Se le dichiarazioni di Arthur Antunes Coimbra, in
arte Zico, sul trauma del Brasile 1982 – “If we had won that game, football
would have been different” – erano probabilmente rivolte in primo luogo al mondo
della pelota brasiliana [vedi],
nondimeno esse esprimono una convinzione radicata e diffusa: “that defeat for
Brazil was not beneficial for world football”.
L’interpretazione
“storico-critica” (per dirla alla Gioanbrerafucarlo) più convincente a me pare
quella data da Jonathan Wilson in un articolo dello scorso luglio in occasione
del trentennale: “Brazilians may like to claim that their defeat at the 1982
World Cup killed a great style of play but it was really the day that the
system triumphed over an already declining method” [vedi]. In sostanza, il gioco del
Brasile si affidava al grande movimento e alle giocate individuali dei suoi
centrocampisti, ma prevalse l’organizzazione, la qualità e la determinazione
degli Azzurri. Brian Glanville
osserva giustamente [nella sua Story of
the World Cup, London, 2010, p. 251] come quello si rivelò “the game in
which Brazil's glorious midfield, put finally to the test, could not make up
for the deficiencies behind and in front of it".
La disposizione tattica del Brasile |
A dirla tutta, cioè, quell’XI verde oro non era una squadra
di soli campioni, ma anche di qualche ronzino. A un centrocampo sontuoso – con
due registi bassi come Toninho Cerezo e Falcao e due trequartisti come Sócrates
e Zico – facevano da contrappeso una difesa modesta – con un portiere
improbabile come Waldir Peres e due centrali normali, quando non incerti, come
Oscar e Luizinho – e un centravanti di peso, capace di creare spazi, ma di cui
sempre Glanville ricorda come un critico brasiliano osservasse come “when
Serginho plays, the ball is square”. Ad affiancarlo in attacco era Eder, dotato
solo di una gran lecca di sinistro. Sulle fasce salivano i terzini Leandro e
Junior, buoni giocatori, soprattutto il secondo, ma con qualche amnesia nella
fase difensiva.
La partita è visibile in rete e ognuno può farsi un’idea di
quell’incontro [vedi]: secondo Wilson “the greatest World Cup game ever”
insieme a Ungheria-Uruguay del 1954 [vedi]. È possibile – come sostengono molti (tra cui i due
critici inglesi summenzionati) – che se a passare inizialmente in vantaggio
fosse stato il Brasile, il match avrebbe avuto un altro svolgimento: ma non ne
sarei così sicuro, perché – a vederli e rivederli – gli Azzurri scesero in
campo determinatissimi fin dal primo minuto, senza alcun timore reverenziale, e
convinti di poter sfruttare le debolezze difensive dei brasiliani. Nei primi
dieci minuti della partita – probabilmente i più belli di tutti i tempi della
nostra nazionale – il Brasile fu messo sotto, senza requie. Racconta Dino Zoff
[in Roberto De Ponti, Conversazioni con
Dino Zoff: Campioni del Mondo, Reggio Emilia, Aliberti, 2006, le citazioni
successive sono alle pp. 43 e sgg.] che nello spogliatoio, prima che la partita
cominciasse, Bearzot “seppe trovare le parole giuste per tranquillizzare il
gruppo”: “Siamo sicuri di essere poi così più deboli di loro? La pressione è
tutta sul Brasile: facciamogliela sentire, questa pressione. Questa potrebbe
essere la nostra ultima partita in questo Mondiale, allora giochiamocela alla
grande”.
