Euro storie
Azzurro, la canzone scritta da Paolo Conte e cantata da Adriano Celentano, fu per mesi in testa alle vendite di dischi da 45 giri e la più ascoltata in Italia nel corso del 1968 [qui una clip che rende l'idea dello stile raffinato che caratterizzava la RAI in quegli anni]. Nella sua apparente spensieratezza, la poesia - perché di tale si tratta - coglieva le inquietudini di quell'anno, la sensazione diffusa che un'epoca stava per terminare (come l'estate, con il treno dei desideri che all'incontrario va ...). L'Italia aveva conosciuto nel decennio precedente un impetuoso boom (come sia amava dire pagando il solito dazio lessicale alla lingua che sembra incarnare la modernità) economico che ne aveva trasformato non solo l'impianto industriale, le infrastrutture, e i consumi, ma anche gli equilibri sociali e il costume, creando il primo benessere diffuso e inaugurando nuovi stili di vita. Tra questi erano anche i riti legati al calcio, santificato dalla partita domenicale (un inedito cruccio di genere), dall'ascolto spasmodico, radioline a transistor all'orecchio, di trasmissioni come Tutto il calcio minuto per minuto, dalla visione serale delle immagini delle partite alla Domenica sportiva, e poi ancora dall'avida lettura di quotidiani e riviste sportive durante la settimana, che alimentavano discussioni infinite nei bar e nei luoghi di lavoro. Il termometro della passione fu dato dall'immediato e clamoroso successo del collezionismo applicato al calcio con le raccolte delle figurine dei calciatori avviate dall'editore Panini nel 1961.
10 giugno 1968, Stadio Olimpico, Roma Gli italiani scoprono improvvisamente cosa sia il delirio calcistico |
L’Italia uscì in quel decennio dalla sua povertà rurale allineandosi progressivamente alla "modernità" che altri paesi avevano già raggiunto. Oggi è viva la nostalgia per quegli anni come se fossero stati "favolosi", ma solo perché la memoria tende all'oblio. Furono certamente anni di speranza per il futuro, ma anche duri: la scena politica fu lacerata tra la prima esperienza di un governo di centro-sinistra, che, a parte l’estensione dell’obbligo scolastico e la nazionalizzazione dell’energia, mancò le riforme sostanziali (a cominciare dal riequilibrio tra il nord e il sud del paese, che fu dissanguato da un’emigrazione di massa in cerca di lavoro nel settentrione industriale), e uno strisciante golpismo, pronto a blindare il Vallo atlantico anche ricorrendo all'esercito. Soggetto sociale emergente furono in primo luogo i giovani, stretti tra il delirio dei 26.000 che assisterono all’unico concerto italiano dei Beatles al velodromo Vigorelli di Milano nel giugno 1965 e le tensioni vissute in famiglia (perlopiù inadeguata a gestirne gli umori nuovi), drammaticamente descritte nel film dello stesso anno di Marco Bellocchio, I pugni in tasca [qui una delle scene clou].
Il 1968 segnò la fine dell’innocenza. L’anno fu attraversato ovunque in Europa, anche all’Est (a Varsavia, a Belgrado, a Praga), da manifestazioni, da scontri e da violenze nel nome della “contestazione” di ogni autorità e della rivendicazione dei diritti civili soggettivi (per primi si erano mossi, già dal 1964, gli studenti e i neri negli USA). Anche sui campi da calcio i giocatori di quel periodo cominciavano a essere antropologicamente diversi rispetto alle generazioni che li avevano preceduti. George Best è forse l’emblema di quella stagione, nel bene e nel male, e anche l’Italia conobbe figure simili, prima tra tutte quella di Gigi Meroni, talentuosa ala destra del Torino e scapestrato anticonformista, un beat (come si diceva allora) che esibì, tra i primi, i “capelloni” sui campi italiani, e morì tragicamente nell’ottobre del 1967 ad appena 24 anni. Né fu un caso che proprio nel luglio del 1968 i capitani delle squadre di serie A fondarono l’Associazione Italiana Calciatori, affidandola alla guida del coriaceo avvocato, e già bomber del Lanerossi Vicenza, Sergio Campana.
