Alla fine degli anni '50, come si sa, il calcio italiano vive uno dei suoi momenti di maggiore crisi. La nazionale ne fa le spese. E le polemiche ardono. Mancata la qualificazione ai mondiali si Svezia, sulla panca azzurra siede ora il grande Giovanni Ferrari, pupillo di Monsù Poss. Ma le esigenze dei club (e del campionato) lo costringono ad assemblare la squadra alla bell'e meglio, proprio per una partita di grande fascino come quella che opponeva l'Italia alla Spagna (la Spagna di Suarez, Di Stéfano, Kubala, Gento). Era già accaduto nel '24 proprio a Monsù, prima di una difficile trasferta in Ungheria ... La presentazione del match e dei suoi contorni dettata da Pozzo a "La Stampa" è davvero esilarante.
Roma, 27 febbraio.
Questo incontro fra le squadre nazionali dell'Italia e della Spagna doveva essere un grande avvenimento. Le premesse, perché lo fosse, ci erano tutte: l'urto fra due compagini della stessa razza, dello stesso stile, delle stesse tendenze e consuetudini. Con, dietro a sé, un passato che era una tradizione smagliante. Da ogni incontro del passato erano scaturite scintille. Doveva essere la partita del temperamento. Per parte nostra essa è diventata invece, proprio alla vigilia, una cosa che torna un po' difficile da definire.
Per usare un sostantivo dal significato tenue, definiamo la situazione che esiste in questo momento in casa nostra come disorientamento. Il movente primo dello stato di cose imperante va ricercato nel campionato. Il quale è un orco: fabbrica i giocatori e poi se li mangia. Nell'ultima sua sequenza di gare egli si è fatto, a questo riguardo, una piccola scorpacciata: una collezione di distorsioni, di strappi, di stiramenti, di lesioni muscolari e articolari.
La cosa fece l'effetto del classico sasso nella piccionaia. Forza maggiore, si dirà. Quello che avvenne in seguito, sa, in certo qual modo, di speculazione sulla situazione insolita. Nel caos creatosi - caos al quale era possibile di mettere rimedio in un modo o nell'altro - vollero mettere le mani un po' tutti, particolarmente le società, a seconda degli interessi e delle convenienze. E' una storia divulgata tempo fa, come tante altre, per gabbare il mondo, quella che i grandi sodalizi diano la precedenza alla squadra nazionale e si pongano sull'attenti quando essa compare all'orizzonte. Il caso vuole che domenica 8 marzo, alla ripresa del campionato, si debbano incontrare l'Internazionale e la Fiorentina, due fra le unità che al momento attuale maggiori titoli posseggono per aggiudicarsi lo scudetto di campione. Subito, una di esse, quella che sta in testa, rese di ragione pubblica un elenco dei giocatori suoi che considerava indisponibili per la partita internazionale. E l'altra, quella che sta al secondo posto, reagì mandando sul campo due dirigenti suoi, i quali volevano imporre alla «Nazionale» il trio di attacco loro: nacque un abboccamento che per poco non sfociò in un alterco, e come conseguenza altri giocatori si ritirarono sotto la tenda. E la formazione della Squadra che deve rappresentare i nostri colori, si piega e si contorce per adattarsi a tutte queste rientranze e sporgenze, e fra nuove convocazioni, propositi enunciati prima e ritirati poi, e con gli «oriundi» che ritornano a galla, la squadra stessa cambia fattezze e nessuno la riconosce più.
Non vi è nulla, di nuovo sotto il sole. Nella primavera del 1924 si trovano ai ferri corti per la conquista del primato il Genoa e il Bologna. Al momento in cui bisogna andare a Budapest in aprile, per una partita internazionale amichevole, il Bologna nega i suoi uomini alla «Nazionale» e subito anche il Genoa dichiara che tutti i suoi sono indisponibili. E il Commissario Unico, che era poi l'umile sottoscritto, va in Ungheria con chi può - Combi esordiente fra altri - e perde per sette reti a una. Tutta una serie di telegrammi documentano quella triste storia che fu corroborata poi dalla sparatoria di Porta Nuova fra bolognesi e genoani.
