di Gianni Brera
Un paio di giorni dopo la finale Gianni Brera tirò un bilancio del secondo Mundial messicano sulle colonne di "Repubblica" non mancando di esaltare la bontà e l'efficacia del suo amato gioco difensivo, contro tutte le cicale del "bel gioco"
Un paio di giorni dopo la finale Gianni Brera tirò un bilancio del secondo Mundial messicano sulle colonne di "Repubblica" non mancando di esaltare la bontà e l'efficacia del suo amato gioco difensivo, contro tutte le cicale del "bel gioco"
San Giovanni non ha fatto inganni. Il calcio argentino ha
avuto il fatto suo smentendosi finalmente secondo che esigeva il buon senso.
Nessun Paese al mondo ha mai prodotto tanti campioni quanti l’Argentina: ma
sempre aveva perso i grandi appuntamenti con la storia per innata stronzaggine
dei suoi prodi. Anche questa volta la stupidità stava per trionfare. Il povero
dottor Bilardo veniva perseguitato perché si apprestava a snaturare (?) el gran juego argentino. Roba da
vomitare, pensate un po’: quel rozzo voleva un libero fisso alle spalle dello
stopper (o degli stoppers): non
voleva Passarella, gran cannoniere al cospetto del Signore; sopportava il solo
Maradona, e gabellandosi per fine psicologo lo induceva a farsi più uomo, a
ragionare da uomo-squadra, non più da solista mero. Il dottor Bilardo verrà
presto imprigionato come indegno. Ha vinto ma ha smentito gli imbecilli, in un
paese che ne vanta a milioni (Italia e Spagna sono buonissime fornitrici).
Presto rimetteranno fuori il capino fatuo gli amatori del "bel
gioco", dello spettacolo fine a se stesso: il calcio pratico verrà
deplorato come si merita. Gli argentini ricominceranno a mancare appuntamenti
con la storia. Finché non rinascerà un Bilardo dalle ceneri inconsunte dell’intelligenza.
E così sia.
29 giugno 1986, Estadio Azteca, Ciudad de México Diego Armando Maradona e Lothar Herbert Matthäus |
Il "nondum matura" di Esopo ci è già pervenuto da
Zagalo, che ha sempre fatto il contrario di quanto asserisce ma forse non ne
aveva coscienza. E’ stato lui il primo a battere in breccia il WM inglese: c’era
stato Prini-Fiorentina in Italia ma nessuno se n’era accorto, a incominciare
dal povero Bernardini dottor Pedata (1956). Era molto argentino anche il dottor
Pedata: anticipò di due anni il Brasile ‘58 ma non ne fece nulla perché sul
piano teorico predicava all’inglese (e razzolava bene per sola fortuna sua, non
del calcio italiano, Dio lo perdoni). Zagalo ha deplorato questo XIII Mundial
tacciandolo di eccessi difensivistici. In un brasiliano è perfettamente
normale. Anche perché i brasiliani sono tornati a casa per tempo, meritando
pienamente di tornarci. Pretendevano di giocare con i simboli, come Valcareggi
nel ‘74.
L’Argentina mi ha dato, vincendo, una soddisfazione che solo
i tedeschi, vincendo, avrebbero potuto darmi. Ho visto subito forte l’Argentina,
come sanno i miei lettori. Mi sono molto meravigliato quando dalla direzione mi
hanno chiesto spiegazioni sul difficile status dell’Italia, così deludente con
gli argentini. Siamo stati i soli a non perderci, con quella squadra
insolitamente pragmatica. A me pareva un miracolo: agli italiani, poareti, uno
sconcio. Vedo che adesso si sono accorti tutti di Burruchaga. Io l’ho visto
pazziare duettando con Giusti e, in seguito, con Maradona l’immenso. Dopo un
inizio folgorante, mi ha deluso Valdano. Ma certo è difficile emergere, quando
si pirla intorno a dei giganti. Maradona è stato salutato come il dio della
pelota in terra. In certi acuti ha superato Pelé, che nel complesso non valeva
(ripeto, per me) Alfredino Di Stefano. Per Pelé si deforma anche la storia,
assegnando a lui il mondiale ‘58, nel quale fu timido comprimario, e ancora il ‘62,
nel quale giocò una sola partita. L’apporto di Pelé fu determinante nel ‘70,
non in Svezia, dove grandeggiarono Didi, Vavà, Garrincha, Bellini, Orlando e
Zagalo, e neppure in Cile, dove grandeggiò su tutti Garrincha, e poi Mauro, il
libero, e quel caro mattocchio di Amarildo.
