcanti che lasciavano sbalorditi tutti. A cominciare dagli attaccanti che ricevevano quei palloni dosati, perfetti, né troppo avanti né troppo indietro, già pronti per essere calciati in rete. Aveva il dono sublime di capire un attimo prima degli altri come si sarebbero mossi compagni e avversari e quindi come si sarebbe sviluppata l'azione. Anche per questo spesso poi non esultava neanche quando grazie a un suo assist veniva segnato un gol. Per lui era solo un deja vu. Inutile girarci intorno: calcisticamente parlando, Rivera aveva un'intelligenza superiore.
Gli anni correvano e un brutto giorno, il 13 maggio 1979, Rivera giocò la sua ultima partita ufficiale all'Olimpico contro la Lazio, ma la cosa, almeno ai miei occhi, passò quasi inosservata. Era l'anno della stella, il tanto agognato decimo scudetto milanista, c'era aria di festa, stava arrivando l'estate e poi uno non pensa mai a certe cose. Poi a settembre ricominciò il campionato e allora sì che fu un colpo durissimo. Sentivo che mancava qualcosa. Una sensazione strana, amara, da sera del dì di festa. Come se all'improvviso avessero deciso di giocare le partite senza pallone. Un'assurdità. Non avevo mai immaginato che un giorno ci sarebbe stato il calcio senza Gianni Rivera ed ero del tutto impreparato a un'eventualità del genere. Probabilmente avvertivo che con il ritiro di Rivera era finito anche per me il tempo lungo della giovinezza, quello dei pomeriggi interminabili e delle estati senza fine. Niente sarebbe stato più come prima, nel calcio come nella vita.
Da allora il tempo è diventato breve e si è messo a correre. Appese le scarpe al chiodo, Rivera ha fatto prima il dirigente di un Milan piccolo piccolo, poi si è dato alla politica. Niente di memorabile. Come le cose che dice quando vanno a intervistarlo. Ma non è colpa sua, è colpa mia. Non ho mai accettato il fatto che abbia smesso di giocare. Il suo ritiro per me resterà sempre una ferita insanabile e la prova inconfutabile che questo è uno sporco mondaccio.
Ormai, per chi ha meno di 40 anni, quello di Rivera è un nome lontano, come lo erano per me quelli di Meazza o Valentino Mazzola. Quando Gullit arrivò al Milan gli chiesero cosa provasse a indossare la maglia numero dieci che era stata quella di Rivera e lui rispose: “Chi è Rivera?”. Bella domanda. Beh, per me Rivera è sempre quello stumpf che non ho mai dimenticato. È la mano di mio padre che mi porta per la prima volta allo stadio. È un colpo di tacco. È il gol del 4 a 3 contro la Germania. È la domenica pomeriggio ad aspettare “Tutto il calcio minuto per minuto”. È l'assist a Prati nella finale del '69 contro l'Ajax. È la “fatal Verona” del '73. È il mistero e l'emozione del calcio. È un sacco di altre cose che stanno tra il cielo e la terra.
Per tutti Gianni Rivera è un signore con un sacco di capelli bianchi in testa, nato ad Alessandria il 18 agosto del 1943.
Auguri golden boy!
Kalz