Il 18 luglio 1971, all'ora in cui in Italia tutti sono a tavola per la cena, molti si sintonizzarono sul secondo programma della RAI. Era la sera di una domenica d'estate, non c'era da aspettare la Domenica Sportiva per vedere le immagini e i campioni della Serie A. Sul primo canale trasmettevano la quarta puntata de La saga dei Forsyte, ma vuoi mettere con Brasile-Jugoslavia? Sì, era soltanto un'amichevole. Ma era l'ultima partita di Pelé. Non l'ultima in assoluto. L'ultima con la Seleçao. Ne scrisse per Stampa Sera, non credendoci davvero, Giovanni Arpino.
Speriamo che l'addio di Pelé al calcio assomigli ad uno dei tanti «brindisi» di famosi toreri (vedi, a proposito, il ritorno del quasi cinquantenne Dominguin nelle arene) e di celebri tenori, che ogni sei mesi recitano davanti a pubblici diversi e commossi una romanza eternamente penultima. A trent'anni esatti, Pelé è un «re» che può ancora tenere in pugno lo scettro. Le sue gambe sono un museo degli orrori e delle cicatrici che il football professionistico regala ai grandi eroi della «pelota», ma la saggezza è intatta, forse accresciuta, come si vide ai campionati mondiali di Messico nell'estate scorsa.
Allora Pelé, allenato come un astronauta di Capo Kennedy, dimostrò di saper rinunciare ad un «tocco in più» tutto personalistico per far correre la palla a vantaggio di Tostao o Rivellino, suoi scudieri nella crociata del football. Allora Pelé «o rey», dovendo disputare una palla alta ad un difensore che mezzo mondo ci invidia, e cioè Burgnich, balzò come un giaguaro allungando magicamente il suo metro e sessantasette di statura, e fece gol. Allora, avendo acquisito l'ennesima libera docenza in football, Pelé, sempre contro i nostri azzurri, e benché il Brasile fosse largamente in vantaggio, seppe appostarsi al limite della propria area di rigore, rompere e ammininistrare il gioco come un vecchio leone.
Pelé, cioè il calcio moderno: è un assioma che tutti ripetono, che milioni di persone venerano. Pelé e la «pelota» sono due sposi che non possono divorziare davanti agli occhi del mondo. Se tra cinque anni - ammesso che si ritiri davvero - il negretto tornasse su una sedia a rotelle in un campo di football, lo stadio verrebbe riempito non da migliaia di curiosi, ma da un pubblico di intenditori che tutto ricordano, tutto sanno valutare nella memoria, e che da Pelé seduto attenderebbe ancora un «numero» specialissimo.
Gli hanno dedicato una via, un monumento, uno stadio. E' raffigurato sui francobolli, ha inciso dischi e scritto un libro. Ha girato film e patrocinato sottoscrizioni benefiche. Ciò che tocca è oro. Perché dovrebbe ritirarsi? Il suo declino fisico è indubbio, ma non così appariscente. Una squadra impostata su di lui potrebbe ancora dominare le grandi competizioni sportive. Pelé è stanco? Pelé dice e fa sapere di essere stato troppo sfruttato e che i tecnici della federazione brasiliana lo usano da anni come un'etichetta per richiamare gente intorno alla Nazionale «carioca». E afferma di essere disposto a giocare per la squadra, il Santos, fino al '74 (l'anno dei prossimi mondiali, guarda un po'), ma non più con la maglia gialloverde del suo paese. Gli eroi pagano un prezzo salato nel professionismo sportivo contemporaneo: Pelé, miliardario e bonaccione, si dice stufo delle speculazioni politico-agonistiche che lo coinvolgono.
Forse riuscirà a mantenere la propria parola, forse cederà ad ennesime pressioni. A un bel momento, nel cuore di un campione, la ragione segreta del gioco vince. E Pelé giocherà ancora, per mezzo tempo o per pochi minuti, secondo quanto comanda non solo un contratto ma anche l'istinto.
E' stato davvero il più forte? Da Rivera a Charlton, da Facchetti a Liedholm, le testimonianze sono indubitabili: nessuno, dal centrocampo fino all'area avversaria, ha mai dimostrato a memoria d'uomo la sua capacità di dribblare, di toccare coi due piedi, di inventare un'azione o una «finta», di fuggire in gol, di far secchi decine di portieri avversari. A tutto campo, il suo gioco forse cede qualcosa al grande Di Stefano: ma nei 40 metri non ha avuto rivali, per fantasia e coordinazione, per genio creativo e lucidità manovriera. In Italia fu fermato da Trapattoni. Era il '63, un anno di crisi per il grande «rey». Eppure proprio con Trapattoni appiccicato alle costole, eseguì a San Siro un «numero» incredibile: in elevazione per accogliere un pallone alto lo fermò con la fronte, lo fece scivolare fino alla caviglia e ripartì lasciando di sale il suo controllore giù per le terre. Un miracolo di armonia muscolare e di talento in football.
Per questo speriamo che Pelé non s'arrenda, malgrado tanta fatica, tanta schiavitù contrattuale, tanto denaro messo in cassaforte. E' stato detto: dopo Pelé non sarebbe più football. Non è vero: lo si affermò in Inghilterra ai tempi di Matthews, in Italia ai tempi di Meazza, in Spagna dopo gli anni di Di Stefano. Il football rimarrebbe tale anche dopo Pelé. Sarebbe soltanto un peccato non rivedere «o rey»: anche acciaccato, anche prudente, ma così felino nel tocco, così sobrio nell'amministrare un pezzo rotondo di cuoio, cosi incredibile nella fucilata verso la porta. E così naturale nel commentare se stesso e tutte le questioni che riguardano una palla. In Messico, l'estate scorsa, gli si chiedeva che cosa pensasse dei suoi successivi marcatori diretti. Nel suo italiano composto di otto parole (di cui quattro oscene) rispondeva ridendo allegramente: «Mi picchieranno come al solito».
E come al solito, lui andava in gol. Perché, pur condizionato e sfruttato, si divertiva, si diverte. E' in questa luce che noi non vogliamo credere, per ora, ai suoi addii.
Giovanni Arpino
"Stampa Sera", 19 luglio 1971, p. 3
Per la partita: qui