di Aldo Quaglierini
Francisco "Chamaco" Valdés |
È una specie di confessione la sua, rivolta idealmente a Pablo Neruda, il grande poeta cileno morto alcuni giorni dopo il golpe di Pinochet, il cui funerale divenne un modo per protestare pubblicamente contro l'esercito, non avendo i soldati il coraggio di intervenire e reprimere l'omaggio pubblico ad una personalità letteraria di grandezza mondiale (premio nobel nel ‘71) come quella. Una confessione, sì, perché l'allora capitano della nazionale cilena, Francisco Valdes, ammette la propria debolezza, la codardia (così la chiama) che gli impedì di ribellarsi all'offerta che gli venne presentata in quelle ore, in quei giorni. Così, qualcuno forse si ricorderà, che due mesi dopo quella tragedia, a Santiago si doveva disputare una partita di qualificazione dei Mondiali di Germania ‘74, e il caso volle che la nazionale ospite fosse l'Unione Sovietica.
Naturalmente scoppiò un caso diplomatico-politico dato che l'Urss rifiutò di giocare nello stadio in cui fino a pochi giorni prima erano stati tenuti prigionieri antifascisti, democratici, militanti e simpatizzanti di Unidad Popular arrestati durante il golpe e poi avviati ai campi di concentramento o torturati e uccisi sul posto. La richiesta di spostamento della gara fu rifiutata dalla Fifa (e anche qui sorsero polemiche violente poiché si parlò di un atteggiamento morbido nei confronti della federazione calcio cilena) e in definitiva, confermando l'appuntamento del 21 novembre 1973 come data della sfida Cile-Urss. I russi si opposero e rifiutarono di inviare la squadra, la vittoria a tavolino fu assegnata dalla Fifa al Cile, ma il regime voleva comunque giocare la partita, puntando sulla retorica nazionalista e patriottarda e pensò così di organizzare una manifestazione sempre allo stadio Nacional: i giocatori cileni furono chiamati ad una farsa vergognosa scendendo in campo contro una squadra inesistente: undici giocatori furono indotti a schierarsi, con il pubblico a riempire le gradinate (appena liberate dai prigionieri) e i soldati a controllare i bordi del campo. L'arbitrò fischiò l'inizio, i giocatori si passarono la palla, avanzarono, scesero in profondità, si avvicinarono alla porta avversaria. Nessuno andò loro incontro. La palla finì tra i piedi del capitano che, a porta vuota, segnò un simbolico, squallido e inutile gol. Il cartellone elettrico segnò: Cile 1, Urss 0. Tutto questo ruotò intorno al capitano del Cile, Francisco Valdes.
«Pochi istanti prima di andare in campo - racconta il cinquantenne Valdes - il presidente della federazione cilena scese negli spogliatoi e disse: "Francisco, sei il capitano, il gol devi farlo tu". Stavo diventando un simbolo non sportivo ma politico, perché la partita era politica. Pinochet voleva dimostrare la sua forza contro il mondo che condannava la sua violenza. Segnai quasi senza accorgermene e scappai negli spogliatoi, tra il frastuono delle trombe e l'urlo dei tifosi. Vomitai. Venne l'allenatore, mi chiese se stavo bene. Dovevo tornare in campo, perché dopo la farsa, il regime aveva organizzato una partita amichevole contro il Santos. "Non ce la faccio - dissi - mi sento male"». Il rimpianto per non essersi ribellato a quella farsa, viene ingigantito dalla storia personale di Valdes, ragazzo, allora, che si interessava di politica. «Mio padre Eduardo, che era morto qualche anno prima, aveva fatto l'operaio tutta la vita e si era rovinato a forza di lavorare. Dieci, dodici ore al giorno e pochi soldi alla fine del mese. Mi diceva sempre: "Paco, voi giovani dovete cambiarlo questo sistema". Volle a tutti i costi che restassi a scuola, anche se ci sarebbe stato bisogno di un altro stipendio a casa».
Immagine del funerale di Pablo Neruda |
Così, la lettera prende la forma di confessione a Neruda ricordando che il giorno del suo funerale (il 23 settembre ‘73) «c'ero anch'io lì. Eravamo in trecento, vidi la sua casa di via Marques de la Plata distrutta dalla crudeltà dei militari che volevano sotterrare per sempre la sua presenza. Stavo nascosto in mezzo alla folla. Qualcuno gridò il suo nome, un'altra voce rispose forte "presente", tutti gridarono presente. Poi si gridò il nome di Salvador Allende e quel nome gelò la folla. I soldati ci squadrarono, ebbi paura. Restai lì dov'ero, un po' nascosto, vigliaccamente nascosto. Quando tornai a casa piansi. Pensai a mio padre e mi rimproverai di non aver avuto il coraggio di gridare "presente". Non ce l'avevo fatta, così come non ce la feci quel giorno allo stadio di Santiago».
A rileggere oggi questo racconto, viene da domandarsi che cosa potesse fare allora il giovane Valdes. Ribellarsi, forse con un gesto simbolico tanto forte quanto praticamente inutile (perché sicuramente non sarebbe stato divulgato) a restituire dignità ad una nazionale schiava di un regime fascista. In certe situazioni, anche i piccoli gesti servono, certo, ma forse ha più forza la bella e ricca pagina di umanità che ci ha regalato trent'anni dopo un ex giocatore, stretto tra il rimorso e l'amore della poesia di Neruda e della libertà.
Ps: dopo la gara farsa, il Santos (senza Pelè) strapazzò il Cile 5-0.
"L'Unità", 21 novembre 2003