Credo l’abbia sentenziato il Mago, che il ruolo più difficile e più importante è, nel calcio, il centravanti – e il più facile il libero, come allora si diceva: un centrale arretrato e di contenuta mobilità, che se ne stava apparentemente rintanato fra lo stopper, altro centrale (ma più avanzato), e il portiere. Il centravanti, per l’appunto – fino agli anni Sessanta s’era detto (e lo cantava il Quartetto Cetra): il centrattacco –, finalizzatore estremo del gioco, come l’espada che viene, mortalmente magro e attillatissimo, a estinguere l’angoscia schiumante del toro col ricamo di una compassionevole trafittura. Ma quaranta o cinquant’anni fa non era né magro né attillato e nulla aveva del torero, il Bonimba: salvo – s’intende – quei gesti senza remissione.
Era Bonimba di baricentro basso – al modo d’altri venerabili pedatori, da Pelé a Capello a Gerd Müller a Maradona –, con piedi da hobbit che percuotevano le zolle di San Siro quasi a cavarne, dal di sotto, qualche riposta energia: come nessuno reggeva il contrasto, ringhiando e sgomitando, e sapeva scattare nel breve, efficacemente inelegante, cercando subito, appena s’aprisse un varco, il tiro potente di sinistro, secco, rasoterra, nell’angolo, o la semirovesciata diagonale; e, quando arrivava il cross buono, s’alzava in volo affidandosi al suo ineguagliabile testone, incorniciato da due orecchie ragguardevoli, che l’aiutavano a veleggiare al momento dello stacco.
Per me che sedevo sui gradini freddi dei popolari, col sedere accomodato sopra un cuscinetto di gommapiuma foderato di nerazzurro, e succhiavo intanto, nella lunga attesa del fischio, la bottiglietta dell’amaro diciottoisolabella, Bonimba si chiamava così per via del cognome, era ovvio, Boninsegna – nomen numen: non poteva non segnare uno che si chiamava così –, e per via delle bombe che, domenica dopo domenica, depositava nelle reti avversarie: Bonin-bomba, da cui, per una specie di crasi, Bonimba. E invece no, la mia doveva essere una pseudoetimologia, come la chiamano i glottologi; perché il creatore del nomignolo, il Vate sublime di Eupalla, aveva pensato al Bagonghi del circo equestre: a quel tipo di clown pezzente e tarchiato, ma simpatico, che litiga con quell’altro spilungone un po’ floscio, vestito d’argento, con la faccia antipatica ed esangue di Pierrot. Bonin-bagonghi, appunto – da cui non so, però, come fosse venuto fuori quel Bonimba … anziché un Bononghi …
A quel tempo i centravanti c’erano per davvero: centravanti come il Bonimba – ma il Bonimba era il meglio di tutti (salvo il Gigirriva, detto Rombodituono) –, che non tornavano indietro, ciondolando qua e là senza costrutto, per far salire la squadra (si dice) o (peggio) per far la fase difensiva … No, i centravanti di quel tempo se ne stavano nell’altra metà campo, ingrugnati, in perenne agguato, con perfidia di killer: aspettavano l’imbeccata di qualche fino dicitore – che so, nel caso suo, di un Mazzandro, oppure del Mandrake di San Michele Extra – o il cross succulento, o il traversone intorbidato da un rimpallo imprevisto, che percorreva l’area zeppa di gente, offrendosi allo stop, alla capocciata, alla volée.
A quel tempo, si giocava spesso (anche in nazionale) coi due centravanti: gli allenatori italiani, incluso il Macrochiappico (cioè Ferruccio Valcareggi), preferivano infatti contare su due tosti marcantoni a centro area e rinunciare alle ali, giacché nei lunghi corridoi delle fasce, infine, ci si potevano infilare anche i terzini – che poi sarebbero i laterali d’oggidì. Così, nel Cagliari e in azzurro furoreggiò quella coppia incredibile di Dioscuri tanto difformi e tanto temibili: il Riva, bellissimo nei gesti e nel profilo ch’era degno d’un conio traianeo, e il Bonimba, che pareva sgraziato e non lo era, instancabile e sempre cattivissimo. Pare non s’amassero – come non s’amarono mai, lo sappiamo, Mazzola e Corso –, e il Bonimba ritornò poi all’Inter, dov’era cresciuto ragazzino.
Nel giorno del settantesimo compleanno, non ne ricorderò la tarda (e dannatamente fortunata) stagione bianconera – il Bonimba mio personale è giocoforza solo quello in maglia nerazzurra, non c’è posto per altri –, ma rivedo nuovamente le sgroppate a perdifiato sugli altopiani del Messico, il servizio graziosamente reso al soave Abatino (che ne fu con inverecondia eroizzato) e il vano ma pur simbolico gollasso del pareggio momentaneo con Tostao, Pelé e lor degnissimi compagni; e (perché no?) la testolona offesa dalla lattina di Moenchengladbach, quella celeberrima che diede spunto al Peppin Prisco per la sua più strepitosa performance di avvocato e di tifoso.