La Coppa franchista del 1964

Euro storie

Richiamare alla memoria la Coppa delle Nazioni del 1964 significa ricordare la Spagna di quegli anni e l'egemonia delle sue squadre di club sulla scena europea. Il paese vedeva finalmente allentarsi la morsa della dittatura imposta del Generalísimo Francisco Franco dopo la tragedia non ricomposta della Guerra Civil, uno degli scannatoi più orrendi del Novecento europeo. La Spagna degli anni '50 era un paese povero ma dignitoso, isolato diplomaticamente e culturalmente dal resto del continente. Meglio forse di ogni altra immagine, nella loro immediatezza, neorealista e sulfurea a un tempo, ce la restituiscono i film sghembi di un anarchico come Marco Ferreri nel suo periodo cosiddetto "spagnolo" (1959-1960): Los chicos,  El pisito e El cochecito, scritti insieme allo scrittore Rafael Azcona con ovvi problemi di censura.

21 giugno 1964, Estadio Santiago Bernabeu, Madrid
Le squadre della Spagna e dell'URSS
ascoltano sull'attenti gli inni nazionali
Il calcio - e in particolare le cinque vittorie consecutive del Real Madrid nelle prime edizioni della Coppa dei campioni (1956-1960), e nell'inaugurale Coppa intercontinentale contro il Peñarol di Montevideo (1960), che peraltro si inserirono in una cornice che va almeno dalle vittorie del Barcellona nella Coppa Latina (erede della Mitropa e gestante della Campioni) nel 1949 e 1952 alle sei Coppe delle Fiere conquistate da Barcellona, Valencia e Real Saragozza tra 1958 e 1966, passando dalla Coppa delle Coppe vinta dall'Atletico Madrid nel 1962 - servì da straordinario ambasciatore dell'immagine di una Spagna vincente che cominciava a riaffacciarsi al mondo.

Nel 1960 Franco aveva deciso di riaprire le frontiere al turismo e agli investimenti stranieri. Un decisivo passo avanti, che non trovò riscontro però, nello stesso anno, sul piano delle relazioni calcistiche. Il sorteggio aveva posto di fronte, nei quarti di finale della prima edizione degli Europei, Spagna e URSS. Nonostante le pressioni della Federación Española de Fútbol, il Caudillo impedì alla Roja di giocare contro la nazionale di un paese con il quale non solo non esistevano rapporti diplomatici – dato il sostegno che Stalin aveva fornito alla Repubblica spagnola durante la Guerra Civil – ma che incarnava ideologicamente, agli occhi degli alfieri dell’anticomunismo, il peggiore nemico politico. Ciò aveva spianato la strada per le semifinali ai sovietici, poi vittoriosi in terra di Francia, ma aveva intaccato l'immagine internazionale del calcio spagnolo.

Quando nel corso del 1963 maturò l'eventualità che le strade della nazionale iberica si intrecciassero nuovamente con le compagini dei paesi dell'Est nella seconda edizione degli europei, la politica di Franco si rovesciò astutamente al punto da candidare la Spagna come paese ospitante delle ultime quattro partite del torneo. Il superamento di diffidenze diffuse a livello internazionale si rivelò un successo diplomatico. Oltre alla sorpresa del torneo, la Danimarca del capocannoniere Ole Madsen, approdarono alle semifinali in terra di Spagna sia l'URSS sia una rediviva Ungheria, che di lì a breve avrebbe vinto l'alloro olimpico del 1964 (per poi bissare nel 1968), rinverdendo, sia pure in tono sbiadito, i fasti della mitica compagine dei primi anni cinquanta.

Alla nuova edizione degli europei si erano iscritte 29 nazioni, grandi comprese ad eccezione della Germania Ovest, il cui tecnico Seep Herberger considerava degni di essere giocati solo i Campionati del Mondo: un tipo strambo, che rende bene l'idea della fluidità in cui era ancora avvolta la scena del calcio mondiale, destinata però a trasformarsi in un sistema istituzionalizzato di lì a pochissimi anni. Nei turni eliminatori si erano perse per strada, oltre all'Italia di Mondino Fabbri triturata dal "cinismo dei russi" (Brera scripsit), anche l'Inghilterra, fatta fuori per solo 6-3 dalla Francia nella prima partita di Alf Ramsey in panchina, e infine la stessa Francia naufragata sugli scogli della rampante Ungheria nei quarti di finale [tabellino | FM]. Rimase agli annali lussemburghesi, dopo i fasti carolingi, anche l'eliminazione dell'Olanda, che vantava ancora una compagine scialba per tradizione, e ignara della rivoluzione che stava per avvenirvi di lì a un di presso.