5 giugno 1968, Stadio San Paolo, Napoli Protetto da Giorgio Ferrini, Dino Zoff allontana di pugno un pallone comunque irraggiungibile per Anatoliy Fyodorovich Byshovets |
Soprattutto, dopo decenni di delusioni il calcio italiano tornò a vincere a livello internazionale, grazie a una nuova generazione di campioni, all'acume tattico di alcuni tecnici – che affinarono magistralmente un’idea di gioco, detta da allora “all’italiana”, che ruppe definitivamente con la tradizione del WM –, e ai capitali investiti da alcuni proprietari di club. Furono le due squadre milanesi, in particolare, a sprovincializzare la pedata italica e a spezzare il dominio del calcio spagnolo. Per ben sette edizioni su undici tra 1963 e 1973 le squadre italiane furono capaci di raggiungere la finale della Coppa dei campioni (vincendola col Milan nel 1963 e 1969, e coll’Inter nel 1964 e 1965), col corollario di tre Coppe intercontinentali (Inter nel 1964 e 1965, Milan nel 1969), tre Coppe delle coppe (Fiorentina nel 1961, Milan nel 1968 e 1973) e una Coppa delle Fiere (Roma nel 1961). Nel 1969 il Pallone d’oro fu attribuito a Gianni Rivera, e giunsero secondi lui stesso nel 1963, Giacinto Facchetti nel 1965, Gigi Riva nel 1969, Sandro Mazzola nel 1971 e Dino Zoff nel 1973 (mentre nel 1961 lo aveva vinto anche l’appena naturalizzato Omar Sivori).
Non meraviglia pertanto che quando una rinnovata e più credibile dirigenza federale, emersa dopo la vergognosa impreparazione e gli esiti tragicomici dei mondiali del 1966, si propose per ospitare la fase finale degli europei nel 1968, facendo leva abilmente anche sulla ricorrenza del settantennio della Federazione Italiana Giuoco Calcio, ottenne fiducia dal resto del pallone continentale. A guidarla era ora Artemio Franchi, persona colta e rimpianto esponente della classe dirigente italiana migliore: già direttore sportivo della Fiorentina e commissario straordinario della Lega (sì, accadeva anche allora ...), Franchi assunse le redini del calcio italiano nell'estate del 1966 e attuò con decisione le riforme di cui si era solo parlato, e a lungo, nella precedente gestione di Giuseppe Pasquale: il blocco all'ingaggio di calciatori stranieri, la riduzione a 16 squadre del campionato di serie A, la trasformazione della società di calcio in SpA senza fini di lucro.
Giunto alla sua terza edizione il torneo continentale cambiò nome (da Coppa delle nazioni europee a Campionato europeo, la denominazione attuale) e formula: non più eliminazioni dirette con partite d'andata e ritorno ma gruppi di qualificazione seguiti da quarti a confronto diretto in due turni, e la fase finale negli stadi un paese prescelto. Di fatto un formato simile a quello attuale. Per la prima volta parteciparono tutte le nazioni iscritte alla UEFA, a parte Malta e Islanda. Anche la Germania si degnò finalmente di concorrervi ma la Nemesi le fece inesorabilmente pagare il dazio dei dinieghi precedenti: dopo un roboante 6:0 iniziale all'Albania (con quaterna del giovanissimo Gerd Müller [HL]) e uno scambio di sconfitte con la talentuosa Jugoslavia, la beffa si consumò allo Stadiumi Qemal Stafa di Tirana nella partita finale del girone (l'unico a tre, oltretutto) dove l'Albania fermò sullo 0:0 i vice-campioni del mondo e ne determinò una clamorosa eliminazione [tabellino | HL]. Anche i Champions albionici faticarono non poco a prevalere (dopo una memorabile sconfitta patita in casa dalla Scozia, di cui abbiamo in rete l’intero filmato [tabellino | FM]) nel British Home Championship, l’annuale torneo insulare che gli inventori della pedata moderna riservarono snobisticamente a se stessi per un secolo (dal 1883 al 1984), e che fu assunto in quell'occasione come gruppo di qualificazione agli europei. Ai quarti, il confronto tra i campioni del mondo e gli spagnoli campioni d’Europa in carica si risolse a favore degli inglesi che espugnarono il Bernabeu.
