Il mesto esordio del ‘63

La prima pagina de "Il calcio e il ciclismo illustrato",
con l'immagine di Edmondo Fabbri, dopo la sonora sconfitta
contro l'URSS a Mosca il 13 ottobre 1963
Euro storie

"Commissario tetnico": così definiva il suo incarico Edmondo Fabbri a dire di Gianni Brera, che in poche pennellate ne schizzò inequivocabilmente il profilo con tratti, in fondo, bonari ("a parlarci l'omino non è per niente coglione", la sua chiosa). "Mondino" (o  "Topolino", per la bassa statura) Fabbri è stata una delle macchiette più esilaranti della pedata italica degli anni '60, non fosse stato per i disastri che combinò con la nazionale maggiore. Poteva vantare dei passabili passati come ala guizzante nell'Atalanta, nell'Inter e nella Sampdoria negli anni '40; soprattutto fu protagonista, da allenatore, di una clamorosa scalata del Mantova dalla quarta serie alla A, tra il 1957 e il 1962, grazie anche all'intraprendenza di quell'uomo di calcio senza scrupoli che era Italo Allodi. Dopo due anni in cui il fantasmagorico Helenio Herrera non aveva vinto un tubo, ed anzi era rimasto impigliato nelle sue pratiche farmacologiche, Angelo Moratti si era allora deciso a chiamare all'Inter, nel maggio del 1962, la nuova coppia per provare finalmente a vincere (la stessa cosa avrebbe poi fatto il figlio, nella primavera del 2006, quando aveva già messo sul tavolo i contratti per Capello e Moggi). Per fortuna ci ripensò (il figlio invece fu costretto dagli eventi a ripensarci), ridando la panca ad HH, trattenendo saggiamente in società Allodi e dirottando Mondino a Verona. Che se la legò al dito, segando con le proprie mani il ramo del futuro professionale su cui si era appollaiato un po' per merito e tanto per fortuna.

La sua nomina a commissario "tetnico" avvenne infatti - sostiene Mastro Brera [Storia critica del calcio italiano, p. 331] - per meriti commensali, partecipando Mondino ogni lunedì sera alle sedute culinarie felsinee del Club del Tortellino ("asciutto e in brodo") coordinato da un'altra macchietta, benché più inquietante, quale era l'allora presidente della Federazione Italiana Giuoco Calcio, Giuseppe Pasquale, un ex pugile ferrarese che aveva scalato tutte le posizioni dirigenziali calcistiche dalla SPAL alla Lega alla Federazione, che guidò (anche dai tavoli di trattoria) dal 1961 al 1966 collezionando due disastrose partecipazioni ai Mondiali del Cile e d'Inghilterra (ai quali peraltro nemmeno si recò di persona per il terrore di viaggiare in aereo). Alcuni provvedimenti che cominciò ad avviare furono positivi - il formato della serie A reso più agile a 16 squadre -, altri più discutibili quanto  demagogici - il blocco degli stranieri - o di dubbia efficacia - come la trasformazione delle società professionistiche in SpA -, altri precursori, ma che ebbero un effetto boomerang sullo stesso Pasquale, come la legge antidoping, che colpì per primo proprio il Bologna, squadra della città nella quale si era trasferito e che gli costò innumerevoli charivari sotto le finestre di casa da parte degli inferociti tifosi locali (a dirla tutta fu anche minacciato di morte). L'ambiente dell'italica pedata era questo all'epoca. Esso appariva a Brera dominato da "incredibili errori, cafonaggini inaudite, stoltezze sesquipedali: e tutto questo a suon di miliardi, di travasi biliari, di gratuiti disastri" [Ivi, p. 319]. Insomma, qualcosa di simile al panorama attuale, ora fatto di presidenti che suonano chitarre rock e ballano in tv, parlano il latinorum, e non sanno più esprimersi in pubblico se non attraverso il turpiloquio.

