Decollo italiano (11 maggio 1930)


Il campionato, il primo a girone unico, non è ancora prossimo alla conclusione. Siamo ai primi di maggio (si tirerà fino a luglio), e l'Ambrosiana - un po' a sorpresa - capeggia la classifica. Juventus e Genoa (anzi: Genova) inseguono, a distanze ancora colmabili. Il 4 vanno tutte e tre in trasferta, partite insidiose ma non troppo. Poi il torneo si fermerà, perché la domenica successiva è in calendario un impegno della nazionale. Di estrema importanza e che - col senno di poi - segnerà una svolta nella storia del nostro calcio. La nazionale di Vittorio Pozzo (che da pochi mesi la conduce in solitudine e autonomia, dopo anni di commissioni tecniche) è attesa a Budapest, per l'ultima partita della Coppa Internazionale, il torneo cui partecipano le rappresentative dell'Europa centrale. Sono solo cinque, ma il torneo è lungo. Era iniziato a Praga, il 18 settembre 1927, quando i cechi avevano sfidato (e battuto) l'Austria. Finirà, appunto, domenica 11 maggio, con Italia Ungheria.

Kada (capitano boemo) e Blum (capitano austriaco)
Inizia la  I Coppa Internazionale

Vittorio Pozzo convoca i suoi per un allenamento infrasettimanale. A Pavia, giovedì primo maggio. Dodici giocatori: qualcuno viene da lontano, come Costantino che gioca nel Bari. La maggior parte di loro arriva da Torino, da Livorno si schioda Magnozzi, da Bologna Pitto, Tilio Ferraris da Roma. Il raduno è complicato dall'avventura occorsa ai cinque bianconeri (Combi, Rosetta, Calligaris, Orsi e Cesarini): raggiunta in treno Milano, devono cambiare e salire sul convoglio per Genova. Pavia è lungo quella direttrice ferroviaria, si sa. Ma il quintetto, per errore, si accomoda sull'accelerato per Torino. Cosa fanno, tornano indietro? No, a Novara c'è un auto che li aspetta e li accompagna a Pavia. Un po' in ritardo, ma l'allenamento si può svolgere. Una sgambata, contro la squadra locale. Un gol nel primo, undici nel secondo tempo.

Pozzo non sembra soddisfatto: "le condizioni fisiche e tecniche dei giocatori presenti a Pavia pur non essendo disastrose risultano tutt'altro che brillanti". Non a caso forse, Rosetta si procura una distorsione alla caviglia sinistra, e non è detto possa recuperare in tempo utile. Insomma, la "dura navigazione del campionato" ha appesantito le gambe. Tuttavia, se alla squadra manca freschezza, certamente non fa difetto "la tempra né l'attitudine al combattimento. Essa ha bisogno di cure e di raccoglimento prima di entrare in lizza" (La Stampa, 2 maggio, p. 5). Pozzo è esigente. Ad altri osservatori la squadra pare in condizioni eccellenti, "la difesa è sempre fortissima, la linea di sostegno particolarmente forte", solo l'attacco sembra da registrare (Corriere della sera, 2 maggio, p. 4).

La domenica di partite trascorre senza 'incidenti'. Pozza porta i giocatori a Tarcento, poco distante da Udine. Si riposano, fanno vita tranquilla, l'ambiente li coccola. C'è anche Rosetta. Il Friuli è perfetto per queste situazioni, la gente assomiglia un po' a quella del Piemonte, dice Monsù. Pozzo lavora sui dettagli, non lascia nulla al caso. Peccato che piova sempre; pioggerelline e temporali, e anche durante l'allenamento di rifinitura che oppone gli azzurri all'Udinese finisce per diluviare. Al campo c'è tantissima gente, le tribune sono pavesate, drappi tricolori e (ovviamente) bandiere nere. Le cose vanno relativamente meglio, assicura il commissario unico. "Gli azzurri mostrarono complessivamente un grado di efficienza fisica notevolmente migliorato da quello della settimana scorsa: ogni uomo è più fresco, più energico e più deciso. i mezzi fisici rispondono meglio alla volontà: il che non vuol dire però che le condizioni della squadra siano le ideali, tutt'altro. Non rallegra anche dovere affrontare la prova più difficile della stagione in una situazione che non è la migliore desiderabile: ma la volontà e la concordia del plotoncino di uomini a cui è affidata la difesa dei colori nostri in questa prova è tale da ispirare fiducia" (La Stampa, 9 maggio, p. 5).
Raggiunta Trieste, di venerdì la comitiva italiana parte per Budapest.