17 giugno 1964, Estadio Santiago Bernabeu, Madrid
Il gol di Amancio al 112° della semifinale contro l'Ungheria
L'URSS fu inviata a giocare la sua semifinale contro i Danesi a Barcellona, città di non sopita anima repubblicana e antifranchista, che l'accolse infatti con simpatia in un Camp Nou gremito la notte (alle 22:30, come d'abitudine) del 17 giugno 1964: di Valeri Voronin, Viktor Ponedelnik (ancora lui, il risolutore al Parc des Princes quattro anni prima) e Valentin Ivanov i timbri sulle formalità per la finale di Madrid, espletate sotto l'autoritario fischietto del nostro Rosario Lo Bello [tabellino]. La sera stessa, ma alle 20, era andata in scena al Santiago Bernabéu l'altra semifinale, molto più tirata ed incerta. Gli spagnoli erano andati in vantaggio verso la fine del primo tempo con Jesús María Pereda, ma una coriacea Ungheria - nella quale cominciavano a brillare giocatori di qualità come Flórián Albert (che sarebbe stato Pallone d'Oro nel 1967) e Lajos Tichy (di grandi capacità balistiche [esempi: 1 | 2]) - aveva riacciuffato il pareggio a 6 minuti dalla fine con Ferenc Bene, grazie anche a un'incertezza del portiere Josè Iríbar, e costretto il paese ospitante a soffrire per un'altra mezzora, insidiandolo con numerose occasioni che offrirono al suo portero l’occasione di un pronto riscatto. A risolvere lo spettro angoscioso di una soluzione affidata alla monetina (all'epoca non erano previsti i rigori, e solo la finalissima doveva essere ripetuta) fu una delle stelline del Real Madrid di allora, Amancio Amaro, a otto minuti dalla fine [Cineteca]. Gli ungheri si sarebbero consolati tre giorni dopo nella finalina, risoltasi anch'essa ai supplementari grazie a una doppietta del prode difensore Dezso Novák.

Alle sei e mezza de la tarde del 21 giugno, puntualissimo, prese posto in tribuna al Bernabeu il Caudillo de España, accompagnato dalla consorte per assistere alla finalissima, della quale abbiamo il filmato intero oltre a vari estratti [Cineteca]. Agli inni nazionali gli 80.000 spettatori applaudirono con rispetto quello sovietico (qualcosa d'inimmaginabile oggi, in un'epoca in cui gli applausi sono riservati ormai solo ai minuti di "silenzio"). A guidare la Nazionale era l'unico fuoriclasse presente in campo assieme a Lev Jašin, il galiziano Luis Suárez Miramontes (entrambi palloni d'oro, rispettivamente nel 1963 e 1960), che qualche settimana prima aveva guidato l'Inter alla conquista della sua prima Coppa dei campioni al Prater di Vienna. Incurante delle polemiche, il duro allenatore della Roja, Jose Villalonga, che pure li aveva portati alla conquista della prima coppa dei campioni nel 1956, aveva deciso di lasciare a casa gli anziani fuoriclasse del Real: Francisco Gento, Luis del Sol, e Alfredo Di Stéfano (che aveva conseguentemente deciso di porre termine alla sua ineguagliabile carriera), e di puntare su una rosa di giovani di minore talento ma plasmabili a un gioco fondato sull'agonismo, sulla velocità e su un forte spirito di squadra.

21 giugno 1964, Estadio Santiago Bernabeu, Madrid
L'immagine è sgranata ma l'incornata di Marcelino che dà alla Spagna
la sua prima Coppa delle nazioni europee è effettivamente bellissima
Tatticamente entrambe le compagini giocavano un WM adattato a una vocazione attendista e interpretato sulla corsa. Grazie e un bel triangolo in velocità con Amancio, Suarez crossò dal fondo al 5° una palla insidiosa, oscenamente offerta di sponda, infatti, da Eduard Mudrik sul piede a Jesus Pereda, che per l'emozione di cotanto regalo sparò di fretta una bordata tremenda anziché cercare una soluzione più ponderata. A mettere subito le cose in pari fu però una sbadataggine del centrale iberico Fernando Olivella, che lasciò avanzare liberamente al tiro il manzo sovietico Galimzyan Khusainov. Seguì un'ora di calcio sempre più affondato nell'afosità della sera,  nella quale si persero i sovietici, privi di fantasia e dunque spenti nella risorsa atletica. Per tutta la partita avevano sofferto sulla fascia sinistra: e da là arrivò l'ennesimo cross, questa volta di Chus Pereda, all’84°. Con un bellissimo volo, il gallego Marcelino girò di testa in rete la palla matando l’attonito Jašin [HL]. Seguì l’apoteosi della squadra, del Bernabeu e dell’intera nazione. Il Franchismo esaltò propagandisticamente il gesto di Marcelino, assurto a eroe anticomunista, diffondendolo attraverso i Noticieros y Documentales (i cinegiornali dell’epoca). L'atto è tuttora celebrato in molti siti sulla Roja.

E' vero anche, però, che la vittoria del 1964 non ha mai goduto tra gli spagnoli di particolare eco memoriale. Alcuni ritengono che ciò vada addebitato al fatto che quella squadra non presentava grandi stelle, a parte Suarez e Amancio. Lo stesso allenatore, l'andaluso José Villalonga, è stato dimenticato, complice forse anche il suo passato di militante falangista durante la Guerra Civil. La rimozione è certamente intrisa del marchio franchista apposto sulla vittoria del 1964. Ma hanno pesato anche le vicende calcistiche. La Spagna acquisì il diritto di partecipare ai Mondiali del 1966 dove però si arenò mestamente al primo turno; il Real vinse l'ultima sua Coppa dei campioni di quegli anni (nel 1966 sul Partizan di Belgrado); ma dopo i fasti del decennio precedente, di cui il trionfo europeo del 1964 costituì il sostanziale canto del cigno, cominciarono los años del desierto. Sarebbe occorso un quarto di secolo perché la Catalogna suonasse, con l'oro olimpico e la prima vittoria in Coppa dei Campioni del Barcellona nel 1992, il segnale del riscatto.

Azor