2 dicembre 1962, Stadio Renato Dall'Ara, Bologna
L'immagine è vintage: Gianni Rivera segna il primo gol alla Turchia
Fatto sta che Mondino fu messo in sella alla nazionale maggiore inopinatamente, un po' come quella gente seria solo in apparenza degli inglesi ha or ora messo sulla panca della propria nazionale quel buon uomo di Roy Hodgson. Come quasi tutti i piccoli di statura, Mondino era però orgogliosissimo e si rifiutò a lungo di affidarsi ai giocatori che stavano facendo grande l'Inter proprio nei primi tempi del suo incarico "tetnico". Il credo calcistico del Club del Tortellino aborriva infatti il "catenaccio", cioè l'unica grande invenzione geometrica italiana dopo la prospettiva rinascimentale: la creazione dello spazio alle spalle dell'avversario (ma di questo parleremo in altro momento). Fu per questa via che la prima partecipazione italiana alla Coppa delle nazioni europee durò lo spazio di quattro partite, di cui purtroppo non abbiamo "riflessi filmati" e per le quali dobbiamo rifarci alle cronache. Illusorio fu il doppio confronto con l'inesistente Turchia: 6:0 al Renato Dall'Ara di Bologna (vedi un po') il 2 dicembre 1962 [tabellino], e 1:0 al BJK Inönü Stadyumu di Istanbul il 27 marzo 1963 [tabellino]. Un paio di mesi dopo l'Inter catenacciara vinse il suo primo scudetto dell’era Moratti-HH, ma Mondino e il suo Club ("asciutto e in brodo") non ne tennero il dovuto conto in vista della sfida degli ottavi che ci aveva dato in sorte i campioni in carica dell'URSS.

Il 13 ottobre 1963 allo Stadio Centrale Lenin di Mosca, di fronte alla consueta adunanza degli oltre 100.000, Mondino mandò in campo William Negri in porta, Cesare Maldini e Giacinto Facchetti terzini laterali, Aristide Guarneri stopper con accanto Sandro Salvadore, Giovanni Trapattoni mediano arretrato, Giacomo Bulgarelli in mezzo al campo, Mario Corso finta mezzala sinistra, Gianni Rivera dietro alle due punte, Angelo Benedicto Sormani, centrale, ed Ezio Pascutti, esterna e mobile [tabellino]. I russi furono cinici, affidando al "terzino-boia" Eduard Isaakovych Dubynskiy del CSKA Mosca la missione di neutralizzare i nostri manzi d'attacco: presto fatto, l'oriundo brasiliano fu sfregiato alla prima occasione da una tacchettata sulla faccia e rimase intronato per il resto dell'incontro, mentre l'irruento bulagnese fu falciato orrendamente alla prima occasione in cui aveva provato a ingobbirsi in contropiede; il pisquano anziché abbozzare mise le mani in faccia al truce sovietico, raggiungendo la doccia già al 23°. A quel punto la partita era finita. Ricorda Brera che "arretrato in mediana, Bulgarelli non vince un tackle che è uno sul finto interno Cislenko, che manda in gol Ponedelnik prima di andarci a sua volta. Maldini terzino d'ala, dopo anni che gioca da libero, è un non senso. Il centrocampo impostato su due atipici quali Corso e Rivera si conferma deficitario fino al dispetto". Insomma, un disastro.

La copertina de "Lo sport illustrato"
con una immagine della partita d'andata con l'URSS:
Corso sarebbe stato dunque l'unico italiano
a salvarsi dalla mareggiata
Al ritorno un mese dopo all'Olimpico di Roma, l'11 novembre 1963, l'ineffabile Mondino mise finalmente in campo la difesa dell'Inter, ma nella partita sbagliata, quando cioè occorreva attaccare: Giuliano Sarti, Tarcisio Burgnich, Giacinto Facchetti, Aristide Guarneri più Sandro Salvadore, in difesa; Angelo Domenghini cursore destro a mezzo il campo insieme con Giovanni Trapattoni, Giacomo Bulgarelli e Gianni Rivera; davanti Sandro Mazzola insieme con Giampaolo Menichelli. La nostra si risolse in "una disordinata e ingenua offensiva" punita dall'implacile contropiede di Gennadiy Gusarov al 33°: "il centrocampo porta palla e non è che imposti per lanci perentori". Gianni Rivera salvò l'onore (si fa per dire) all'89° [tabellino].

Con un po' di acume tattico, l'orgoglioso Topolino avrebbe dovuto mettere la formazione di Roma a Mosca e quella di Mosca a Roma. E magari ne sarebbe anche uscito vincitore. La sua pochezza emerse evidente, ma la responsabilità fu addossata ai pedatori, a cominciare da Pascutti. In realtà si trattò solo delle prove generali della ingloriosa spedizione di tre anni dopo in Inghilterra, preparata in maniera dilettantesca e meritatamente conclusasi per piede di un odontotecnico coreano - una delle stagioni più meste della nostra pedata, riassunta nella gesta eponime di Mondino Fabbri.

Azor