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Vent'anni fa, un gruppo di giovani con molta allegria e con grandi speranze partiva da Milano suddiviso in due modesti scompartimenti di seconda classe. Il programma comprendeva due notti e un giorno di treno, con cinque o sei cambi di vagone e con una prospettiva non molto invitante per quanto riguardava il servizio logistico niente affatto organizzato.
Ma il viaggio cominciò con molto buon umore. Anche perché in una panciuta valigia del più furbo della compagnia si era scoperto nientemeno che un completo campionario di salumeria e affini, con contorno di fiaschetti alquanto generosi. Era il frutto di una idea geniale appunto del più scaltro, che prima di partire aveva pensato bene di passare dal pizzicagnolo di famiglia e comperare ogni ben di Dio, facendo caricare il tutto naturalmente sul conto del suo inconsapevolmente generoso genitore. Quell'idea e quella valigia salvarono la situazione ... gastronomica dell'allegra comitiva che, senza il conforto di vagoni-letto o di vagoni-ristoranti, si avventurava alla meglio nel suo primissimo viaggio all'estero, puntando su Budapest.
Quella valigia provvidenziale era di Trerè e la comitiva non era altro che la Squadra Nazionale di calcio, che appena reduce da un clamoroso debutto avvnuto il 15 maggio del 1910 all'Arena di Milano, dove la rappresentativa francese aveva dovuto inchinarsi per sei punti a due davanti alle reclute azzurre, si avviava baldanzosamente verso il confine per cimentarsi nel suo primo incontro all'estero, addirittura contro gli Ungheresi, maestri nella palla al calcio e considerati fra i più forti giocatori al mondo.
Il risultato fu molto simile a quello ottenuto dieci giorni prima all'Arena: sei punti a uno, infatti. Ma con questa sola variante: che il numero sei era passato dall'altra parte. Eppure i pionieri della Nazionale italiana ricordano con nostalgia quel primo viaggio, che fu il punto di partenza di una marcia che oggi ha portato il calcio italiano alle stesse altezze dei maestri di quel tempo.

Oggi la squadra azzurra torna a Budapest. Ma non è più il modesto gruppetto che si avviava, fra la indifferenza e lo scetticismo dei più, forte solo della passione che animava i suoi componenti, vittima predestinata, ché l'esperienza, per farsi conquistare, esige lunghi anni di lavoro e di sacrificio.
La battaglia sportiva si può perdere ancora. Ma le condizioni sono profondamente mutate. La squadra azzurra giunge in Ungheria seguita dall'attenzione e dall'augurio di una enorme massa di sportivi, accompagnata da un uomo di Governo, e con le comodità che devono essere concesse a campioni che si battono ad armi pari per un primato europeo. Gli allievi di venti anni fa sono diventati a loro volta maestri.

[Emilio de Martino, 'Corriere della Sera', 10 maggio, p. 4].

Magiari e italiani: 26 maggio 1910

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Il match è di importanza assoluta. Vale la Coppa. E' praticamente una finale: chi si aggiudica i due punti scavalca Austria e Cecoslovacchia e sistema il trofeo in bacheca. Gli azzurri sarebbero messi meglio, se non avessero incassato due sconfitte nelle partite con gli austriaci, autentiche bestie nere, mai domati in ormai undici sfide. Il tabù ungherese è stato invece archiviato di recente, proprio nell'ambito di questa competizione: il 25 marzo 1928, a Roma, e si è trattato di una entusiasmante rimonta.

25 marzo 1928
Esultanza azzurra dopo il gol decisivo di Libonatti

I magiari giocano in casa, l'attesa è enorme, lo stadio del Ferencvaros si annuncia stipato e ribollente. Nel frattempo, tuttavia, Pozzo ha cambiato la squadra. Parecchi di coloro che a Roma piazzarono il colpo sono fuori dal giro, momentaneamente o definitivamente. Bernardini e Libonatti, per esempio, verranno saltuariamente rispolverati; De Prà, Pietroboni, Conti, Rossetti e Levratto non più. La grande novità - ovviamente - è Giuseppe Meazza. Quella di Budapest sarà la sua prima 'ufficiale' in maglia azzurra.

Pozzo 'sente' il momento, e lo fa sapere ai lettori del suo giornale. Esagera un po'? Lui sostiene di no. "Si può dire senza esagerare che mai incontro internazionale disputatosi sul continente europeo è stato finora circondato da una curiosità così intensa e da un'attesa cosi viva come questa". E poi tesse l'elogio della potenza magiara: esperienza, base tecnica e quantitativa, esportazione di giocatori d'alta qualità ('La Stampa', 10 maggio, p. 5). Budapest e Vienna sono ancora un'altra cosa da noi.