Sempre Zoff svela alcuni particolari sui gol subiti, che
sono rimasti incisi (come quelli di Pablito, che “came suddenly and
sensationally to life”, nell’enfasi di Glanville) nella memoria di tutti. Sul
primo, frutto di una larga triangolazione tra Sócrates e Zico [rivedi], Dino
sottolinea come o Doutor tirò sul
primo palo “da distanza ravvicinatissima. Io il piede ce l’ho messo, quel palo
lo coprivo, ma il tiro era violento e preciso. In ogni caso, in quell’occasione
mi presi le mie responsabilità”. Sul secondo – forse il più bello dei cinque [rivedi] –
“Falcao fece una bella finta sulla destra che sbilanciò Scirea, poi tirò di
sinistro, che non era esattamente il suo piede, e io ero già sulla traiettoria.
Poi però Bergomi deviò in modo impercettibile il pallone, ma quel tanto che
bastava per alzarmi la traiettoria di una trentina di centimetri. Vidi che la
palla mi si alzava all’improvviso ma non riuscii a deviarla. Mi passò appena
sopra le mani e mi arrabbiai moltissimo per non essere riuscito a fermare quel
tiro”. Sulla parata “più importante” della sua carriera, quella sulla linea di
porta all’ultimo secondo sul colpo di testa di Oscar [rivedi],
Zoff svela come “passai i cinque secondi più lunghi della mia vita, terribili.
Fermai la palla lì, non ebbi il gesto di tirarla verso di me: ero terrorizzato
che l’arbitro potesse vedere male. I giocatori del Brasile alzavano le braccia chiedendo
il gol. Io cercavo l’arbitro e non lo vedevo. Poi quando l’ho visto spuntare da
dietro una selva di compagni e avversari e ho visto il guardalinee che rimaneva
fermo vicino alla bandierina, mi sono tranquillizzato”.
La memorabile marcatura che "Sala ed Din" Gentile riservò a Zico |
Fuori d’Italia – e mercé anche la nostra tradizione
culturale pedatoria – la partita è convenzionalmente passata alla storia come
il paradigma del confronto tra la scuola del gioco d’attacco e quella del gioco
di difesa. Se si ascolta la telecronaca della televisione spagnola, il
giornalista si riferisce sin dal pre-partita alla nostra tradizione del
“catenaccio”, peraltro per poi riconoscere sin da subito, non senza ammirata
sorpresa, che quell’Italia stava giocando magistralmente, e lontanissima da
quel cliché. Sempre Wilson
sottolinea come “Italy were in the phase of il
gioco all'Italiana rather than out-and-out catenaccio, but caution remained they underlying theme”. Uno
slittamento di senso – fatto proprio, per esempio, anche da Mario Sconcerti
[nella seconda parte della sua Storia delle idee del calcio] – che tende a interpretare la
contaminazione con il calcio olandese e tedesco degli anni settanta, avviata da
Fulvio Bernardini e sviluppata con esiti estetici (1978) e vincenti (1982) da
Enzo Bearzot, che innestò sul tralice della tradizione di Viani, Herrara e
Rocco (“Mi fazo catenaccio, lori xe prudenti”) le novità dell’eclettismo
individuale e della marcatura mista, a zona e a uomo. Una trasformazione che Wilson riassume tatticamente
nel “making the libero a far more rounded player, a converted inside-forward in
Gaetano Scirea rather than a converted full-back like Ivano Blason or Armando
Picchi, capable of stepping out from the back and making an extra midfielder
when his side had possession”. Ma che fu anche qualcosa di più delle memorabili
avanzate di Scirea, a testa alta e con stile maestoso, nelle metà campo
avversarie.
