L'addio alla verde erba dei prati di Gigi Riva arrivò, non inatteso, il 9 aprile 1977. Su "La Stampa" del 10, di domenica, comparve il saluto di Giovanni Arpino
Que viva Riva! Salutiamolo alla messicana, visto che Gigi da Cagliari, Gigi da Leggiuno, insomma Giggirrivva, «bomber» massimo, rombo di tuono, «espada» del calcio azzurro, etc. etc. (durano più gli aggettivi che non l'esistenza) ha deciso di «lasciare». Salutiamolo alla messicana, perché proprio in Messico, sette anni fa, tra Pueblo e Toluca, il «goleador» patì una stagione difficilissima, contraddittoria, con lampi di potenza atletica ineguagliabile e smarrimenti di ogni genere, dettati dall'altitudine, il carattere, l'eccesso di responsabilità, l'insonnia.
Con sana sobrietà provinciale, Gigi dice addio al pallone giocato. Recentemente ha parlato di sé come «figura dirigenziale» ma senza nascondere dubbi, attriti societari, perplessità, e senza il can-can prodotto da altri celebri «colleghi» suoi, così astuti nel rimestare le carte dei loro club.
Va in pantofole l'ultimo autentico «eroe» della pedata patria: un uomo che galoppava verso l'area avversaria puntando gomiti d'acciaio nelle costole altrui (è il mestiere) trascinandosi sulle spalle almeno due marcatori, aggredendo l'aria. I suoi gol — basterebbe rivederli in sequenza rallentata - furono un prodigio di coordinazione e coraggio, di furia muscolare e di ispirazione, parola sacra che usiamo senza alcun falso pudore.
Due volte sacrificò le ossa alla pelota azzurra. Mai si lamentò. Non fece una piega nemmeno dopo l'ultimo, sciagurato «mondiale» a Stoccarda, dove solo la miopia tecnico-tattica dei «capataz» poteva impiegare un Riva ridotto a larva del guerriero che fu. Fedelmente, passò dalla A alla B, senza esitazioni. Accolse il tributo sardo come una culla del destino, senza smancerie e mai tradendo.
Que viva Riva!, perché è un uomo prima ancora d'essere stato un grande «esecutore» di gol. Mai una parola spropositata, mai un giudizio non misurato (e strappatogli a furor di domande: essere taciturni è ancora una virtù in questo paese di ciarloni). Auguriamo al signor Luigi Riva una vita felice: se la merita. Lui sa benissimo cosa significhi essere assalito da centinaia di tifosi, sempre: a tavola, al cinema, persino a letto. Il tempo di pace che ora gli tocca sia dunque familiare, disteso, grande.
Davvero non avremmo voluto vederlo stentare sulla gramigna d'un campo, lui che fu fulmine vendicatore. Ha scelto d'appendere le scarpacce con il solito tono ritroso, pudico. Sa, come tutti i guerrieri di razza, che è ora di chiudersi nella tenda. A tutti noi, una considerazione (che è anche un verso famoso). Tarderà molto a nascere, sempreché nasca, uno che gli somigli.
"La Stampa", 10 aprile 1977, p. 18.