La comitiva azzurra è accolta con manifestazioni di entusiasmo e di amicizia. Anzi, con un certo subbuglio. Nel tardo pomeriggio del sabato è prevista la visita del campo di gioco. Si prendono le misure. Lungo centoventi metri, largo sessantaquattro. Tutto regolare. Ma totalmente privo d'erba, nudo, secco, duro, irregolare. Orsi trova "una striminzita e timida fogliolina di un millimetro o due" vicino a una bandierina del corner, la strappa e se la tiene "come piccolo cimelio". Rosetta probabilmente non giocherà. La squadra è concentrata, il morale degli uomini "saldo". Si rilassano in piscina, dove incrociano qualche giocatore avversario. Fraternizzano.

Trovare i biglietti è difficile. Grandi affari per i 'bagarini'. Molta gente attesa dall'Italia, forse è la prima grande trasferta degli italiani al seguito della loro nazionale. Hugo Meisl, il grande viennese, prevede difficoltà per l'Ungheria. Mancanza di sicurezza. Qualche giocatore 'superato'. Avranno grandi motivazioni, generate anche dai premi-partita. Ma, conclude, "gli azzurri italiani stanno attraversando un periodo di ascesa. Se giocheranno come a Francoforte gli Ungheresi non avranno motivi di rallegrarsi". Meisl fa riferimento al match vinto dall'Italia il precedente 2 marzo in terra tedesca; un avversario comunque e certamente, all'epoca, abbastanza facilmente addomesticabile dalla nazionale italiana. Tedesco sarà l'arbitro, Peco Bauwens, molto esperto, lo stesso della partita di Roma. Calcio d'inizio alle 17.

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Fu quella di Budapest la gran vittoria della nostra ricostituita e risorta squadra. L'undici nostro non aveva mai giocato come quel giorno sul vecchio campo del Ferencvaros. Un trionfo per il nostro giuoco collettivo, come esso era stato impostato ed eseguito, ed un trionfo per il valore tecnico dei singoli individui. A metà tempo eravamo ad uno a zero, per rete di Meazza: alla fine vincevamo per cinque a zero, per altre due reti di Meazza, ed una ciascuno di Magnozzi e Costantino. I due toscani Pitto e Magnozzi avevano per incarico di portare all'esaurimento il noto centro mediano ungherese Turay, che si smontava qualche volta con relativa facilità. Presero a cuore il compito. Ricordo che avvicinatomi alla linea del fallo, sentii che, ammiccando al magiaro, rosso in viso che sembrava stesse per scoppiare, l'uno dei due diceva all'altro, in pretto livornese, a mo' d'incoraggiamento: "Dài n'altro po', che se scuce!".


Pressione ungherese

La Coppa in palio era uno splendido oggetto in cristallo di Boemia, regalato dal Presidente della Federazione Cecoslovacca. Fu consegnata a me, perché la portassi in Italia, ed io, durante il viaggio di ritorno la tenevo sul tavolinetto del mio compartimento del vagone letto perché al di qua del confine ognuno voleva vederla.
[Vittorio Pozzo, Campioni del mondo, pp. 185-187].


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Di questa partita possediamo solo fonti scritte - nessun filmato, rarissime immagini. Ci sono le cronache dei giornali, che la esaltano in prima pagina; c'è la storiografia posteriore, ovviamente meno ricca di quella dedicata alle avventure nella Coppa del mondo. Pozzo mette l'accento sulla coesione, lo spirito indomito, il grande carattere dei suoi uomini. "Gli azzurri hanno dimostrato ieri in modo smagliante che cosa possono ottenere undici italiani disciplinati, ordinati, fermi nei loro propositi, fidenti nelle loro forze. Essi hanno detto a se stessi, al pubblico presente e al mondo sportivo e non sportivo che stava osservando da vicino e da lontano con attenzione e con curiosità, che cosa vogliono dire la concordia, l'unione, la volontà, la fede" ('La Stampa', 12 maggio). Pozzo ha una cultura cosmopolita, ha girato il mondo, non si deve credere che i suoi fossero davvero discorsi 'di regime', anche se al regime erano funzionali. Il suo orizzonte restava soprattutto il gioco, e il gioco la sua passione. Il suo spirito, più risorgimentale che fascista. Patriottico, senza dubbio: ma non provinciale e tanto meno meschino.

Pozzo non esalta nessuno dei suoi. Tutti hanno contribuito. Non mette un fuoriclasse sul piedistallo. Per lui c'è solo la squadra. Eppure ...

Eppure la partita di Budapest inaugura il decennio di Meazza. E il decennio di Meazza coincide con l'epoca dei maggiori successi conseguiti dalla nazionale italiana. L'epoca del grande decollo del nostro calcio. Il decollo è avvenuto a Budapest. Ma sarebbe stato ugualmente un volo così straordinario, senza Peppino Meazza?


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Mario Sconcerti, La differenza di Totti. Da Meazza a Baggio l'evoluzione del numero 10, pp. 1-9.

