Da Superga fino al trionfo


16 maggio 1976. "Ultima di campionato, non tutto è deciso. Il Toro ha una sola lunghezza di vantaggio e una partita apparentemente facile, in casa; la Juve una partita apparentemente facile, fuori casa. Cesena e Perugia possono già programmare le vacanze, non hanno più traguardi da conquistare. Ma si battono onestamente. Primi tempi in bianco. Secondo tempo. Renato Curi (già) infila Zoff; passano pochi minuti e Puliciclone schioda la sua partita. Mozzini (autorete) rimette tutto in discussione. Se la Juve rimonta e vince, è spareggio. Rimane il se. Lo scudetto va a quelli che l'hanno meritato. Per un solo giorno, il rumore dello schianto di Superga è coperto da frastuoni festosi e la città torna ad avere anche altri colori" (Michele Ansani, Lenta può essere l'orbita della sfera, p. 130).
A bene illustrare il significato del titolo granata, per i lettori di 'La Stampa', ci pensò il solito, magistrale Giovanni Arpino


Cosa significa questo nuovo, trionfale scudetto torinese? Cosa vogliono dire tanti stendardi, trentamila garofani all'occhiello, gli infiniti fiocchi granata che adornano fin da sabato notte la città, dalle nobili ombre dei portici al balconi della periferia? E cosa ci vogliono far capire i balli, gli abbracci, le estemporanee invenzioni, sia in piazza San Carlo sia nelle province piemontesi, con corse di tori, sbandieramene e brindisi? 
Pare un paradossale «compromesso storico» dedicato al pallone. La sede del club di Orfeo Pianelli è piantonata giorno e notte dai fedeli come se si trattasse di un tempio dedicato a Minerva. E gli echi, le ripercussioni di questo stato d'animo dureranno a lungo. Ma cosa ci trasmettono, e perché? 

Non basta rifarsi alla tragedia di ventisette anni fa, al rogo di Superga, alla lunga attesa delle tribù granatiere. Questo scudetto tinto di vermiglio, i fiori all'occhiello di tante persone costituiscono - seppur in modo inconscio - una rivincita prettamente torinese, piemontarda in ogni millimetro di osso e di midollo, in ogni goccia di sangue per ogni vena.
Perché la Juventus è universale, il Torino è un dialetto. La Madama è un «esperanto» anche calcistico, il Toro è gergo. E qui il peso del campanile trova finalmente sfogo, piedestallo, unicità espressiva, anche se l'immagine della squadra granata è amata per quanto seminarono, tanto tempo fa e in ogni luogo d'Italia, i gol e i lutti dei Valentino Mazzola e dei Maroso.
Oggi, Torino granatiera gode. Clamorosamente. Ma si chiude anche a versare una lacrima di commozione, nel groppo di tanta gioia, nel rilassarsi di tante tensioni. E si parla di calcio, di Pulici o Castellini o Claudio «poeta pelotero» solo per dar realtà a un sogno troppo vasto, quasi inabbracciablle. 
Uno può davvero ancorarsi a due poli nella vita: il giorno segnato 4 maggio '49, quando arrivò il fulmine mortifero di Superga e precipitò in lutto il Paese, e questa domenica, sofferta e goduta. Un ciclo si è chiuso per cominciare a crescere in ultra forma. 
Nessuno dubita sui meriti del Torello di Radix, generale gelido. Più del mito che anni fa crebbe ma anche dilaniò la squadra di Giagnoni, ha potuto il realismo del nuovo staff. Partito per trovare una propria dimensione definitiva, per autopianificarsi in vista dell'immediato futuro, il Toro di Gigi Radice è cresciuto da se stesso, così come il suo presidente Orfeo Pianelli, uomo «venuto dal presente», desiderava da tanto. Fino a scrivere nel gran libro del campionato, a caratteri rapidissimi, le tappe del derby, del riaggancio, del sorpasso: capitoli che passano con furia dalla storia recente alla leggenda tifosa, commossa e trepida e vera.  
Alla magna Juventus, che giocava il suo calcio generoso ma anche barocco, con punte di dispendio che vorremmo definire «liberty», il Torino dei «gemelli» , di Claudio, dell'ironico Pecci «Piedone» ha risposto con geometrie violentissime e probanti (tanto da spingermi a usare la definizione «Sturm und Drang» perché quel romantico assalto da  «tempesta e passione» sull'erba di un prato traduceva le attese degli appassionati in mosse giocoliere così rare in Italia). Qui sta la differenza tecnica, se vogliamo, e qui i diversi meriti di una annata di calcio italiana che ha visto tutti gli altri far da pallide comparse.

L'urto che la vittoria granatiera porta al mondo della nostra pelota è altamente positivo, propizio e da imitare. Una strada «globale» ma casalinga, senza inutili millanterie olandesi o teutoniche. Ed è una vittoria che farà del bene ulteriormente alle due società, ai loro diversi popoli sostenitori: perché cancella di colpo quei residui di vittimismo e di doloroso rimando che travagliavano l'animo granata; perché consente al club cugino e avversario di iniziare qualche mossa di rinnovamento; perché questo stesso club bianconero, perdendo seppur da «secondo» l'ennesimo titolo, scavalca di un balzo tutte le menzognere campagne contestatone che lo hanno assillato per almeno due anni; e perché, infine, un Torino di questo stampo, in una prossima Coppa Campioni, sarà squadra da vedere, con curiosità e responsabilità di giudizio. 
La festa grande non abbisogna di spiegazioni ulteriori: è un risultato, un traguardo di per sé. I vari mediconi della critica sportiva ora si chineranno a scrutare e diagnosticare tanti «perché». Lasciamoli fare: tanto non parlano il nostro dialetto. Limitiamoci a constatare questa legge: che almeno nello sport talvolta vince il migliore. La gioia popolare parte anche da qui.

Giovanni Arpino
[La Stampa, 17 maggio 1976, p. 3]