Ritornando a noi, e non soffermandoci ulteriormente sull'episodio italiano di questa poco edificante vigilia di incontro internazionale, la conclusione da trarre è che da parte nostra l'avvenimento è stato travisato. Non è più quello che era, quello che si vorrebbe che fosse stato. A parte la squadra che non ha più la fisionomia che i responsabili desideravano, andando fino allo stato d'animo degli interessati - giocatori, dirigenti e un po' tutti - che necessariamente è un po' scosso. E' un peccato, perché l'undici nostro si presenta in campo in un atteggiamento morale che è diverso da quello che era indispensabile che fosse. Troppe scuse i nostri hanno l'aria di dover chiedere al pubblico prima ancora di scendere in campo. Una situazione incresciosa sotto tutti gli aspetti: dolorosa in sé, per il fatto specifico cioè, e dolorosa perché essa costituisce una ennesima conferma; una ulteriore prova che le cose, nell'ambiente calcistico del nostro paese, rimangono quello che erano e non cambiano affatto.
Nella contingenza fa spicco il contegno che tiene la comitiva dei nostri ospiti.
La loro squadra ha seguito una linea fin dal momento in cui è stata creata, si può dire. Le diatribe ci sono state prima, avendo per oggetto l'opportunità o meno di comprendere nell'undici gente che è nata e tecnicamente cresciuta all'estero e che spagnola è diventata solo per convenienza. La questione che da noi viene definita come «degli oriundi» cioè, e che in Spagna ha trovato uno sfogo in quella naturalizzazione che avviene laggiù con grande facilità. Si tratta, essenzialmente, di tre nomi nel caso specifico: tre nomi famosi, Di Stefano, Santamaria e Kubala. Di Stefano è un figlio di italiani nato in Argentina, che emigrò, a un certo momento, in Columbia, paese della Bengodi calcistica, per poi venire in Spagna e vedersi disputato a colpi di milioni dal Real Madrid e dal Barcellona. Di Di Stefano si deve ricordare il pubblico torinese, perché egli fu il centravanti della squadra del River Plate, che giocò a Torino per onorare la memoria degli undici granata caduti a Superga. Santamaria fu il centromediano che giocò per l'Uruguay nei campionati del mondo disputati in Svizzera nel '54. La sua posizione è nettamente irregolare, non essendo decorsi tre anni dall'ultimo incontro che egli ha disputato per gli uruguaiani.
E noi, per controbattere simile irregolarità, ne commettiamo un'altra, mobilitando Lojacono della Fiorentina, che si trova nelle identiche condizioni. Da buoni latini andiamo tutti quanti fuori legge, sottobraccio l'uno all'altro. E Kubala è un ungherese-cecoslovacco, che ha un po' la figura dell'apolide, che ha giocato un po' per tutti e che risiede da anni a Barcellona. Compongono la squadra della Spagna cinque giocatori del Barcellona, cinque del Redi Madrid, e uno del Valencia. Applicazione della teoria dei blocchi, direbbe qualcuno. Nelle circostanze in cui noi siamo incorsi, e di cui abbiamo detto, nessuna considerazione più si può fare di quelle che sull'incontro si sarebbero voluto fare. Loro hanno la squadra che hanno prescelto, noi quella che è nata da un brutto periodo di disorientamento. La palla è rotonda ed a noi non rimane che sperare nel caso. Il quale ne combina di tutti i colori e potrebbe anche, se volesse, in un momento di buon umore aiutarci una volta tanto. Le previsioni normali ci sono tutte avverse.
"La Stampa", 28 febbraio 1959, p. 9
L'incontro fra Ungheria e Italia del 1924 ebbe luogo il 6 aprile 1924 a Budapest, e Monsù ricordava perfettamente il risultato a distanza di 35 anni. L'episodio della sparatoria tra genoani e bolognesi risale invece al 5 luglio 1925, e ci torneremo su ...
La partita in Cineteca