5 giugno 1968, Stadio Comunale, Firenze Dopo una partita molto maschia, Bobby Charlton e Mirsad Fazlagić si danno cavallerescamente la mano: ma i volti tesi tradiscono la tensione |
Affidata a un allenatore modesto (fu lui a 'visionare' la Corea del Nord ai mondiali del 1966 e a relazionare al "commissario tetnico" Mondino Fabbri l'infelice battuta passata alla storia: "sono dei Ridolini"), ma dotato di buonsenso, come Ferruccio Valcareggi, la nostra compagine si ricostruì dopo il disastro inglese intorno al nucleo dei campioni dell'Inter e del Milan, epurando il ronziname di gravitazione felsinea. La poule, affatto potabile, di qualificazione con Svizzera, Cipro e Romania servì a rodare un gruppo che innestò la giovane promessa finalmente sbocciata di Giggirriva (6 gol nelle qualificazioni) sul ceppo della difesa nerazzurra e su un centrocampo di fatica cursoria (Angelo Domenghini) e di estri lunatici (Mariolino Corso) oltre che di abatini. Lo scoglio da superare ai quarti fu la Bulgaria, una squadra di buon livello in quel torno d’anni (e che di lì a qualche mese sarebbe arrivata seconda nel torneo olimpico messicano vinto dall’Ungheria). La prima mezzora dell’andata, allo Stadio Nazionale Vasil Levski di Sofia il 6 aprile 1968, fu angosciosa: rigore all’11° per i bulgari, trasformato da Nikola Kotkov, pallonata nello stomaco a Enrico Albertosi costretto a uscire al 21°, rottura del bacino per Armando Picchi al 24° (che restò incredibilmente in campo aggirandosi per un’ora sulla fascia destra solo per non lasciare la squadra in dieci perché non esistevano i cambi, e che terminò così, di fatto, la sua grande carriera); grazie a una gagliarda prova di carattere riuscimmo alla fine a limitare i danni a un 2:3 [tabellino | HL]. Orfani come già all’andata dell’indisponibile Rombo di Tuono, nel ritorno al San Paolo di Napoli due settimane dopo, i nostri misero in cattedra Gianni Rivera a ispirare le finalizzazioni dell’emergente Pierino Prati, che sbloccò il risultato con una bellissima rete [HL]: un 2:0 rotondo e pieno ci garantì il passaggio del turno [tabellino].
Alla fase finale giunsero dunque, insieme a noi, la sempre verde URSS (che aveva liquidato l’Ungheria ai quarti), i baldanzosi Leoni della Regina (ancora sotto la guida di sir Alf Ramsey) e la squadra migliore del lotto, la Jugoslavia (che aveva asfaltato la Francia), che poteva avvalersi della sua generazione migliore di giocatori, ricchi di talento e forza fisica, attenti tatticamente e guidati da un campione, il serbo Dragan Džajić, capocannoniere di quell’edizione, vera ala sinistra, dotata di velocità, dribbling e gran precisione nei tiri e nei cross dal fondo [clip]. Alle 21:15 del 5 giugno andò in scena al Comunale di Firenze la semifinale tra inglesi e slavi: i primi, tecnicamente inferiori nonostante il blasone del titolo mondiale (conquistato in casa), la buttarono sul piano fisico e la partita si trasformò in un agone durissimo, risolta da un guizzo di Džajić a quattro minuti dalla fine [tabellino | HL]; gli inglesi tornarono ad assaporare il pane sciapo (toscano per l’appunto) della sconfitta nelle competizioni internazionali di vertice (da allora avrebbero collezionato solo un paio di semifinali ai mondiali del 1990 e agli europei del 1996, e attendono ancora di giocarsi nuovamente una finale). Ancor oggi essi dissimulano l’onta della sconfitta ricordando quella partita per la prima espulsione di un loro nazionale, Alan Mullery (che è un modo abile, si noti, di fare storia comunque), ad opra dall’arbitro spagnolo José Maria Ortiz De Mendibil: intervistato di recente dalla BBC lo sciagurato [vedi] ha argomentato come una mammola che "I felt stupid when it happened but some of the tackles they were putting in were horrendous; if that game was played now, it would have been abandoned after 20 minutes because they would have had six players on their side and we would have had about nine” [leggi]. Un'opinione di parte, of course.
5 giugno 1968, Stadio San Paolo, Napoli Giacinto Facchetti esulta al responso numismatico di Eupalla |
Nel tardo pomeriggio dello stesso giorno si era giocata sotto la pioggia al San Paolo di Napoli l’altra semifinale tra noi e i sovietici. Questi ultimi, ormai privi di giocatori di talento, ruminarono il loro solito gioco grigio di ordine e passo, senza fantasia, ma capace di imbrigliare gli avversari. Noi giocammo una brutta partita, contratta, anche perché Rivera si acciaccò lungo strada spegnendo la nostra fonte di iniziativa principale: il film della partita mostra come le (poche) occasioni pericolose le ebbe l’URSS e come i nostri si svegliarono solo nei supplementari quando Domingo incacchiò il montante sinistro della porta di Yuri Pshenichnikov a tre minuti dalla fine [tabellino | HL | FM]. Non era stata ancora inventata la lotteria dei rigori e dunque l’arbitro tedesco Kurt Tschenscher convocò negli spogliatoi i capitani per lanciare per aria la monetina (una formula folle, e infatti mai più ripetuta). Eupalla ci arrise, per motivi che restano ancora imperscrutabili nonostante un’inesausta esegesi (tra i molti, Baffo Mazzola sostiene sornione che era fiducioso assai nel notorio deretano baciato di Giacinto Facchetti): il capitano scelse Testa, e Testa fu infatti. Seguita dalla consueta manifestazione di arte pirotecnica partenopea.