Il primo numero 10 italiano è stato probabilmente Guseppe Meazza ...
Era piccolo e apparentemente fragile, giocava centravanti nell'Ambrosiana da quando aveva 17 anni. Più irridente che coraggioso. Era geniale, decisivo e improvvido come si è sempre pensato debba essere un numero 10. A rigor di logica Meazza non ha paragoni, è stato il miglior giocatore italiano. A 21 anni era già arrivato ai cento gol in Serie A. Baggio ci arriverà a 27, Totti a 28, Mancini a 30 ...
Giuseppe Meazza è grande e sconosciuto alla maggior parte degli italiani di oggi. A malapena si ricorda che porta il suo nome lo stadio di Milan e Inter, detto impropriamente "San Siro". Meazza è stato due volte campione del mondo ...
Meazza aveva tutto del numero 10 fuorché il numero. Aveva piedi ottimi, senso del gioco e attitudine al gol. C'era qualcosa di straordinario ed eccessivo nel suo modo di essere il calcio. Sapeva fare tutto, sapeva fare troppo ...
E' significativo che oggi soltanto pochi sappiano chi è stato. Dimostra che la forza dello sport è sempre direttamente proporzionale alla comunicazione che lo muove. E soprattutto che il calcio è quasi soltanto cronaca, non ha né i mezzi né il tempo per diventare storia. Nessuno è in grado di giudicare Meazza, di confrontarlo con i giocatori del dopoguerra ...
Così è possibile che il miglior numero 10 sia stato semplicemente il primo, ma non lo sapremo mai ...
Di sicuro Meazza aveva numeri eccezionali. Pozzo lo fa debuttare in Nazionale nel 1930, a 20 anni. Approfitta di una partita che si gioca a Roma per togliere di squadra il centravanti titolare, il napoletano Sallustro, un vecchio fenomeno, una gloria vesuviana adorata e protetta. I tifosi del Napoli vanno in migliaia a Roma, trasferta non difficilissima a quei tempi, solo per fischiare il ragazzo che aveva messo fra le riserve Sallustro. Ci provano anche, lottano furiosamente contro la voglia di farsi trascinare da quel ragazzo che gioca al calcio come nessuno e che segna due gol in pochi minuti. Poi si fanno conquistare e cominciano a inneggiarlo ...
Pochi mesi dopo, a Budapest, si gioca la finale della Coppa Internazionale. E' l'alba di un nuovo tempo per il calcio. Sta per nascere la Coppa Rimet, si stanno affermando le Olimpiadi e i regimi forti. 
A Budapest sembra si giochi una partita mai nata. Solo una volta l'Italia ha battuto l'Ungheria in ogni tempo e anche quella volta parve rubare la partita. Loro giocano largo, aperto, elegante. Noi siamo incisivi ma storti, molto attenti alla difesa. Il catenaccio fondamentalmente non l'ha inventato nessuno. Noi lo abbiamo dentro dalla nascita.
Loro giocano meglio e si vede. Ballano calcio, sono i brasiliani d'Europa, splendidi e fragili come sempre. L'Italia sembra cedere da un momento all'altro, poi Ferraris batte una punizione che il portiere non trattiene. Entra Meazza e segna: 1 a 0.
Nel secondo tempo, fuga di Orsi e cross, colpo al volo di Meazza e altro gol: 2 a 0. Pochi minuti e avviene un prodigio che segna il tempo. E' il settantesimo minuto, Costantino tira diritto in porta, ma è tutto così sbagliato che il tiro diventa un cross. Non lo prende nessuno se non Peppin Meazza che aggancia e al volo porta la palla oltre i due difensori centrali. E' solo davanti ad Aknai, il portiere ungherese, gli si avvicina con scherno. Alza la mano, invita il portiere ad uscire, quasi si ferma. Aknai abbocca, non capisce, esce a valanga. E Meazza lo batte con un piccolo tocco sulla destra.
Questo salto improvviso oltre la difesa, questo piccolo miracolo di solitudine con irrisione del portiere compresa, verrà detto d'ora in poi "gol alla Meazza".
L'Italia vinse 5 a 0, conquistò il suo primo trofeo internazionale e lo fece con tre gol di Peppino Meazza. Fu una vittoria che ebbe grande riscontro politico e molto risalto sui giornali. Fosse successo adesso chissà cosa avremmo scritto di Meazza. Il punto è che nessuno oggi sa nemmeno cosa sia stata la Coppa Internazionale. E pochi potrebbero garantire sulla competitività di quel calcio. Ma uno che stoppa al volo un tiro sbagliato e con quello salta la difesa, chiama fuori il portiere e poi gli mette dolce la palla dove non arriva, è un grande calciatore in ogni epoca.


Mans