Avvicinandosi la finale, tutti stravidero per Maradona e
consigliarono a Beckenbauer di marcarlo ad
personam, diversamente da quanto avevano fatto inglesi e belgi. Beckenbauer
ha cancellato quasi Maradona, dimostrando indirettamente, e suo malgrado, che l’Argentina
era fatta di undici elementi, non di uno. Poiché la Germania ha perso, tutti
hanno creduto di capire che la colpa era del tecnico, il quale aveva snaturato
il centrocampo tedesco dedicando Matthaeus alla guardia di Maradona. Queste le
son gratuite fregnacce. Beckenbauer è bravo e intelligente: con la gente di cui
disponeva ha fatto il massimo. Ha imposto il nerbo e la serietà della sua rassa (meglio sarebbe dire della sua Kultur: le razze tedesche sono quattro:
nordica, baltica, falica e alpina). Molto immodestamente dirò di sentirmi fiero
per aver capito che i tedeschi erano forti proprio il giorno in cui le cicale
danesi li hanno messi sotto. In verità avevano creato e poi sbagliato 5 palle
gol. Purtroppo non avevano attaccanti. La riesumazione di Kalle Rummenigge è un
merito di Beckenbauer, il quale non ha colpa se Allofs e Voeller sono meno
agili di Galderisi e valgono quanto lui. La Germania è andata avanti imponendo
un metodo difensivo, come l’Argentina. E naturalmente molti diranno che ha
usurpato il posto in finale.
18 giugno 1986, Estadio La Corregidora, Querétaro Ricardo Gallego Redondo e Preben Elkjær Larsen |
Il calcio è difficile e può esser visto in molti modi: però
ha sempre più ragione chi vince. I russi giocavano un bel calcio, spensierato e
quindi fesso. Sono tornati come i danesi, che producevano un calcio anche più
bello: ma quando veniva chiamata in causa la loro difesa erano persi. Ai
francesi sono mancati Platini-regista e le punte, troppo brocche in confronto
del centrocampo. Ha segnato parecchio Platini ma da solo non poteva bastare: e
in centrocampo riposava. Era la metà del campione conosciuto gli altri anni in
Italia. Merito di un tecnico è portare al grande appuntamento la gente nella
forma migliore. Bilardo vi è riuscito a differenza di Michel. E vi è riuscito
Beckenbauer, confortato - come Bilardo - dalla ferrea convinzione difensivista.
Il Belgio si è anche difeso ottenendo risultati superiori ai suoi mezzi. In
attacco non aveva che Ceulemans: Scifo è grazioso ed elegante: batte bene: per
ora non ha la stoffa del regista: tanto meno è goleador (a parte l’abilità
balistica sui calci franchi). La Spagna ha fatto cinquina con i danesi, del
tutto dimentichi di avere anche una difesa. La superiorità pratica del
difensivismo, rispetto all'offensivismo, è data proprio da questo: che per
segnare, Elkjaer deve essere in vena; mentre per opporsi a Elkjaer basta una
metodica tenacia: inoltre, può soccorrerti anche la fortuna, inducendo il
goleador a sbagliare malamente. Con la Spagna ha fatto prodezze Butragueo, che
nessun danese si è degnato di notare. Marcato a modo, l’Avvoltoio è piccione
come gli altri.
Sui pianti destati dall'Italia è carità di patria non
tornare. I nostri magnifici azzurri sono ai bagni. Bearzot è scomparso.
Vecchiet non merita di venir disturbato. Per uno degli infiniti transfert di
cui approfittano gli italiani, tutti sono felicissimi del titolo mondiale
toccato all'Argentina e in particolare a Maradona, che si è deliziosamente
allenato a spese del Napoli. La situazione ricorda quella, tristissima, evocata
da una barzelletta romana. Dice: "Noantri semo poveri e gite nun ne famo.
La domenica si sta a casa. Nostro padre legge il giornale. Ogni tanto tira du’ scorregge
e noi tutti intorno a ride".
"La Repubblica", 1 luglio 1986