In effetti, in quei primi giorni di luglio affuocati dalla
calura catalana, mentre Mastro Brera si rivolgeva sl soprannaturale (“dovessi
impostare io la squadra contro il Brasile, incomincerei con un breve
pellegrinaggio al Tibidabo dove mi risulta che agisca in pro dei poveri cristi
una Madonna miracolosa” [Gianni Brera, Il
più bel gioco del mondo, Milano, Rizzoli, 2007, pp. 295 e sgg. ], Bearzot
preparò la partita magistralmente, immaginando e mettendo in pratica una grande
organizzazione di gioco, moderna perché capace di coniugare la tradizione di
marcamento a uomo con i rinnovati dettami della copertura a zona del campo, con
alcuni interpreti (Scirea, Tardelli, Conti, Cabrini) capaci di incarnare il
concetto di fondo del calcio totale, cioè l’eclettismo. Due sole marcature
fisse: una statica, di Collovati, sulla boa Serginho; una in continuo
movimento, di Gentile, su Zico, seguito fino alla toilette se necessario. Ma
tutte le altre disposte a zona: sulla fascia destra Oriali a impedire le
avanzate e i tiri di Eder, e, più avanti, Conti a impensierire le avanzate di
Junior; sulla sinistra, in assenza di un’ala destra brasiliana, Cabrini a
presidiare il territorio e a prendere in carico chi si facesse avanti tra Zico
e Sócrates, con Graziani capace di seguire Leandro da un’area all’altra. Ma
quando i giocatori brasiliani viravano al centro, o in diagonale, erano presi
in custodia da altri, in primo luogo Tardelli, che badava innanzitutto a Sócrates in mezzo al campo ma lasciandolo a Oriali
o a Cabrini sull’esterno. Scirea, nato centrocampista in quel di Bergamo, era
l’uomo in più, in un’infinità di spazi sia difensivi sia di impostazione. Più
avanti Antognoni andava a incontrare i tacchetti di Falcao e Cerezo, sulle
avanzate dei quali tagliavano la strada Conti e Graziani in prima battuta. Solo
Rossi era lasciato al suo caracollare da passerotto, ma se lo si osserva bene
rientrò nella nostra metà un’infinità di volte a coprire gli spazi. A guidare il
gruppo erano le urla di Dino Zoff, in un memorabile mantra patriarcale udibile ancor oggi
in telecronaca.
L'Italia 1982 in un ipotetico 4-2-3-1 anni Duemila |
Erano dei grandi giocatori, in effetti, alcuni dei veri e
propri campioni: Zoff, Tardelli e Scirea su tutti, a mio avviso. Che avrebbero
potuto benissimo interpretare anche il calcio attuale di pressing e di zona.
Proviamo a liberare la fantasia riflettendo un attimo sullo schema tattico
proposto qui accanto secondo i dettami dell’odierno 4-2-3-1. La linea difensiva
davanti a Zoff sarebbe composta da due esterni abilissimi in entrambe le fasi
(come ora si suol dire), tignosissimi sull’uomo ma anche capaci di crossare in
area palloni insidiosi come di andarli a prendere (basti pensare al traversone
di Gentile sul primo gol contro la Germania nella finale, con Cabrini che si
tuffa insieme a Rossi), e da due centrali come Collovati, votato alla
copertura, e Scirea, capace di fare cominciare l’azione da dietro con
precisione di lancio e passaggio. In mezzo due mediani come Oriali, taglio e
cucito, e Tardelli, calciatore “universale” prima di Sacchi e “totale” dopo
Michels. Rossi punta avanzata, con l’obbligo di fare movimento e creare spazi.
Alle sue spalle Antognoni, dalle grandi capacità di corsa e di tiro, oltre che
dotato di buon lancio. Sulle fasce, il genio e la copertura di Conti e la
“generosità” in ripiegamento di Graziani. Anche la panchina sarebbe sontuosa e
adattissima: Galli, capace di giocare la palla coi piedi; il duttile Bergomi
(per sempre immortalato nel duetto con Scirea in area teudisca nella finale del
Bernabeu) e Vierchowod, centrale difensivo velocissimo; Baresi, centromediano
totale e campione immenso; “pinna d’oro” Marini, interfaccia più euclidea di
Oriali; Dossena, uomo d’ordine e di qualche fosforo; Causio maestoso attaccante
di fascia e piedi raffinatissimi, e infine Altobelli, attaccante universale. Beh, sì: campioni del mondo. Non per caso.
Azor
Azor
(Dicembre 2012)