Le finali si tennero a Roma. La Scala di San Siro fu clamorosamente snobbata nonostante il primato delle sue due squadre, costringendo il prato dell’Olimpico a un inedito logorio: alle ore 15 dell’8 giugno scesero in campo, per il terzo posto, sovietici e albionici, che strapparono con rabbia un 2:0, con timbri di Bobby Charlton [HL] e Geoff Hurst [tabellino]. Alle 22:15 (sic) dello stesso giorno fu la volta delle finaliste. Valcareggi ripropose la formazione di Napoli con poche varianti: il ronzino Lodetti per l’infortunato Rivera, Guarneri per Bercellino e, clamorosamente, la ventenne rivelazione del Varese, Pietruzzo Anastasi (poi passato alla Juve per 700 milioni in quell’estate) al posto di Sandrino Mazzola (il quale, leso nella sua majestas, quella mattina aveva fatto le valige ed era stato placcato dai suoi pards nerazzurri nella hall dell’albergo mentre chiamava il taxi per tornarsene a casa). In pratica affrontammo la prima finale internazionale dopo trent’anni senza Rivera, Mazzola e Riva: una follia insondabile. Il tecnico serbo Rajko Mitic ripropose invece gli stessi titolari di Firenze, fatto salvo il mediano Jovan Aćimović per Ivica Osim. Un centrocampo affidato a onesti pedatori come Ferrini, Juliano e Lodetti non riuscì a fornire un pallone decente alle due punte: “Gli slavi sono fortissimi ed è cara grazia non perdere”, scrisse Brera. Dopo un inizio pimpante e illusorio la squadra subì l’iniziativa degli slavi e si affidò alla difesa dell’Inter, votandosi a una partita di sofferenza. Džajić sfruttò l’unica incertezza della nostra retroguardia al 39°, mettendo una zampa in mezzo a una mischia, e nella ripresa liftò un pallone al curaro nell’area di Zoff che il giovanissimo centravanti Vahidin Musemić mancò di un nulla. Lì la Jugoslavia perse l’occasione di vincere, come avrebbe meritato. Come vuole Nemesi, all’80° il medemo bosniaco aprì le gambe davanti a una staffilata su punizione di Santo Domingo che uccellò l’incolpevole Ilija Pantelić, regalandoci un insperato pareggio [tabellino | HL]. Supplementari in bianco conclusi verso l’una di notte rinviarono il tutto alla ripetizione della finale (un'occorrenza che poi rimase unica) due giorni dopo, sempre sul solito manto erboso (che mostrò tutta la perizia della plurisecolare tradizione dei giardinieri “all’italiana”: un primato ormai perduto se pensiamo ai nostri attuali supertecnologici campi di zolla frolla, e figuriamoci l’effetto odierno di 3 partite in meno di 60 ore …).
10 giugno 1968, Stadio Olimpico, Roma Con uno dei suoi atti potenti, Gigi Riva porta in vantaggio l'Italia |
Con 240 minuti alle spalle i nostri prodi erano ridotti come bracchetti dopo una domenica passata a correr dietro alla volpe. Costretto anche dalle furiose polemiche suscitate dalla prova scialba, fu gioco forza per Valcareggi inserire forze fresche. Ma imbroccò anche la quadra: rafforzò la Maginot con baby face Rosato al posto del medianone Ferrini e Salvadore al posto di Castano come libero, proponendo un 1-4-3-2 che affidò a Domenghini, Mazzola e all’inedito “Picchio” (ergo "trottola") De Sisti il compito di imbeccare il volitivo Pietruzzo e il redivivo Gigirriva. Improvvisamente giocammo, e alla grande, contro una squadra spenta che aveva dato tutto, e mancato l’occasione, nella gara precedente e che non poteva affidarsi a ricambi di qualità. Di questa partita abbiamo il filmato integrale e dunque possiamo goderne interamente il pathos [tabellino | HL | FM]. Fu Rombo di Tuono a spaccare la partita al 12°, proponendosi magnificamente all’imbucata di Domenghini, sul filo del fuorigioco (che non c’era, nonostante le furiose proteste slave [vedi]), e Anastasi a sigillarla con un magnifico avvitamento dal limite al 31°. Copertura e rilanci, secondo la nostra migliore tradizione pedatoria, caratterizzarono l’ora restante. Mentre dagli spalti cominciavano a essere lanciati razzi e bengala e l’Italia stava per conoscere il rito inedito (quanto ora consunto) dei caroselli automobilistici, quell’uomo garbato che è stato Nando Martellini si congedò dai telespettatori al fischio finale con una delle sue memorabili espressioni: “Signori all’ascolto, qualunque cosa io ora dicessi stonerebbe. L’Italia è campione d’Europa”.
Azor
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